Il dialogo dei monaci

Cari amici, desidero farvi partecipi di questo romanzo che non è per ammazzare il tempo ma per meditare. E' stato scritto come libro condiviso durante tutto il 2016 con cadenza quindicinale ed in molti hanno inviato suggerimenti, correzioni e miglioramenti. Se verrà pubblicato sarà un lavoro più nostro, a tante mani.

Renato Rosso

IL DIALOGO DEI MONACI

INTRODUZIONE

pag. 2

Le stelle si vedono solamente dopo che si è fatto buio, dopo la notte dei sensi, dopo la notte del dolore e della disperazione. Le stelle più belle sono quelle del mattino, ma anche le prime che appaiono verso sera e quelle delle notti profonde sulle montagne o nel deserto. Ci sono poi le stelle del giorno, che non si vedono per eccesso di luce: eppure sappiamo che in quel concavo cielo esistono, nelle loro maestose esplosioni.

Ebbene, le stelle di tutte le galassie dell’universo, nel buio profondo, tracciano una scritta: L’unico errore della vita è non essere santi, cioè non amare ed essere privi della gioia.

Mentre guardo il Cielo, non ho la pretesa di fare un altro impianto teologico per parlare di Dio, perché so che anche le Teologie passano. Desidero solamente parlare delle cose di Dio con le domande di un novizio che si è abituato, nella vita, a nutrirsi di risposte vere, ma un poco arrugginite dal tempo; risposte che non necessariamente si limitano a quelle che seguono, ma rappresentano soltanto uno stimolo per continuare a cercare. Proviamo, perciò, a mettere in questione alcune domande un tantino scottanti che, tuttavia, non sono nemmeno le più importanti.

Nel testo s’incontrano, in effetti, parabole e testi più adatti a bambini che a studenti di teologia, quindi appunti spesso privi di una coerenza sintetica, ma pur sempre tracce che possono far riflettere. Vorrei consegnarle a chi ha finito il corso di teologia, a chi studia in seminario o in qualunque università teologica, come una tesi da sviluppare per approfondire le risposte incomplete dello starez. [1]

Il test che segue può servire ad esaminare la maturità teologica dello studente, se questi si cimenterà nel completare o confutare le risposte ancora acerbe o ereticali. Qualora questa tesi non venga sviluppata, il presente lavoro dovrà considerarsi incompiuto.

[1] “Starez vuol dire maestro e istitutore di Dio, che ha discernimento, che vede i pensieri e i peccati delle persone che gli si rivolgono, una persona che prega per tutti. Starez è colui dal quale si recano le persone per ‘aprire la propria anima’, per piangere il proprio dolore, colui dal quale si aspettano guarigioni e dal quale si spera di ricevere consigli nelle situazioni difficili ed inestricabili.”

Capitolo I

TEOFILO SALE SULLA MONTAGNA

pag. 3-13

Il viaggio

Teofilo aveva sentito che un anacoreta viveva in un piccolo eremo sulla montagna. Poiché era diventato molto anziano, Teofilo pensò che avrebbe potuto aver bisogno di qualcuno che, di tanto in tanto, potesse aiutarlo in qualche piccolo servizio.

S’incamminò perciò sul monte ma, con sorpresa, man mano che si avvicinava all’eremo che aveva intravisto dalla valle opposta, provava un desiderio folle di andarci per rimanere e non tornare mai più sui suoi passi, né dagli amici, né dai genitori. Sentiva inspiegabilmente che si chiudeva un capitolo della sua vita.

Quando arrivò, si prostrò fino a terra davanti all’anacoreta e, invece di dirgli che era andato per offrirgli soltanto qualche servizio, gli confessò:

«Padre, sono venuto a vivere con Voi, se mi accetterete».

L’occhio acuto dell’anziano colse all’istante che nel giovane c’era un’anima grande e, senza una parola di risposta, entrò nell’eremo e uscì quasi subito. Teneva in mano un abito come il suo e gli disse:

«Questo vestito apparteneva a un giovane che era vissuto con me pochi anni e poi aveva raggiunto il Vero Eremo della sua vita. Non ci sono risposte perché il Signore abbia chiamato a sé un uomo così giovane e abbia ancora lasciato qui questo vecchio. Eccolo, Teofilo: è la tua nuova divisa. Il cammino sarà lungo, faticoso, ma anche

affascinante e, se lo vuoi, può cominciare oggi stesso».

Teofilo baciò quell’abito ed entrò a dividere il poverissimo pasto che l’anziano aveva preparato per sé.

S’incamminarono poi sulla montagna, mentre Teofilo iniziò a raccontare un poco della sua vita e come era arrivato all’eremo.

In realtà su quel monte c’erano due eremi, uno per l’anziano uomo di Dio e l’altro per qualche ospite. Il secondo diventò l’abitazione di Teofilo che, il giorno seguente, iniziò a tagliare legna e portare pietre per costruire un terzo eremo per gli ospiti.

Il ramo volante

Prima della compieta della sera, lo starez disse a Teofilo:

«Stai iniziando un’avventura nuova, affascinato dal silenzio, dal dono della preghiera e anche dalla vita comunitaria. Siamo solo in due, ma sai che, dove due o più sono riuniti nel nome di Gesù, Egli sta in mezzo a loro. Tuttavia, non tutto sarà festa. Incontreremo momenti difficili, ma non tali da impedirci il cammino che porta alla contemplazione e alla “lode perenne” a nome nostro e di tutta la Santa Chiesa. Ti lascio un rotolo per riposarti, quando avrai un momento».

Stanco per il pesante lavoro della giornata, Teofilo si addormentò, pensando di ritagliarsi un po’ di tempo il giorno seguente, ma prima utilizzò quel testo come meditazione:

Da solo, Ariatide non sapeva cosa scegliere di fare nella vita: avrebbe desiderato dipingere e scolpire la gloria di Dio, predicare a tutti il Vangelo di Gesù o, ancora, restare a lavorare i campi con i suoi fratelli e glorificare Dio con una famiglia ricca di figli, chiedendo al buon Dio di aiutarlo nello scegliere la strada giusta.

Un giorno un Angelo gli apparve: “Mi ha mandato il Signore per aiutarti a scegliere come vivere nella vita”. Poi staccò un ramo da un albero e invitò il giovane a sedervisi e ad iniziare un lungo viaggio per capire il suo futuro. Spiegò ad Ariatide che dovunque avesse desiderato andare, il ramo l’avrebbe trasportato alla velocità del pensiero. Prima di lasciarlo, l’Angelo gli rivelò che, al trentesimo giorno, il ramo si sarebbe nuovamente innestato all’albero d’origine e che lui avrebbe concluso il viaggio.

Subito Ariatide fu trasportato a Gerusalemme dove, unito a tanti pellegrini, baciò i luoghi santi. Si spostò quindi a Nazareth, a Betlemme e, ricordando i Viaggi di San Paolo, volle raggiungere Atene, dove trovò gli abitanti molto occupati; raggiunse ancora Efeso, Corinto e, la sera dello stesso giorno, si fermò ad Alessandria d’Egitto. Quasi ubriaco per la gioia di poter correre così in fretta, si rese conto che, pur avendo sorvolato tanti luoghi, di fatto non aveva visto nulla. Decise perciò di ripercorrerli e si fermò con un popolo buono e semplice. Si rese conto che ad Atene, per esempio, avrebbe potuto studiare e acquisire quella scienza che gli era sempre stata negata nel suo piccolo villaggio. Mentre sostava, tuttavia, pensò che avrebbe potuto continuare a fare il navigatore anche dopo i trenta giorni concessi dall’Angelo, oppure che avrebbe potuto pescare.

Ariatide adorava pescare, specialmente di notte. Oh, sì, avrebbe potuto fare il pescatore! Intanto programmò alcuni viaggi a Roma, poi in Africa, e ancora nell’Estremo Oriente: l’avevano sempre affascinato quei paesi sconosciuti. Del resto, aveva ancora due settimane a disposizione prima di poter scegliere il suo futuro. Decise così di ripassare con più calma sul monte Nebo in Giordania, per poi tornare a Gerusalemme, ma lì vide delle grotte e dei monaci che pregavano. Allora si avvicinò e si nascose in una spaccatura

della roccia: rimase là per ore e ore, incantato dagli occhi di quegli uomini che vedevano l’invisibile. I monaci contemplavano Dio e Ariatide contemplava i loro occhi.

Il tempo passò. Si susseguirono le settimane nel digiuno e nella preghiera. Il nostro viaggiatore dimenticò di aver fatto tanti programmi di altrettanti viaggi. Il ramo che l’aveva trasportato si era già innestato da tempo al suo albero e Ariatide, svegliandosi come da un sonno, si presentò all’Archimandrita, che gli domandò:

«Visto che vuoi venire a vivere con noi, qual è la ragione che più ti spinge a voler essere monaco?».

«Ho provato tanta gioia a contemplare gli occhi di coloro che vedono l’invisibile» rispose Ariatide.

«Vorresti vederlo anche tu? Vieni e lo vedrai».

Ariatide moltiplicò digiuni e penitenze, ma non riusciva a vedere ciò che desiderava. Dopo alcuni mesi si rivolse a un confratello per chiedere se veramente vedeva l’invisibile e questi gli rispose:

«Io no, ma la nostra comunità sì».

Poi lo domandò a un altro, ricevendo la stessa risposta. Andò allora dall’Archimandrita per dirgli che si era sbagliato e che pensava di tornare a casa, forse a pescare, ma prima lo ascoltò:

«La comunità è un corpo che contempla l’invisibile. Tu puoi essere una mano, un piede. E la mano non vede, ma il corpo di cui fa parte sì. Tu puoi essere il cuore, ma sai che batte giorno e notte perché il corpo possa vedere, anche se rimane al buio per tutta la vita. Non ti basta?».

«Resto – disse Ariatide – anche se non lo vedrò mai».

E, in quel momento, gli si aprirono gli occhi.

Agostino, monaco di gioia

Un paio di giorni dopo, Teofilo si rivolse allo starez:

«Padre, mi sembra di non poter più fare a meno di questo luogo».

L’anziano, invece di dargli una risposta, si diresse verso un armadio dove teneva altri rotoli forse scritti da lui e ne prese uno, che posò sul tavolo.

Teofilo chiese ancora:

«Padre, perché mai – senza eccezione per religiosi e consacrati, laici, sposati e no, celibi per scelta o per malattia – ciascuno deve incontrare così tanta fatica per crescere nell’ascetica, nell’umiltà e nella santità?».

«Figlio, ci sono tante risposte nel Vangelo, in San Paolo, nella storia della Chiesa e nella nostra esperienza personale, ma oggi ti vedo stanco e preferisco farti leggere un altro rotolo, che potrà rilassarti e aiutarti nello stesso tempo».

Teofilo guardò il titolo quasi banale: “Agostino, monaco di gioia” e si ritirò a leggere.

Agostino era entrato nel monastero molto giovane. La sua bontà era naturale. Non era fatica per lui il lavoro pesante nei campi, né era sforzo la preghiera prolungata, anzi più tempo poteva dedicarle, più si rallegrava. Essere povero, casto e ubbidiente non gli era mai

costato più di tanto: per indole era staccato dalle cose di questo mondo, né aveva pensieri e desideri per sé, ma solo per il bene degli altri e considerava che ubbidire a un superiore gli rendesse ancora più facile la vita.

Aveva parlato di queste cose con l’Abate – anche perché si avvicinava la scelta dei Voti perpetui – e spiegato come aveva potuto che la vita per lui nel monastero presentava soltanto aspetti positivi. Aveva cercato di digiunare, ma si era accorto che i monaci iniziavano a nutrire una grande stima per lui, perciò aveva smesso e cercato di apparire il più possibile come gli altri, per evitare ogni speciale considerazione.

L’Abate voleva aiutarlo nella sua vita ascetica, ma si rendeva conto che nulla poteva turbarlo. Per offrirgli qualche possibilità, chiamò perciò il monaco Daniele e gli disse:

“Per ubbidienza, da domani cercherai di trattare nel modo peggiore Agostino: nel monastero non incontra nessuna fatica e dobbiamo aiutarlo a scontrarsi con una realtà avversa, affinché possa santificarsi superandola”.

Daniele chinò la testa e sussurrò appena:

“Proprio a me doveva chiedere questo? A me, che gli sono così amico? Comunque ubbidisco”.

L’Abate soggiunse:

“Più riuscirai ad essere crudele, più farai l’ubbidienza e più aiuterai Agostino”.

Si lasciarono. Andarono a pregare la compieta, poi a riposare, ma a Daniele il sonno non venne. Il mattino seguente, iniziando il lavoro, appena passò accanto ad Agostino, gli diede due schiaffi violenti e senza ragione, tanto da lasciarlo per un momento stordito.

Nessuno dei due disse una parola e ciascuno andò al proprio lavoro, ma Agostino si domandò: “Che cosa vorrà dirmi Dio con questo?”. Fece un lungo esame di coscienza e, non trovando particolari mancanze, cercò di aumentare la sua attenzione nel non offendere nessuno. Tuttavia, quando lo rincontrò nel pomeriggio, Daniele lo insultò ancora:

“Ti rendi conto di quando sei idiota?”. E se ne andò.

Nella notte, Daniele pianse tutte le sue lacrime e Agostino pregò per il suo amico, diventato avversario per qualche inspiegabile ragione: “Certamente passa un momento molto difficile: lo aiuterò con la preghiera, pensava”.

Il giorno dopo Daniele cercò di essere meno grossolano, ma più tagliente:

“Non sono arrabbiato con te, vorrei solo che ti svegliassi un poco. Stai fingendo di essere buono, il migliore, per farti apprezzare. Se ne accorgono tutti e ridono di questo tuo modo di fare. Sei diventato la barzelletta del monastero”.

Agostino non ebbe il tempo di ragionare per dargli una risposta prima che scappasse quasi furioso.

Dopo una settimana, Daniele andò dall’Abate:

“Fin quando dovrò massacrare l’anima di Agostino in questo modo?”.

“Continua” fu la sua risposta.

Anche Agostino confidò all’Abate:

“Padre, sono molto preoccupato per il fratello Daniele. Probabilmente passa un momento difficile. Preghi molto per lui, faccia pregare e, se può, lo aiuti”.

Si lasciarono. L’Abate, poi, per evitare che Agostino pensasse che il problema potesse essere Daniele, chiamò altri due monaci e altri due ancora, ai quali diede lo stesso incarico. Quando Agostino capì che non era Daniele, né gli altri che nel frattempo avevano cominciato a farlo soffrire, pensò che il problema fosse tra lui e Dio stesso. A quel punto, si rallegrò molto per aver qualcosa da offrire che prima gli era mancato e cominciò a pregare: “Signore, cosa posso aver fatto di tanto bello, santo e gradito a Te, per meritare di avere qualche lacrima da aggiungere al tuo sangue per la salvezza del mondo?”. E così gioiva ogni volta di più, nelle sue umiliazioni.

Qualche tempo dopo, l’Abate gli disse che il giorno seguente avrebbe dovuto lasciare il monastero. Non fu richiesta nessuna spiegazione. Il giovane baciò i piedi del suo Superiore, con il quale non aveva mai discusso l’ubbidienza, e passò l’intera notte in ginocchio davanti all’altare per dire grazie. Finalmente gli veniva chiesta la fraternità, il dono più grande che aveva ricevuto nella vita.

Se Dio chiedeva questo, certamente aveva un senso. E passò tutto il tempo a ringraziare di poter offrire. Prima che suonasse la campana per svegliare il monastero, si alzò in piedi e intonò il Magnificat a voce alta, pensando di essere solo nella chiesa, ma subito il suo canto diventò un coro fatto di canto e lacrime: era il coro di tutta la fraternità che, per l’intera notte, senza che lui se ne accorgesse, aveva vegliato e pregato per lui nella stessa chiesa.

Quando si rese conto di ciò che era capitato, prima di voltarsi indietro e rallegrarsi per tutta quella solidarietà, tirò su il cappuccio e abbassò la testa, mentre s’incamminava per uscire. L’Abate, che l’aspettava per salutarlo, appena varcata la soglia, gli disse:

“Dalla porta che hai appena lasciato finisce il monastero ‘dentro le mura’ e inizia quello ‘fuori le mura’. Resterai appena 40 giorni in questo monastero senza mura, né porte, né finestre. Se non riuscirai a vivere se non recluso, dovrò chiederti di lasciarlo e non potrai più restare con noi. Se dopo 40 giorni tornerai, ci comunicheremo se ti ha avvicinato di più a Dio e ai fratelli il monastero fuori le mura o quello dentro. Mi consegnerai la risposta di Dio e la tua e le firmerò per l’inizio della tua nuova avventura”.

Mentre Teofilo leggeva quelle righe, si rendeva conto del rischio che correva anche lui, cioè di non essere quasi più capace di vivere senza quell’eremo sulla montagna, e, intanto, avvertiva la necessità di dover essere più libero nei confronti di quello stato di vita che stava scegliendo. Allo stesso tempo, percepiva la grandezza del dono di poter dedicare tutta la vita alla preghiera, alla meditazione, accanto a un anziano che poteva guidarlo all’eterno abbraccio con Dio. Eppure, di tanto in tanto, era scosso dal timore di perderlo. Perciò, riconsegnando il rotolo, ammise:

«Padre, sono attanagliato da una tristezza infinita. Voi sapete che spesso i dubbi, le paure e persino le angosce entrano con molta facilità dentro le mura del mio eremo interiore e la scorsa sera ho pianto tanto. Mi ha invaso il timore di esserne indegno e di doverlo lasciare, perdendo l’occasione di fare un cammino così prezioso e, in definitiva, di perdere l’abbraccio eterno di Dio, la vita eterna».

«E per quale ragione Dio dovrebbe negarti il dono della vita eterna?».

«Nella mia vita ho sempre desiderato amare, ma mi sembra di non esserci mai riuscito. Avrei voluto avere un affetto di fuoco, quando m’inginocchiavo di fronte al Signore o quand’ero vicino a un compagno di viaggio, ma mi sono sempre trovato con un cuore assiderato, un pezzo di ghiaccio. Temo, Padre, di non aver mai amato nessuno. Proprio per questa mia debolezza sento tanto più forte il desiderio di poterLo abbracciare intensamente e per sempre almeno dopo la morte, e in Lui abbracciare l’affetto del mondo intero.

Padre, vorrei avere la stessa passione, anzi infinitamente più forte, di quel giovane che mi ha confidato: “Non desidero altro che correre, correre e raggiungere lei, poi abbracciarla stretta e poterle dire ‘Sei tutta mia’. Anch’io vorrei correre da Lui, il mio Signore, per abbracciarlo con tutto me stesso, dicendoGli: “Sono tutto tuo”. E non staccarmi più per l’eternità. È un desiderio tanto grande, che sono stato assalito dal timore di perdere questo dono. Non ho alcun diritto di pretendere un simile regalo. Me lo darà certo come mi ha regalato la vita, ma se non me l’avesse data, avrei forse potuto emergere dal nulla e vantare una qualche pretesa per averla? E se, dopo la morte, il mio cuore ghiacciato fosse incapace di accogliere quell’abbraccio, quale diritto potrei presentare?».

«Ma Gesù Cristo non è morto per te? Non ha dato la vita per te?».

«Sì, certo, Lui mi ha dato tutto, ma sono io che non sono stato capace di aprire le mani. Lui ha inondato di luce la mia casa per anni, ma a me sembra di non aver mai aperto le finestre. Se il Signore mi negasse questo abbraccio, che sempre di più desidero, non sarebbe Lui in torto, ma io, perché non mi sono allenato ad abbracciare e potrei trovarmi in quel momento con le braccia paralizzate».

«Teofilo, sei troppo distante dal capire cos’è un cuore di Dio che vuol solo bene. Vai a riposare, ti richiamerò per continuare il nostro dialogo. Ti lascio la benedizione e una sola parola: Ricordati che tutte le fibre più segrete del tuo corpo e del tuo spirito sono state amate da Lui e quando Lui ama anche solo una pietra, quella non si può più staccare da Lui e diventerà una pietra dei Cieli nuovi e Terra nuova per tutta l’eternità. Buonanotte» e gli lasciò rotolare tra le mani un testo, che subito raccolse.

«Grazie, Padre, per l’ultima risposta che mi avete appena dato, forse è la parola di cui avevo bisogno».

Poi s’inginocchiò, baciò la terra, fece il segno della croce e si congedò. Era stanco, ma non poté resistere alla tentazione di aprire quel rotolo e leggerlo. Il titolo, “Lettera a una margherita”, gli parve strano. Non immaginava certo quale messaggio potesse portargli, comunque non solo lo lesse, ma si fermò a lungo a meditarlo.

Lettera a una margherita

Carissima margherita,

questa mattina, passandoti vicino mentre meditavo sulla creazione, ti ho detto qualcosa che avrebbe potuto stupirti: “Lo sai che stai dipingendo icone?”. E tu non ti sei distratta, sei rimasta immobile, te stessa, in assoluto silenzio, con i tuoi quattordici petali, ad assaporare la vita e la presenza di un amico che adesso sta vicino a te, e ti scrive una lettera.

Da alcuni giorni sto pensando a una nuova immagine, a un nuovo volto per un’icona che aiuti a pregare. Oggi mi sono preso una giornata di riposo e ho incontrato te. Ti ho detto che stai dipingendo icone anche tu. Lo sapevi? No, non lo sapevi e non potevi saperlo, però questa affermazione è tanto vera come è vero che io esisto. Tu, che fiorisci per un momento, sei una piccola parte dell’universo e, quindi, del mio corpo. Esso, infatti, non è solo la mia testa, con gli occhi che ti guardano, o i miei piedi, che sono venuti fin qui da te. E i miei polmoni non sono chiusi dentro una cassa toracica, ma si propagano nell’aria, fino alle foglie degli alberi che stanno producendo l’ossigeno raccolto nel vento e fatto circolare da temperature diverse. Anche le tue foglioline hanno prodotto una piccola porzione di questo ossigeno. I miei polmoni, perciò, si estendono abbracciando tutta l’atmosfera con la pressione prodotta dalle masse e quindi dalla terra stessa: nessun granellino di sabbia è escluso dal formarli. Così il mio corpo, radicato in tutte le piante che stanno producendo frutti per la sua vita, è in realtà una piccolissima parte del mio corpo più grande, l’universo.

Cara margherita, potresti pensare di essere tanto staccata e distante da me da non riuscire a immaginare di essere parte del mio corpo. Cercherò di spiegarmi meglio: le mie mani non pensano, eppure anch’esse stanno dipingendo icone; voglio dire che fanno parte di un corpo che sta dipingendo per compiere la sua missione. I miei piedi, il mio sangue, i miei tendini sono in qualche modo materia non pensante, ma fanno parte di un corpo che sta pensando e scrivendo una lettera a te, cara margherita.

Ecco, i pochi capelli rimasti stanno pure pensando a questa nuova icona, al punto che finiscono per diventare bianchi o staccarsi del tutto a causa della stanchezza e del tempo che passa, ma dire che i miei capelli stanno pensando e dipingendo è tanto vero quanto il fatto che lo sto dicendo a te. Guarda: ne ho staccati un paio e te li ho messi vicino, perché tu possa capire meglio. Essi erano parte del mio corpo prima e adesso continuano ad esserlo allo stesso modo, anche se ora sono un poco più distanti. Potrei addirittura trapiantarli.

Come vedi, noi siamo un corpo solo. Per questo mi sento molto responsabile quando compio una qualsiasi azione. Quando riesco ad allungare la mano a qualcuno che ha inciampato ed è caduto, so di prestare questa mano all’intero universo, per rialzare un’altra parte di me. E, allo stesso modo, quando reco qualche danno alla vita, sto obbligando l’intero universo a uccidere una parte di noi.

Cara margherita, non esiste uccisione che non sia suicidio! Ti ho detto queste cose per ripeterle a me stesso. È arrivato il primo vento della sera e fra poco dovremo interrompere questo momento di grazia. Lascia che ti racconti una storia bellissima di cui tu fai parte.

«C’era una volta Dio, o meglio c’è sempre stato e ci sarà sempre. Ebbene, questo Dio fece un sogno e lo amò tanto da farlo esistere: ed ecco il meraviglioso universo di cui noi facciamo parte. All’inizio, il fuoco, le rocce, le acque, le stelle, i venti, i lampi e i tuoni… tutto quanto era l’affetto di Dio cristallizzato e diventato visibile. Ma Lui non si accontentò di questo meraviglioso universo e lo volle vivo: con linfa, radici, fiori e frutti. Così il mondo imparò a esistere come vivente; accompagnato dalle paterne mani di Dio, imparò a nascere attraverso le sue foreste; imparò a vivere e a morire, per rinascere e rinascere in una danza di vita senza fine. E poi la nascita di ogni essere vivente produceva altra vita moltiplicandosi, mentre i fiori che morivano lasciavano semplicemente spazio ad altri boccioli preparati per celebrare la festa della vita.

Ma il progetto di Dio andava oltre. Voleva il suo universo con sangue, carne e occhi per vedere e, come le pietre rotolavano sul letto del fiume pur facendo sempre parte del grande corpo del mondo, così alcuni pezzi di questo mondo si staccarono, tagliando infiniti cordoni ombelicali, e cominciarono a muoversi.

Pezzi del mondo cominciarono a correre per raggiungere il cibo; il mondo cominciò a volare con le ali degli uccelli e con i colori infiniti delle farfalle, fino a quando questo universo benedetto, accompagnato con sempre maggiore attenzione dal buon Dio, da corpo diventò corpo e anima; e infine corpo anima e spirito, destinato a vivere l’eterna storia di Dio e quindi capace di pensare e d’inginocchiarsi di fronte a suo Padre per dirgli: “Grazie”.

Certo che la morte del più piccolo degli insetti, come del più anziano degli uomini, poteva turbare Dio, ma come avrebbe potuto rinunciare a vedere il Suo universo trasformarsi in bambino che nasce, cresce e corre sulla faccia della terra? Avendo Lui soffiato il Suo spirito nel cuore del mondo ed essendo il mondo diventato un Suo figlio vivente, capace di cantare grazie eternamente, Dio pensò che, per vivere una storia così importante e coinvolgente, era bene dare all’uomo la possibilità di scegliere di far parte di questa eterna avventura o no, proprio perché la responsabilità era diventata grande. Così l’uomo, combattuto tra la scelta di esistere con grande dignità e responsabilità e quella più comoda e facile di non esistere, cioè di lasciarsi morire, spesso cominciò a scegliere la seconda.

Questa pigrizia di vivere, di fare il bene, che chiamiamo ‘peccato’ turbò veramente il cuore di Dio. E, visto che l’uomo ammucchiava peccato su peccato senza aver più la forza di rialzarsi, di chiedere perdono e di essere riammesso a far parte dell’eterna storia di Dio, Da quel momento l’universo diventò il corpo della seconda persona

della Trinità santissima».

Capisci, margherita, perché ti scrivo? Questi era Gesù, il Cristo: con la sua testimonianza ci insegnò nuovamente come combattere la pigrizia di fare il bene, la pigrizia di vivere e ci rieducò a rialzarci e a scegliere di vivere ancora.

Cara margherita, scusami se ho scritto cose che interessano forse più a me; tu non ne avevi bisogno, ma grazie per avermi ascoltato. Ormai è tardi, è molto tardi; e adesso anche tu, per ubbidire alle leggi del nostro corpo, hai chiuso la tua testa tra i petali e ti sei faranno tutte le margherite e tutti i miei fratelli e sorelle, infine si addormenterà tutto il mondo, cioè l’intero nostro corpo.

Ma, cara margherita, ci attende un risveglio: il risveglio dell’intero universo, perché Dio vorrà far rinascere l’intero corpo del suo Figlio e allora esploderanno Cieli nuovi e Terra nuova ad ospitare la nuova Creazione: noi. Buonanotte.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo II

TEOFILO CERCA DIO

pag. 14-25

La preghiera-grido

Si sa che di notte tutto è nero. In quel periodo, da qualunque parte Teofilo posasse lo sguardo, gli stillavano lacrime e il suo cuore gridava all’infinito: “Non nascondermi il tuo volto”. Quando parlava con il Padre, gli sembrava di rivedere la luce, ma subito dopo veniva il buio. Anche leggendo la storia della margherita qualcosa parve illuminarsi in lui ma, appena ebbe terminato, tutto tornò come prima.

Allora il novizio andò nella cappella, questa volta non per pregare, ma per gridare. Poi prese della carta e volle scrivere, cosa che non gli era congeniale, ma lo fece. Rivolto verso la tenda del Signore dov’era conservata l’Eucarestia, in quella notte più silenziosa che mai, guardava e scriveva:

Da millenni, Signore, cerchiamo il tuo volto perché ci hai fatti assetati di te, desiderosi di vedere almeno un raggio della tua luce, di udire anche una sola delle tue parole e tu fai silenzio. Forse ci lasci in quest’attesa – che non è lunga – per la Celebrazione dell’incontro? O forse perché, attirati da te, possiamo maturare una fede adulta? Spesso mi sembra di aver inteso. Ma quanti, come me, hanno

sentito le tue parole e poi si sono nuovamente domandati se sei stato proprio tu a parlare! È possibile che perfino Mosè, in qualche momento di sconforto, abbia gridato: “Eppure ti ho visto in quel fuoco che bruciava sopra la montagna. O era un altro fuoco? Non è possibile che fosse un’illusione: il roveto bruciava senza consumarsi. O forse il fuoco era più distante e mi sono sbagliato?

Signore, eri tu a parlarmi o no? Ho già inteso o non ancora le tue parole? “Mio Dio, mio Dio, grido tutto il giorno e non rispondi”. Perché? Forse hai già parlato e sono sordo? Faccio pure fatica a credere a chi dice di averti visto o sentito, perché sei l’Invisibile e le tue non sono parole d’uomo. Mi tendi la mano e, in alcuni momenti, ho l’impressione di sentirla così forte, sicura, dolce. Ma, proprio perché mano di Dio, infinita. E così, se la mia povera mano di carne vuol sentire la tua piena di mistero e possederti e toccarti almeno per un istante, non sente più nulla e si chiude, vuota. “Hanno trapassato le mie mani” ed io non posso stringere la tua.

Ma chi ha fatto il cielo, modellato la terra e portato le galassie negli spazi? Non io, certo. Chi ha inondato la terra d’acqua e riempito di vita tutti gli abissi? No, non sono stato io e nessuno che abbia cuore, cervello e mani come me. E chi ha tessuto me, nel ventre della terra? Sei tu, Dio, certo. Sei tu che mi hai tratto dal ventre di mia madre. Sei tu che al mio nascere mi hai raccolto e fatto vivere. Sì, sono sicuro che sei tu e che non potrebbe essere diversamente, ma perché, se mi volto indietro nella mia povera storia, vedo solo il volto di mia madre all’inizio della mia vita e non il tuo, Signore?

Signore, non stare lontano da me perché l’angoscia è vicina. Signore, ho paura di perderti. La mia fede, se ancora esiste, è esile. Ma nessuno mi aiuta, perché nessuno può aiutarmi: non ho bisogno della mano di un uomo, ma della tua, che non riesco mai a stringere. Non mi bastano le parole dei fratelli, ho bisogno delle tue, che non riesco a sentire e non sentirò mai, perché sono uomo di carne. Se solamente mi angosciasse il fatto di non averti mai sentito come sento la voce degli amici, non sarebbe così doloroso. Lo diventa se penso che in tutti i giorni della mia vita non udrò una sola parola pronunciata chiaramente da te con evidenza. E sarebbe ancora sopportabile se ciò accadesse solo a me, invece nessun uomo della storia ha mai potuto parlare a tu per tu con te, perché le tue parole non sono parole d’uomo e l’uomo non può sentirle. Questo è veramente lacerante.

È vero, e lo ripeto: agli uomini di tutti i tempi e, in particolare, a quelli degli ultimi millenni, hai dato la possibilità di comunicare con te. Ma, proprio perché volevi farti capire, hai usato voci umane. Così, dopo averle intese con tanta sicurezza, troppe volte è tornato in noi il dubbio che fossero tue. Hai operato segni e prodigi ma, proprio perché potessimo vederli, li hai compiuti sulle cose visibili: così, in breve tempo, ci tornava il dubbio che quei segni fossero davvero tuoi. Mai una parola certa! Ahimè, che dico? Le tue alleanze furono parole alle quali seguirono fatti ben precisi, quindi parole certe. Le nostre parole hanno la caratteristica dell’incertezza, ma non le tue! Anzi, esse restano in eterno: è ciò che professa la nostra fede, ma la parte percepita da noi è quella che si è infranta nel tempo, altrimenti non avremmo potuto udirla. È vero, tu non sei un uomo che può mentire, né un figlio d’uomo che può ritrattare. Perciò non posso pensare che tu affermi e non mantieni, ma mi dovranno bastare queste tue parole diventate umane, altrimenti la mia fede perderà ogni orizzonte.

Nel libro in cui sono scritte le più belle parole tue e dei miei fratelli, leggo che “in principio era la Parola”. Ma come avrebbe potuto sentirla l’uomo? Io credo che tu sei Parola, ma quel passaggio dall’Eterno al tempo, dal tuo cuore – che è cuore di Dio – al cuore dell’uomo mi lascia confuso.

Nel santo libro della Bibbia sta ancora scritto: “La Parola è diventata carne”, così, per ciascuno di noi, è stato possibile vederla. Sì, Gesù Cristo è certo la più bella Parola che hai pronunciato nel mondo. Ma anche questa Parola è giunta visibile a me, ancora una volta, in un uomo. Le parole che abbiamo udito da Lui e i suoi segni erano anche parole e segni di questa terra. Almeno per una volta potevamo pretendere di udire una tua parola pronunciata non con la solita voce umana che già aveva fatto eco nel cuore dei Profeti e di ogni uomo di buona volontà, in particolare nel cuore di Gesù Cristo! Così la mia fede non avrà mai una risposta su questa terra? Non potrò mai essere sicuro di aver inteso la tua parola “certa”!

Signore, i dubbi della notte mi spezzano, ma a te debbo dire ogni cosa. Signore Dio, almeno Lui – la Parola tua fatta carne – avrà inteso la tua voce non come filtrata da un cuore di carne, ma come voce solamente divina? Signore, ragiono con te: anche Lui, come uomo, poteva intendere le tue parole, le tue grandi parole divine attraverso il suo cuore di carne? In quanto uomo, infatti, come avrebbe potuto intenderle altrimenti? Se così fosse, capirei meglio quel sudore di sangue alla fine della sua missione. Era forse un estremo interrogativo che saliva a te dal cuore del primo e ultimo uomo della storia, nella pienezza dei tempi, per avere una risposta, una parola di conferma, un segno che non fosse solo umano, ma divino, affinché già qui, su questa terra, possiamo essere sicuri di te, che sei l’Assoluto?

Gesù, che ha fatto la massima esperienza del Dio vivo e presente in Lui, che ha avuto la più grande illuminazione di tutti i tempi – in cui ha sperimentato di essere una cosa sola col Padre e lo Spirito Santo – Lui, questo Dio, figlio dell’uomo, così umano nella sua vita quotidiana, mi confonde. Lui, così vicino a me, così simile a me, debole nel grido e nel pianto come me – beninteso senza peccato – al punto da rivelarci che siamo un solo corpo, un tutt’uno con Lui, mi lascia prostrato, senza parole. Potrei continuare il mio pianto per lunghe pagine e tu continueresti il tuo silenzio. Nei miei dubbi, lascia che anch’io, come i discepoli del Battista, vada da Gesù a chiedere: “Sei tu, o dobbiamo attendere un altro?”.

Ma anche tu, Gesù, non mi rispondi più: mi hai già parlato con le parole più belle del mondo ed ora sei nel Padre, una cosa sola con Lui, mentre io continuo a gridare col Salmo: “Dio mio, t’invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo. Eppure tu abiti la santa dimora, tu lode di Israele. In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e li hai liberati”.

Il fatto che abbiano sperato e siano stati liberati è segno che la tua Parola era veramente tua? È segno che le parole intese da quel popolo erano davvero parole di Dio, pur donate dall’eternità al tempo, dal cuore di Dio al cuore dell’uomo? “A te gridarono e furono salvati, sperando in te non rimasero delusi”. Sì, è vero: hai salvato e liberato milioni di volte quel popolo – popolo di Israele – che ti ha amato e tradito ripetutamente: nella tua misericordia, l’hai sempre attirato a te per perdonarlo e ricominciare il cammino. L’hai liberato dai nemici, dalle disgrazie, ma a me non basta. Non mi basta che tu mi liberi in questa storia. Ho bisogno che mi porti nella tua storia, che è eterna: solo allora potrò sentir pronunciare le tue parole inequivocabili e vedere il tuo volto. Prima di quel giorno c’è solo l’attesa e la grande Speranza.

Signore Gesù, in attesa della tua venuta, ecco la mia speranza. Nella notte, Gesù, faccio la mia professione di fede: credo tutto ciò che c’è stato nel tuo cuore umano. Questa è la mia fede. Anch’io voglio credere che Dio ha parlato. Donami la Carità, o Signore, per far nascere in me una fede nuova. Alimenta in me la Fede perché possa far rinascere la Speranza fino al giorno in cui ti incontrerò nei Cieli nuovi e Terra nuova.

Il giorno dopo, letta ogni parola con calma, lasciandola rimbalzare nel proprio cuore come quando leggeva i Salmi di Davide, l’anziano monaco gli domandò:

«Figlio, perché hai scritto questo?».

E il novizio: «Perché so che torneranno momenti di dubbio. Ci saranno notti in cui sembra che non compaiano più le luci del mattino e dovrò rileggere parole di conforto. Sapete che spesso arrivano qui da noi anime scoraggiate: volevo un rotolo per loro».

«Vorrei dirti che all’uomo e non solo a Gesù Cristo è stato fatto il dono di comunicare con Dio, e nel cuore di Gesù che è umano e divino si risolve il Mistero del passaggio della Parola da Dio all’uomo. Ma adesso sei stanco. Aggiungo soltanto che alle anime disperate non devi dar rotoli di carta. Accompagnale davanti all’Eucarestia. Invitale a inginocchiarsi come ci si inginocchia davanti a Dio, non importa cosa credono di avere nel cuore, né importa se pensano a Lui. Se ti ascoltano, parla loro del Natale. Di’ che i pastori, proprio perché erano umili e semplici, poveri e piccoli, hanno meritato di ricevere la rivelazione degli Angeli. La teologia del presepio è la più semplice: non fa domande, non chiede risposte, semplicemente vuol vedere un Bambino avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia. Eppure la loro notte si è illuminata: hanno incontrato il Signore, probabilmente senza rendersene conto e senza cercarlo. Il Signore si rivela gratuitamente. Parla poi ai tuoi amici della Settimana Santa: essi sentiranno che un uomo che era tutt’uno con Dio e tutt’uno con noi, per amare – e per amare proprio noi –, si è lasciato crocifiggere. Parla poi di quei tre giorni prima di Pasqua: la notte più buia del mondo. Ebbene, anche quella notte si è incendiata di luce nel mattino di Pasqua. Di’ loro che non c’è più ragione né posto per la disperazione».

Parabola dell’isola disperata

Quando si rincontrarono, Teofilo gli domandò:

«Padre, potrei ripetere una domanda che forse è già stata posta da tutti gli uomini del mondo?».

«Fin quando non abbiamo udito una risposta che riempia il cuore, le nostre domande hanno il diritto di essere ripetute infinite volte, anche se con umiltà dobbiamo riconoscere che non tutte hanno altrettante risposte».

«Alla mia domanda ho sentito le risposte di tanti filosofi, teologi e uomini di cultura, ma vorrei sapere cosa risponde Dio all’uomo quando questi grida nel dolore, nella malattia e di fronte alla condanna a morte. Proprio all’inizio del libro più santo, Dio si dichiara soddisfatto per tutte le cose che ha creato: in quella pagina sta scritto “Dio vide che tutte le cose erano buone”. Padre, quando Lui ha visto il dolore nella sua creazione, può aver detto che era buono? Quando ha visto la morte, che pure era uscita dalle sue sacre mani creatrici, può aver detto che tutto era buono?».

«Teofilo, se le risposte che hai già sentito non ti sono bastate, io non ne ho altre. Ti lascio però una storia da meditare, anche se nulla potrà arricchire ciò che è scritto nella Bibbia. Ma quel linguaggio spesso è arduo e tu, Teofilo, hai ancora bisogno di latte e non di cibo solido: leggi questa parabola, ti aiuterà almeno a dire grazie».

Con quel rotolo di carta, Teofilo ricevette la benedizione e si congedò. Mentre camminava, sentiva crescere la curiosità ma, sapendo che quelle pagine non avrebbero potuto dire più di ciò che già aveva sentito e letto, la offrì a Dio senza sforzo, rimandando la lettura a un altro momento. Il giorno seguente, terminate le preghiere che ormai erano diventate il suo cibo quotidiano, prese il rotolo per la meditazione e lesse:

Una piccola nave, dopo aver perso ogni controllo nella burrasca, finì per schiantarsi contro le rocce di una costa sconosciuta dell’oceano. Tutti i navigatori – uomini, donne e bambini – si salvarono, ma la nave, in pezzi, fu risucchiata dalle onde violente.

Dapprima i naufraghi si riunirono per ringraziare Dio di aver loro salvato la vita, poi perlustrarono il territorio lungo la costa, finché ritornarono al punto di partenza. Solo allora si resero conto di essere prigionieri sopra un’isola sconosciuta, chissà a quale distanza dal resto del mondo. Bisognava però ricominciare a vivere, per ubbidire a quella forza istintiva che alimenta il desiderio della sopravvivenza inscritto in ogni essere umano.

Il più anziano, che aveva poco più di cinquant’anni, cercò di organizzare la vita sociale sull’isola, riuscendovi con discreto successo. Per lungo tempo non fu facile adattarsi alla coltivazione, senza esperienza e senza mezzi adatti. All’inizio, gli uomini cacciavano e pescavano, senza fare a meno dei frutti di quella buona madre che è la terra.

Forse a causa delle fatiche sproporzionate, della solitudine, della paura di un futuro incerto per sé e i propri figli, col tempo il popolo si votò alla lamentazione. Per ogni avversità, fatica o sofferenza, primo fra tutti, il capo alzava al Cielo un grido: “O Dio, perché hai fatto il mondo in questo modo? Perché i nostri bambini innocenti devono soffrire? Perché ci affliggono le angosce, le paure e ogni sorta di male? Perché, o Dio, hai fatto un mondo così sbagliato?”.

Nei luoghi di culto, intanto, si moltiplicavano le liturgie, e tutte le preghiere si risolvevano nella richiesta: “O Dio, toglici ogni tipo di dolore”, a cui seguivano lunghi elenchi di tutti i mali. La seconda invocazione era invece: “Rendici sempre felici, donaci ogni piacere che la vita può darci”. Ma, poiché non venivano esauditi tutti i desideri – bensì solamente qualcuno, di tanto in tanto – serpeggiava in mezzo al popolo una tale tristezza per la vita che, tra depressioni e suicidi, sull’isola si rischiava di compromettere la sopravvivenza stessa. Nessuno riusciva più ad accettare che Dio permettesse la sofferenza e, di conseguenza, nemmeno a vedere tutto ciò che di bello e incantevole c’era attorno.

Il capo, consultando il gruppo dei ministri addetti alle varie occupazioni, un giorno prese un’importante decisione: “Visto che stiamo morendo di dolore, di sofferenza e tristezza, tutti insieme chiederemo a Dio che mandi il suo Angelo a cancellarli da quest’isola. Poiché nessuno tra noi riesce a capire ancora il senso della sofferenza nella nostra vita, chiediamo che venga rimossa”.

Tutti si prepararono a fare questa richiesta con estrema serietà. Digiunarono quaranta giorni e fecero ancora nove novene di preghiere per meritare di essere esauditi. Giunse così il giorno sospirato, che dall’alba al tramonto diventò una sola, lunga e ricorrente preghiera: “Cancella il dolore dalla nostra vita. Cancella il dolore dalla nostra vita”. Dopo il tramonto del sole, in mezzo all’assemblea apparve una luce simile a un Angelo: “Siete stati esauditi. Da oggi il dolore non avrà più dimora su quest’isola”. Quando l’Angelo scomparve, un grido di gioia incontenibile si levò in mezzo al popolo, che continuò a ringraziare Dio per l’intera notte, fin quando, al mattino, tutti si addormentarono in una pace mai sperimentata prima. Poi la vita riprese e tornò la serenità e la gioia sul volto di ciascuno.

Un primo risultato si riscontrò il mattino stesso, quando due mamme partorirono il loro bambino senz’ombra di dolore. Altri fatti simili si moltiplicarono. Tutti coloro che avevano emicranie, mal di denti, coliche di vario genere o ferite, all’improvviso furono liberati dal dolore e tutta l’isola si ubriacò di gioia. Allora il capo domandò a un soprintendente: “Perché Dio ha tardato millenni prima di fare questo regalo all’umanità e, probabilmente, solo a questa piccola isola?”. Qualche giorno dopo, però, sopraggiunse un primo problema: essendo quegli uomini un poco primitivi e violenti, dopo un bisticcio un giovane massacrò di frustate la moglie, lasciandola sfinita e tutta un livido. Quando si rialzò, la donna rise in faccia al marito, il quale si rese conto che la sofferenza non esisteva più e che stava perdendo parte del controllo sulla sua famiglia. Quella donna aveva fatto un grave sbaglio e, secondo lui, meritava una grande punizione. Da allora, anche un semplice schiaffo al figlio disubbidiente non ebbe più senso. I bambini non avevano più alcun timore dei genitori, né dei loro insegnanti: anche la minima punizione fisica risultava inutile (il che, ovviamente, sarebbe stato positivo, se quel gruppo fosse stato più evoluto). Nello

stesso tempo, però, non venivano più avvertiti sintomi importanti. Un bambino a cui era gonfiato un braccio era morto poche ore dopo: nessuno aveva notato i segni dei denti di un serpente che aveva iniettato il veleno senza provocare dolore.

Nell’equipaggio di quella nave c’erano pure due medici, che venivano continuamente consultati o chiamati, quando qualcuno era visibilmente malato e rischiava di morire. Essi arrivavano, ma senza poter fare diagnosi: non potevano capire se il malato aveva un problema intestinale, al fegato o ai reni, poiché nessun dolore poteva indicare loro una pista sicura per una qualche terapia. Così sull’isola ci

furono molti più morti degli anni precedenti, quando il dolore era a servizio delle diagnosi. Inoltre, la paura di ferirsi, di fare un incidente – in una parola la paura per il dolore – andava diminuendo, con conseguenze sempre più devastanti.

A quel punto, il capo si consultò nuovamente col gruppo del ministero, che decise all’unanimità di chiedere al buon Dio di liberare il popolo anche dalla malattia, visto che l’aveva già esaudito circa la sofferenza. Tutti si prepararono quindi con il digiuno di quaranta giorni e le novene, come avevano già fatto precedentemente e anche l’Angelo della malattia fu autorizzato ad affrancarli da essa. Quindi si rallegrarono: non ci sono parole per descrivere una gioia così grande. I malati di tubercolosi, i lebbrosi, coloro che avevano coliche in atto al fegato o ai reni, i malati di cuore, chi faceva una gran fatica a respirare a causa dell’asma, tutti, proprio tutti, all’istante furono guariti e l’Angelo della malattia lasciò l’isola, come l’aveva lasciata l’Angelo del dolore.

Il capo riunì poi tutto il popolo per ringraziare Dio, ma non riuscì a trattenersi: “Questo era il modo in cui Lui avrebbe dovuto creare il mondo”, disse. Ma i più intelligenti avvertirono qualcosa di molto strano nei loro corpi e compresero che in ciascuno di noi, anzi, in ogni organo, c’è una lotta continua tra microorganismi che, come veri e propri eserciti, si combattono per mantenere un equilibrio che è appunto la vita. Quando infatti i nostri corpi sono assaliti da virus, o comunque da agenti estranei che possono provocare la morte, intervengono le malattie per aggredire gli invasori, surriscaldando la temperatura e scatenando le difese immunitarie fino a quando lo scontro non termina e si ristabilisce l’armonia necessaria per vivere.

Sull’isola, quindi, la gente ora moriva senza più passare attraverso la lotta nascosta e invisibile, ma necessaria e benefica, della malattia. Così, avvertendo che sarebbero morti tutti in brevissimo tempo e l’isola sarebbe rimasta un cimitero, prima di estinguersi il capo e il popolo fecero in tempo a gridare al Cielo: “Signore, non stancarti di noi, ti chiediamo solo più questo favore: comanda al tuo Angelo della morte di risparmiarci perché possiamo vivere sempre”. Anche quest’ultima richiesta fu accolta e tutti coloro che stavano per morire si ripresero: senza dolore, senza malattia ed ora anche senza la morte. Quasi stentavano a crederlo, ma di fronte all’evidenza non fu possibile contenere un’esplosione di gioia. Dopo essersi ubriacati di festa, però, si guardarono attorno e si resero conto che l’isola era troppo piccola, che, col tempo, l’incremento della popolazione non avrebbe lasciato spazio per la coltivazione e che il cibo sarebbe mancato. In ogni caso, tutti si rallegrarono perché avrebbero vissuto ugualmente, anche senza cibo.

E così iniziò la storia che avrebbe dovuto essere la più felice di quell’isola e del mondo intero. Il cibo, infatti, si ridusse davvero al minimo e così pure le forze vennero meno. Gli anziani pensavano: “Come sarebbe stato diverso se questo fosse accaduto quando eravamo giovani e pieni di vigore ed energia!”.

A causa della mancanza di cibo e di spazio, il capo avrebbe voluto decretare una legge per bandire definitivamente le nascite dei bambini sull’isola, ma non fu necessario, perché le passioni giovanili per concepire altre vite si erano ormai spente.

Passarono così alcuni secoli e sull’intera isola si finì per non trovare una sola cellula morta. Gli abitanti non si nutrivano più, ma nessun attacco di morte poteva aggredirli. Da circa ottocento anni le notizie erano le stesse. Parlavano poco, pensavano poco. Non pregavano più. Non sapevano cosa chiedere al buon Dio, perché avevano ricevuto tutto ciò che avevano domandato. Non sapevano più ringraziare, perché tutto sembrava loro dovuto. Non piangevano più: nessuna lacrima di dolore poteva avere senso su quei volti. Non ridevano più: in quella situazione sarebbe stato impossibile. Si guardavano come gli scogli si possono osservare gli uni gli altri, immobili, sulle rive del mare. Avevano osato pensare che il loro progetto della creazione sarebbe stato migliore di quello di Dio stesso e adesso ne subivano le conseguenze.

Anche i più giovani, che avevano ormai sette secoli, non ricordavano più com’era fatto un bambino, né il gioco di rincorrere le onde sulla spiaggia. Poiché non erano morte, le cellule della pelle si erano accartocciate su tutto il corpo: a distanza, più che esseri umani, quelle persone sembravano coccodrilli rinsecchiti dai secoli, benché vivi e coscienti di tutto quel nulla che capitava loro intorno. Ma anche l’orgoglio merita un perdono, se domandato a Dio stesso, che è pietoso e misericordioso verso chiunque abbia sbagliato.

Così, un eremita di nome Ezechiele fu invitato in sogno a raggiungere l’isola, per liberare quel popolo da una condizione insostenibile, che era diventata il più assurdo progetto sulla crosta della terra. A causa del suo nome, Ezechiele pensò di essere stato mandato sull’isola a rimettere il sangue nelle vene dei morti o a ridistendere la pelle e la carne sulle ossa aride, ma ben presto si accorse che la sua missione sarebbe stata molto più ardua di quella dell’omonimo profeta.

L’eremita arrivò insieme al sole, che continuava a dar vita – come aveva fatto per oltre otto secoli – tutti i giorni, uguali e monotoni uno più dell’altro, visto che erano privi di tutto e persino della morte. E domandò cosa fosse capitato all’origine della loro sventura. Con un fil di voce, i più anziani raccontarono del naufragio e specialmente del rifiuto di accogliere il progetto di Dio, anche se misterioso: “Avevamo dovuto faticare tanto per sopravvivere senza mezzi, tra sofferenze, malattie e morte. Ci parve che ogni male si fosse abbattuto sopra di noi in modo sproporzionato. E ci lamentammo all’infinito di ciò che Dio permetteva nella nostra vita. Ci siamo rifiutati di accettare un mondo fatto così e l’abbiamo implorato di liberarci: vennero l’Angelo della sofferenza, poi quello della malattia e infine della morte e ci concessero quanto richiesto”. Mentre parlavano, Ezechiele piangeva. Aveva capito che gli toccava scavare sotto quelle cortecce di pelle ancora umane per raggiungere i cuori, che pure segnavano il ritmo del tempo: bisognava riscaldarli nuovamente, poiché erano ormai incapaci di amare.

Un uomo che non ama muore, ma essi non potevano morire: questa era la loro disgrazia. Da secoli non avevano più avuto bisogno di amare nessuno, né di essere amati per poter vivere. Il loro cuore pulsava il sangue nelle vene e le sinapsi del cervello non si erano ancora addormentate, ma avevano disimparato a fare un qualunque servizio per qualcuno, poiché nessuno ne aveva più avuto bisogno. Su quell’isola si era disimparato a far coraggio, a consolare, ad asciugare una lacrima, perché di tutto questo per secoli non c’era più stato bisogno. Non si sapeva più perdonare, perché nessuno chiedeva perdono e si era dimenticato Dio stesso, pensando che non dovesse più fare nulla.

Ezechiele pregò e digiunò a lungo. Poi, come a dei bambini, insegnò loro nuovamente le preghiere del mattino e della sera. E, prendendo a ciascuno la mano destra, gliela portava sulla fronte, sul petto, poi ancora alla spalla sinistra e destra. Infine ricongiungeva le loro mani e passava accanto a un altro. Per intere giornate fu questo l’estenuante lavoro di Ezechiele. Qualcuno gli domandò: “Perché lo fai?”. “Vedi, è il segno della croce e su di essa ci sono la sofferenza che voi avete rifiutato e la malattia – vale a dire l’infezione, il tetano, l’avvelenamento, il soffocamento – da cui avete voluto essere liberati. E, ancora, sulla croce c’è la morte, di cui avete bisogno più di ogni cosa”.

L’eremita parlava loro, ogni giorno, di Gesù, di come aveva vissuto, amato, sofferto ed era morto. Poi raccontava la storia del terzo giorno, il giorno della Resurrezione. “Come sarà la vita dopo la Resurrezione?”, gli chiesero infine. “Lo sapremo quando Lo vedremo faccia a faccia”. Così Ezechiele prese a gridare: “Pregate e ripetete con me: Signore!”. “Signore”, ripeterono. Poi urlò: “I tuoi pensieri non sono i nostri”. E tutti insieme risposero: “I tuoi pensieri non sono i nostri”. L’uomo di Dio continuò a proclamare, mentre il popolo ripeteva le sue parole: “Le tue strade non sono le nostre; Abbiamo preteso di fare un mondo migliore del tuo; Ti chiediamo perdono; Manda i tuoi Angeli accanto a noi; Li accoglieremo”.

Tre uomini vestiti di luce arrivarono quindi dal mare ed entrarono sull’isola. Gli abitanti, allora, iniziarono a piangere e continuarono per mesi, mentre le fibre dei loro corpi, come cristallizzate, si sciolsero e il dolore, entrando nella loro carne, li abbracciò. Poi vennero la febbre, il sudore, il respiro affaticato di tutte le malattie, finché il terzo Angelo li prese per mano. Mentre stavano morendo gli ultimi, Ezechiele prese la corda della piccola campana rimasta silenziosa per secoli e iniziò a suonare dapprima i suoni della Passione, poi della Morte e infine della Festa. Era il mattino di Pasqua”.

Prima che spuntasse il nuovo giorno, appena terminate le preghiere, il Padre chiamò Teofilo:

«Hai letto il rotolo che ti ho dato?».

«Sì, e mi sono accorto di essere simile a un bambino che ha bisogno di parabole, più che a un adulto-scienziato in cerca di risposte per tutto. Oggi anch’io posso rivolgermi a Sorella Morte, come la chiamò il caro Francesco, e benedire il suo nome.

Dicendoti che sono un bambino, riconosco pure che nelle mie domande ci sono molte ingenuità, ma in ogni caso mi sento capito da Voi al punto da trovarmi a mio agio per qualunque richiesta».

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo III

TEOFILO E IL MISTERO DELLA SOFFERENZA

pag. 26-41

Dolore inutile?

«Padre, prima di venire all’eremo, sono stato svegliato un mattino dal grido di una donna. La figlia era arrivata in ospedale per il parto. Ora lei e il bambino sono morti. Il mistero della sofferenza, che mi ha sollecitato centinaia di interrogativi, pressappoco con le risposte che provocavano altre domande, torna ancora oggi in quel grido. Com’è possibile che, nonostante le vostre parole di saggezza, rimanga confuso? Forse perché la sofferenza non si spiega con la saggezza?».

«Vedi, c’è una sofferenza ‘pedagogica’, che invade la vita sotto forma di punizione: “Viaggiavo con la moto a velocità elevata e adesso, dopo l’incidente, sono in ospedale a pezzi; Una dose di droga mi ha soddisfatto per diversi anni, ora sono in fin di vita; ho sbagliato, adesso soffro per non sbagliare più; un giovane è andato a rubare, la polizia ha preso suo cugino, l’ha massacrato e adesso è in prigione”».

«Capisco che la parentela, il gruppo tribale o sociale siano un corpo, per cui io posso soffrire a causa di un altro. Ma perché il dolore innocente? Perché il dolore di quella madre per dare alla luce un bambino? Forse per farci apprezzare il valore della vita umana? Quella donna soffre per il parto, poi muore con il bambino, senza raccogliere nessun beneficio dalla sua sofferenza. E che dire del bimbo di quattro anni, peribronchitico cronico, con gravi crisi di soffocamento, che dice alla mamma: “Perché gli altri bambini stanno bene e io mi sento sempre soffocare?”».

«Se non potessi guardare quel crocifisso da cristiano, come potrei trovare risposte? Lui, l’Innocente, che agonizza e muore. Eppure, ritornando al nostro quotidiano, se la sofferenza non venisse a mescolarsi con la gioia, il piacere, il gusto di assaporare la vita, respirare, nutrirsi, riposare, forse ci incolleremmo talmente alla terra che non avremmo più la forza di guardare verso il cielo. Se i nostri occhi fossero sempre appagati di vedere tutto ciò che desiderano, dove potremmo trovare la forza di sforzarci a vedere l’Invisibile?

Se non fossimo colpiti dalla sofferenza o dalla morte, in noi o in chi ci sta accanto, e per questo ci convincessimo che tutto ci è dovuto e di tutto abbiamo diritto, come potrebbe nascere in noi il senso della gratitudine a Dio che ha inventato la vita, ai genitori che si sono resi disponibili a farsi portatori di questo dono per me e per i fratelli che, in modi diversi, contribuiscono ad alimentare la vita stessa?

Quel bimbo con gravi crisi d’asma a quanti altri bambini avrà detto quale grandissimo dono è il respiro e a quanti genitori avrà dimostrato come sia prezioso avere un figlio sano, per cui non possono dimenticare di dir grazie? E poiché solo con la morte ci stacchiamo definitivamente dalla materia e possiamo finalmente vedere il volto di Dio, non è forse la sofferenza – un pezzo di morte – a permetterci di entrare più in comunione con quel Volto santo?

Non è infatti con la sofferenza che gli occhi si scollano un poco dal corpo per intravedere l’Invisibile? Non è sempre attraverso il dolore che le orecchie si chiudono un poco ai rumori assordanti della terra per sentire più vicino, almeno in parte, quella Parola, la Parola di Dio? E, ancora, con la sofferenza il cuore non sente forse l’insoddisfazione di amori, sentimenti, affetti, passioni, che non gli bastano più, tanto da dirigersi verso il vero Amante della sua vita? Non è attraverso le ferite che l’uomo si affaccia all’orizzonte trascendentale del proprio essere e intravede Dio stesso?».

«Ma perché quella madre e suo figlio quel mattino sono morti? Sofferenza inutile, che nessuno ha raccolto?».

«Se ci pensi anche solo un momento, ti rendi conto che qualcuno l’ha raccolta. Insieme a te quel giorno alcune decine di altre persone si sono svegliate dicendo: “Ti ringrazio di avermi creato, conservato in vita fino ad oggi…”. E poi, i nonni, il marito e padre, i fratelli e le sorelle del neonato, e quanti hanno provato quel dolore. Ma, se anche nessuno avesse sentito il pianto di quella donna, esso si sarebbe unito ai chiodi di Cristo e là avrebbe trovato il suo senso. Se, di fronte al dolore, non hai un crocifisso a cui guardare, potrà aiutarti il versetto del Salmo 48: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”, ovvero “nella sofferenza l’essere umano intende e diventa sempre più uomo e donna”. Perciò, se la sofferenza mi renderà più maturo anche solo nell’ultimo istante della mia vita, riconoscerò che è diverso morire ruggendo o gridando: soltanto la persona umana, infatti, può gridare».

«Che cosa deve sapere allora il catecumeno, cioè chi si prepara a diventare cristiano, circa la sofferenza?».

«Anche se resta un mistero, può sempre sforzarsi di riflettere un poco e trovare ragioni che, se non sono risposte esaustive, almeno possono aiutarlo a non scoraggiarsi nel dolore, sapendo che il cammino della sofferenza è quello percorso da Gesù e da tutti coloro che hanno voluto seguirLo. Lui è venuto ad annunciarci di non temere nulla perché Dio Padre ci ama e ci ama sempre – nella buona e nella cattiva sorte, Lui è lo sposo fedele – sia quando siamo eroi, martiri, santi, sia quando siamo infedeli, traditori e criminali.

Gesù ci ha detto che l’amore unito a ogni dolore e fatica umana è la cura per guarire le ferite del peccato. E anche se gli uomini spesso non sanno amare, almeno possono consegnare all’umanità le loro lacrime come contributo per la Salvezza. Ed è bene ricordare che tutte le lacrime, anche quelle dei disperati sono contributo per la Salvezza. Sulla croce, facendo suo il grido del salmista disperato, Lui, che si sente abbandonato da Dio, ci dice che anche tutte quelle grida sono per la guarigione del mondo, per la Salvezza. Nessuna lacrima viene sprecata da qualunque parte venga».

«Capisco che attraverso la sofferenza possiamo scoprire o alimentare la Fede e, ancora, che attraverso di essa siamo naturalmente spinti alla Speranza di una vita senza dolore ed eterna con il nostro Signore Dio. Vedere Gesù sulla croce e sapere che la morte non esiste più e che questa notizia ce l’ha portata Lui stesso, dovrebbe essere più forte di ogni pianto, ma resto confuso. Mentre Vi sentivo parlare, Padre, mi sembrava che la ragione si piegasse, ma la mia fragilità mi travolge nuovamente».

«Vedi, Teofilo, la nostra sofferenza guarisce il cuore da ogni egoismo, ci fa sentire solidali con quella accanto a noi e ci stimola ad aiutarci, ad amarci di più, per guarire insieme nella Carità.

Si è parlato molto di tutto lo scandalo e l’indignazione suscitati nel cuore di tante persone sensibili dai campi di concentramento nazisti del XX secolo, indignazione contro gli uomini e contro Dio stesso. Si sono però dimenticati i milioni di azioni d’amore e di solidarietà anche eroiche, avvenute proprio in quei luoghi di morte, che non sarebbero mai esplose in quei cuori umani. Cito a braccio il commento di un rabbino al grido “Dopo Auschwitz non è più possibile parlare di Dio”: secondo un testimone, una delle guardie del campo di concentramento, di fronte a un gruppo che stava spogliandosi per entrare subito dopo nella camera a gas, sentì nel suo intimo una voce chiara che gli diceva: “Spogliati anche tu ed entra con loro”. Probabilmente sentì la voce più di una volta, visto che ha potuto confidare il suo sentimento a un collega. E, mentre i condannati si spogliavano, l’ha fatto anche lui ed è entrato nella camera con tutti gli altri. Il Rabbino concludeva che, se l’amore esiste, esiste anche Dio e, se anche un solo figlio della Germania è stato capace di spogliarsi ed entrare per solidarietà a morire con degli Ebrei condannati, è segno che Dio esiste.

Forse conosciamo di più la testimonianza di Massimiliano Kolbe, che offrì la sua vita per salvare quella di un prigioniero sposato e padre di famiglia che, condannato a morte, aveva gridato: “Oh, mia moglie e i miei figli!”. Massimiliano lo sostituì morendo al posto suo. La guardia del campo di concentramento e Massimiliano avevano capito che la solidarietà e, quindi l’amore, può pretendere qualunque sofferenza e anche la morte.

In una riflessione sulla sofferenza si racconta di un contadino che chiede all’altro: “Mi vuoi bene?”. Questi risponde: “Certo che ti voglio bene!”. Dopo di che, il primo continua: “Sai cosa mi fa soffrire di più nella vita?”. E quando l’altro ammette: “No, non lo so proprio”, la sua risposta è: “Se non sai cosa mi fa soffrire, come puoi dire di volermi bene?”.

Don Oreste non era ancora rientrato in casa dopo il funerale di una sua sorella, quando gli diedero la notizia della morte dell’ultima sorella, travolta in un incidente. Si fermò per un istante, poi, con calma, disse: “Tutto è Grazia”. Certo, non sappiamo perché è avvenuto così e perché Dio ha voluto amarci in quel modo, però se siamo cristiani sappiamo che il buon Dio ci ama solo e sempre.

Una giovane sinta piemontese salutò il fidanzato dopo un breve incontro della sera. Si sarebbero sposati l’indomani mattina ma, dopo un’ora, giunse la notizia: lui non c’era più. Si era schiantato con la moto. La ragazza riuscì a dire: “Se Lui ha deciso così, Lui sa il perché”. Pianto sì, ma non disperazione.

Un amico mi confidò: “Ero sopra un pulmino, quando un camion si schiantò contro di noi. Pensa quanto è stato buono Dio con me. Su dieci, sono stato l’unico sopravvissuto”. Dopo un momento, gli ho domandato: “Tu dici che Dio è stato buono, ma i parenti degli altri nove cos’hanno detto? Per essi Dio è stato forse cattivo? Caro amico, non dimenticare che Dio è sempre e solo buono. Intanto non toglie mai la vita, ma ci cambia solo di casa. Lui è il Dio della vita, prima che della morte ed è Dio della vita anche dopo. La morte c’è solo per noi, che vediamo una porta chiudersi e la persona amata sparire”.

Dice San Filippo Neri: “Quando il Signore ti offre una croce, prima la guarda bene, poi la misura e la pesa, affinché non sia un millimetro più lunga, né un grammo più pesante di quanto tu possa portare, poi guarda al tuo coraggio e infine te la consegna. A te solo più il dovere di ringraziare”».

Le ferite lasciate dal peccato

«Padre, non mi è ancora chiaro perché Dio permette la sofferenza al giusto».

«Lo Spirito Santo, caro Teofilo, ci santifica con il dono della Fede, della Speranza e della Carità e la via privilegiata per entrare in noi è appunto attraverso le nostre ferite. Dio non ha bisogno della nostra sofferenza, come non ha bisogno di nessun sacrificio. Siamo noi che abbiamo bisogno di sofferenza e sacrificio. La sofferenza è la medicina che guarisce le cicatrici lasciate in noi dalla pigrizia di fare il bene (ossia dal peccato), e non solo in noi come singoli, ma in noi come corpo unico, unito a Gesù stesso. La nostra pigrizia di fare il bene, la nostra umanità ancora in incubatrice sono state perdonate da Dio stesso, ma i segni dell’immaturità rimangono come ferite profonde e come tutte le ferite sono dolorose.

È bene ricordare, a questo punto, che quando l’uomo compie un crimine lo fa sempre per ottenere una gioia, che può essere un’esplosione di rabbia, una passione consumata, l’appropriarsi di qualcosa che non gli appartiene per la soddisfazione del proprio io, la mancanza di rispetto ai genitori o agli anziani per soddisfare dei capricci personali, l’abbandono della preghiera per soddisfare la pigrizia o una falsità pronunciata per mantenere il proprio onore e rispettabilità sociale, una maledizione a Dio per non sentirsi in dovere di fare la sua volontà: l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Ebbene, bisogna ribadire che tutte queste azioni sono cercate per una qualche gioia o meglio per un piacere, ma tutte, veramente tutte queste azioni producono ferite dolorose lasciando un grande amaro dentro il cuore.

Quindi, la ferita lasciata dal peccato è dolorosa. Poi la convivenza sociale, il bene in noi che abbiamo pur ereditato e Dio stesso si dovranno incaricare di curare le nostre ferite per guarirci. Questa sofferenza generalmente si traduce in senso di colpa, angoscia, delusione, mentre la sofferenza che abbiamo provocato nell’altro si ritorce contro di noi lasciando tanto amaro. Da ultimo, anche la punizione che una seria società impartisce e Dio stesso che ci visita con le sue prove contribuiscono alla guarigione del peccatore.

Quando accettiamo la sofferenza come medicina per le ferite personali e del mondo, ci rendiamo conto della preziosità di questo dono. E il sacrificio, il digiuno, la rinuncia sono un bisogno per noi! Significa spogliarci di qualcosa, di una preziosità per farla sacra, cioè renderla non più utilizzabile da parte nostra offrendola a Dio. In realtà, l’oggetto sacrificato a Dio era già di Dio stesso, ma noi lo stavamo utilizzando come nostro, mentre ora lo riconsegniamo a Lui.

Appena l’essere umano è diventato tale con la coscienza di essere un ‘Io’ in relazione con tutto ciò che esiste fuori di lui e quindi ha potuto rendersi conto che Qualcuno – l’Invisibile – guidava la sua storia, ha iniziato ad offrire sacrifici in segno di gratitudine, di espiazione e, in particolare, come richiesta di protezione. Normalmente il sacrificio consisteva nel privarsi di un bene che veniva offerto alla divinità bruciandolo».

«Certo, ma oggi che senso può avere la parola ‘sacrificio’? ».

«Sembra una parola ormai in disuso, ma in realtà non è scomparsa dal nostro cammino di spiritualità. Nel sacrificio posso privarmi di una piccola o grande cosa: a un bambino spiego che si può sacrificare un frutto non mangiandolo più, ma offrendolo a un povero. Allo stesso modo, posso sacrificare il denaro che non userò più per me, ma che sarà consegnato in beneficenza.

E tutto ciò è gradito a Dio non perché ci fa soffrire, ma perché fa bene a noi, curando le ferite dei nostri attaccamenti, del nostro egoismo, in una parola della nostra pigrizia nel fare il bene, che chiamiamo ‘peccato’, nostro e del mondo. Ma peccato è pure l’immaturità dell’umanità che sta crescendo in noi e che, per crescere come il chicco di grano sotto terra, ha bisogno di spaccarsi, marcire e, se avesse coscienza, anche soffrire».

Il mattino seguente, Teofilo e lo starez iniziarono la giornata con questa preghiera:

Signore, tu hai dato la vita per noi

e vuoi che anche noi diamo la vita per gli altri.

In che modo? Se vuoi su una croce,

oppure ora per ora, tutti i giorni potrò dare

una goccia di sudore, una lacrima o una goccia di sangue.

Oggi inizierò la giornata che ancora una volta

ti chiedo di regalarmi. Benedici il mio lavoro:

è attraverso questo che oggi darò un pezzo della mia vita.

Fa che non consumi questo dono per me, ma per gli altri.

I preferiti di Dio

Dopo qualche tempo, i due monaci ripresero la riflessione, che non ritenevano sufficientemente approfondita. Era sempre Teofilo a riportare i dubbi e le pene della sua ricerca.

«Padre, abbiamo parlato di sofferenza, sacrificio, immaturità e per me continua ad essere difficile capire cosa voglia Nostro Signore. Vediamo che Dio ha delle preferenze e proprio per coloro che chiamiamo ‘peccatori’, i più immaturi nel mondo».

«Dio Padre è misericordioso e perdona tutto a tutti ma, per ciò che riguarda le conseguenze della nostra pigrizia nel fare il bene, sembra chiaro che esse vengono curate dalla medicina del dolore. Perciò ogni male fisico del corpo, ogni sofferenza dell’anima, ogni prova, ogni umiliazione, ogni scarnificazione dell’anima e del corpo, tutto è medicina che, nel progetto di Dio, la stessa natura ci somministra per curare le conseguenze della nostra immaturità. Siamo un corpo unico, per cui ogni individuo soffre non solo per i propri sbagli, ma per quelli del corpo intero».

«Padre, se posso interrompere chiederei una luce: se il peccato è pazzia, immaturità, pigrizia di fare il bene e se chi lo compie non ha nemmeno il senso di responsabilità che spesso gli attribuiamo, perché dunque i suoi effetti devono essere così devastanti? Basta pensare a tutte le forme di violenza e di guerra che lasciano le ferite profonde di cui mi avete parlato e che si concludono nella morte».

«Ogni azione che chiamiamo ‘peccato’, mescolata ai piaceri più desiderabili e resa possibile perché ricercata e voluta da una naturale spinta per ottenere la felicità, lascia sempre l’uomo nell’angoscia, nella sofferenza. Così, per non vedere le conseguenze delle proprie azioni che lo fanno solo soffrire, corre a coprirsi come Adamo ed Eva. Se anche, nel compiere un’azione criminale, l’uomo non è moralmente responsabile, pur tuttavia ne vede gli esiti sul suo stesso corpo e li sente come angoscia nella profondità della sua anima.

Il suo pianto diventerà pianto per cancellare questi segni e grido per chiedere perdono delle follie che hanno colpito gli altri e lui stesso. Perciò le penitenze che possiamo imporci, le preghiere prolungate e gli atti di carità, tutto ciò lo presentiamo a Dio in riparazione delle azioni criminali nostre o dei fratelli e sorelle con cui condividiamo la stessa umanità.

San Paolo, e non solo lui, parla delle tante membra e dell’unico corpo. Perciò ciascuno si rende responsabile del tutto. E dobbiamo sempre più aver coscienza di questo tutt’uno di cui noi, come pure tutti i cosiddetti criminali del mondo, facciamo parte. Se ciò provoca un pianto inconsolabile, nessuno può privarci però della gioia infinitamente più grande delle lacrime che esplode nell’intimo se pensiamo che Gesù non è solo carne e sangue del nostro corpo, ma il capo stesso, la testa di questa mistica unità.

Nel canone II della Messa preghiamo infatti per essere “riuniti in un solo corpo” e in quelle parole noi celebriamo la nostra transustanziazione, parola non comune per dire come cambia la nostra sostanza, tanto che diventiamo anche noi corpo e sangue di Cristo, come il pane e il vino.

Se una spina nel mio piede provoca il tetano, non c’è problema solo per il piede; il cuore aumenta i battiti, tutto il corpo è surriscaldato e ogni parte del corpo soffre di tetano. Perciò non dovremmo sorprenderci quando ci rendiamo conto che Dio ha preferenza per i deboli, i sofferenti di ogni tipo. Egli riserva per essi una predilezione, ma solo per il fatto di essere sofferenti: ciò è sufficiente per farli diventare medicina del mondo.

Lo stesso Gesù cammina sulla strada particolare dei “Poveri di Jahvè” per diventare sempre più il prediletto del Padre e quando, nel Giordano, la Voce dal Cielo dice: “Questo Gesù è il mio Figlio Prediletto”, Gesù sa molto bene in che direzione deve continuare il cammino: guarire il corpo e l’anima dell’umanità di cui fa parte o meglio far maturare questa immatura umanità. Poi, comincia a parlarne con gli amici, lasciandoli un poco sconcertati. La preferenza per quel figlio prodigo (perché più sofferente e inquieto), la preferenza per quella pecora perduta (perché così in pena), la preferenza per quella moneta (perché così perduta)».

«Ci sarebbe quasi da domandarsi ingenuamente: se Dio preferisce tanto il peccatore, è persino meglio peccare di più?».

«Dio non ama il peccato – ama il frutto immaturo, non l’immaturità –, ma ama il peccatore in quanto sta soffrendo per le conseguenze del peccato. Per essere preferiti da Dio, quindi, è sufficiente mettersi dalla parte di chi ha sbagliato o di chi sta già soffrendo e portarne insieme le conseguenze: questo significa contribuire a salvare il peccatore, cioè curare le ferite causate dalle azioni criminali, dalla pigrizia di fare il bene, di perdonare e quindi di amare».

Beatitudini e lotta contro la sofferenza

«Padre, se uno soffre ed è preferito da Dio, perché toglierlo da quello stato? Sono certo che la domanda sarebbe pertinente specialmente in certi ambienti asiatici, dove spesso non si interviene di fronte alla persona che soffre perché si pensa che stia appunto purificandosi. E, per completare la domanda, chiedo ancora: perché dobbiamo lottare tutta la vita contro la sofferenza, se Gesù chiama beato chi piange, chi è povero, chi è perseguitato?».

«Teofilo, se la sofferenza arriva fino a noi e ci raggiunge, diventiamo simili al Figlio di Dio crocifisso, che significa quindi diventare beati come Lui. Ma, per ripeterti che dobbiamo lottare contro la sofferenza degli altri, ti dico ancora che Gesù, in tutta la sua vita, ha compiuto tanti miracoli per asciugare le lacrime e ridare speranza a molte persone, intervento che chiede anche a noi. Lui è disposto ancora oggi a moltiplicare i pani e i pesci per migliaia di persone, ma pretende che facciamo tutto ciò che è in nostro potere. Vuole che doniamo i cinque pani e due pesci se li abbiamo. E, se non li abbiamo, vuole che andiamo a cercarli come hanno fatto gli apostoli. Vuole che noi facciamo la nostra parte, tutta la nostra parte. Allora, e solo allora, Gesù compie il miracolo. E se ha curato i ciechi e rialzato i paralitici, chiede anche a noi quei miracoli».

«In che modo?».

«Accompagnando all’ospedale un malato, facendo un intervento chirurgico, restandogli accanto con cura. Noi impiegheremo più tempo, ma raggiungeremo lo stesso risultato. Per dare pani e pesci a migliaia di affamati dovremo fare dei progetti di sviluppo, irrigare regioni desertiche, smuovere il cuore della gente perché diventi solidale, dobbiamo in ogni caso fare tutta la nostra parte per lottare contro la sofferenza. Il buon samaritano del Vangelo ci dà una risposta molto significativa. Accanto a chi soffre, non possiamo stare con le mani in mano a guardare.

Il samaritano si fa carico lui stesso delle conseguenze di quell’aggressione che ha lasciato un uomo mezzo morto sul bordo della strada. Cura le ferite, si dà da fare, cambia strada, rinuncia ai suoi programmi, porta il ferito sul suo giumento fino alla locanda, chiede ancora a un altro di farsi carico del malcapitato e così anche il locandiere si prodiga per quell’uomo sofferente.

Prendere un po’ sulle proprie spalle la sofferenza dell’altro significa alleggerire l’altro e caricare noi stessi della sua fatica quel tanto che è possibile: è ciò che possiamo e dobbiamo fare. Potremmo dire con un’immagine che la ‘quantità’ di sofferenza, di medicina che guarisce il mondo rimane la stessa, ma – almeno nel caso del samaritano – viene distribuita sulle spalle di tre persone, anziché di uno solo. La solidarietà è appunto questo. Se noi lasciamo l’altro nello stato di sofferenza o di qualunque tipo di miseria senza intervenire quando ne abbiamo la possibilità, significa che non vogliamo condividere la salvezza del mondo.

Aggiungo ancora che dobbiamo occuparci dell’altro che soffre perché la sofferenza che gli è stata permessa è tanta quanto le sue forze possono portare fino all’istante in cui lo incontriamo e possiamo alleviare il suo peso. Da quel momento, se lui continua a soffrire senza la nostra solidarietà, noi diventiamo responsabili per il suo dolore. Ecco perché bisogna lottare contro la sofferenza.

La beatitudine di chi è povero, piange ed è perseguitato non viene scalfita: il Lazzaro della parabola evangelica va nel seno di Abramo pur non avendo fatto nulla, ma semplicemente avendo vissuto povero e quindi beato, mentre l’Epulone che non lo aiuta e non allevia le sue ferite viene punito con il più grande castigo.

Gesù stesso si mette dalla parte di chi vive le conseguenze della carenza nello sviluppo o, se si vuole, dell’immaturità del mondo: i malati, i paralitici, i ciechi, gli indemoniati, i morti, gli stigmatizzati peccatori. Cura i malati in ogni momento, anche di sabato, così è giudicato eretico e ne porta le conseguenze. Apre gli occhi a Farisei e Scribi, guide cieche di ciechi, ma questi lo ritengono avverso alla legge di Dio e Lui ne porta le conseguenze.

Gesù si mette dalla parte degli indemoniati e li cura: per questa ragione dicono che è indemoniato lui stesso, ma Lui va avanti.

Gesù si mette dalla parte dei prediletti e vuole andare fino in fondo nell’umiliazione dovuta al giudizio di persone estremamente piccole e spaventate.

Gesù va avanti nel dolore della Passione, per diventare il più povero dei poveri: il condannato a morte come schiavo su una croce.

Gesù si mette dalla parte dei peccatori: nel caso dell’adultera impedisce che venga lapidata.

Gesù perdona coloro che erano considerati peccatori.

Gesù chiede anche a noi di perdonare agli altri, sapendo che l’azione di perdonare, quindi recuperare un atto di amore perso, è l’atto più divino dell’essere umano, anzi è l’atto che più di ogni altro lo fa uomo. Se un mio fratello uccide un altro fratello, perché lo uccide? Perché pensa che abbia commesso qualche azione che merita la morte. Cos’avrebbe dovuto fare invece di ucciderlo? Perdonarlo, quindi compiere un atto d’amore. Non avendolo perdonato, ha perso l’occasione di compiere un atto d’amore. E, se io lo perdono, recupero un atto d’amore perso.

I fedeli ebrei non capiscono un Dio così vicino e Gesù, che considera Dio così vicino al punto di chiamarLo Padre, ne porta le conseguenze e viene crocifisso.

Se, come Gesù, non avremo paura, anche noi potremo seguire il suo cammino e in questo modo diventare cristiani».

La ricompensa di fare il bene

«Perché, Padre, sovente non si è ricompensati per il bene fatto?».

«Mio buon Teofilo, Gesù ci chiede di seguirlo nelle sue azioni, ma non ci nasconde che, facendo il bene, non sempre se ne riceve la ricompensa, anzi succede spesso il contrario. E lo dice: se fate come me, vi capiterà quello che è capitato a me. Hanno perseguitato me e perseguiteranno anche voi, ma dovete saperlo. Hanno crocifisso me, crocifiggeranno anche voi, d’altra parte, se il chicco di frumento non muore, non porta frutto.

Durante la Messa c’è un momento molto significativo, in cui dichiariamo con un segno di voler seguire Gesù fino in fondo. Il sacerdote mette poche gocce d’acqua nel calice del vino per dire, in altre parole: Gesù, noi siamo queste poche gocce d’acqua e Tu sei il buon vino. Noi ci uniamo a Te per essere una cosa sola con Te, sapendo che avremo la stessa sorte, non solo nella sofferenza. Tu, infatti, sei stato perseguitato e ucciso e lo saremo pure noi, ma sei anche risorto e lo saremo anche noi con Te.

L’immagine del pane che mangiamo ci aiuta a comprendere. Per

diventare goccia di sangue e quindi vita nel nostro corpo, il grano ha un lungo cammino: dev’essere seminato nel campo e marcire, poi svestito della bellezza della spiga, quindi macinato, pressato con un po’ d’acqua, infine rullato e messo a fuoco, spezzato, masticato e dimenticato nelle nostre viscere, dove muore definitivamente, perdendo la sua stessa identità. Solo allora viene assorbito per diventare una preziosa goccia di sangue nel nostro corpo.

Non abbiamo bisogno di commenti per capire il tragitto che dobbiamo percorrere anche noi. Seguendo Gesù ci si imbatte in un discorso rivoluzionario per il mondo ebreo e anche per la nostra cultura: era ormai assodato da secoli che chi faceva il bene riceveva tanta ricompensa e chi faceva il male riceveva tanto castigo. Nel mondo ebraico, non essendo ancora chiara la verità della Resurrezione dei morti, bisognava ottenere già su questa terra la ricompensa al bene o il castigo per il male che una persona poteva fare. La fedeltà ai Dieci Comandamenti era perseguita per avere in ricompensa una bella e buona famiglia che, in qualche modo, prolungava la vita del buon ebreo. Si offrivano in sacrificio agnelli, tori o frutti di ogni tipo per ottenere in cambio ricchi raccolti, greggi sani e moltiplicati, vittoria contro i nemici, etc.

Era però evidente che Dio avrebbe punito con miseria, malattia, infelicità, sconfitte, deportazioni e schiavitù chi commetteva azioni criminose. La benedizione e la maledizione di Dio scendevano nella vita del vivente e si potevano estendere a chissà quante generazioni. Chi soffriva pensava che quella disgrazia fosse dovuta ai propri peccati o a quelli dei suoi antenati; allo stesso modo, una vita particolarmente benedetta poteva dipendere dalle proprie virtù o dal bene fatto dagli antenati. Già nel libro di Giobbe si cerca di dire in 42 capitoli che la visione teologica del mondo ebraico non è giusta o perlomeno incompleta. Riconosciamo comunque che essa ribadisce in sostanza che il male produce sempre il male e il bene provoca sempre il bene (il bene è ontologico, non così il male). Ma Gesù spezza pure tale convinzione. Di fronte a un malato, Gli chiedono infatti: “Ha peccato lui o i suoi genitori?”. E Lui, il Messia, risponde: “Né lui, né i suoi genitori”.

Tutto ciò che di gioia o di sofferenza Dio permette per questa o quell’altra persona è perciò solo ed esclusivamente per il bene della persona stessa, della sua famiglia, della comunità o del mondo intero. Molte volte chiediamo la pioggia e arriva la tempesta, ma se arriva quest’ultima, significa che, in quel momento, abbiamo bisogno di tempesta più che di pioggia. Il bene può essere questo: arrivare a un cuore pentito, ricevere un cuore capace di commozione, acquisire una sensibilità particolare accanto a chi soffre e diventare capace di fermarsi come fa il buon samaritano».

«E, in definitiva, quale sarà la conseguenza di tutti gli errori, pigrizie e immaturità?».

«Sarà il rallentamento della realizzazione del Regno di Dio e dei Cieli nuovi e Terra nuova. Già all’inizio della sua predicazione Gesù aveva detto: “Convertitevi perché il Regno di Dio si avvicina”. Quando non ci convertiamo e rimaniamo pigri nel fare il bene, il Regno di Dio, per così dire, si allontana, mentre la purificazione prima della morte o dopo la morte è il processo di maturazione dei nostri frutti, che ci avvicina al Regno di Dio».

«Padre, oltre a compiere il bene e chiedere la Grazia di vincere il male, che cosa possiamo fare per continuare il lavoro di salvezza che Gesù Cristo ha cominciato?».

«Possiamo preparare la nostra celebrazione eucaristica in questo modo: quando ascoltiamo parole di maledizione o bestemmie, quando vediamo qualcuno commettere ingiustizie contro altri o compiere delle disonestà, o qualcuno che non riesce a perdonare gli altri o, ancora, aprendo il giornale vediamo la foto di un volto alterato con la didascalia “Ha ucciso la moglie; Ha stuprato la figlia” o qualche altra mostruosità, possiamo fermarci e chiedere: “Chi è questo criminale?”. Sappiamo la risposta: “Mio fratello”. Allora lo porteremo nel nostro cuore, in chiesa con noi e potremo chiedere perdono a nome suo o a nome loro.

Durante la giornata, ogni volta che incontro chi compie il male, invece di maledirlo, di riversare rabbia su di lui, posso assumere e fare miei i suoi sbagli, la sua pigrizia di fare il bene, l’incapacità di perdonare, la pazzia che lo porta alle azioni più insane, ecco posso caricarmi di tutto questo e, quando mi avvicino all’altare del Signore, posso dirGli: “Guarda, Signore, quante ferite ti ho portato. Ti chiedo perdono a nome loro, perché non sanno da chi andare per farsi guarire, per chiedere perdono. Qualcuno, poi, non sa nemmeno che esiste il perdono, ma io so da chi andare, so che Tu mi aspetti per perdonare, per guarire queste ferite. Ecco, davanti a Te presento i miei sbagli personali e questi, che sono anche miei perché li ho fatti miei, li ho assunti come commessi da me. E adesso sono qui per chiederne l’assoluzione. Poi alzerò il calice della salvezza e invocherò il Tuo nome, Signore, anche da parte loro. Se questi fratelli meritassero una punizione, dimentica che siano stati loro a fare quelle azioni. I loro sbagli adesso sono miei: se vuoi, punisci me. In ogni caso Ti chiedo perdono”.

Così, Teofilo, diventiamo corredentori con Cristo. Lui chiede perdono al Padre a nome nostro e noi chiediamo perdono a nome nostro e di quella porzione di mondo che ha raggiunto il nostro cuore direttamente o indirettamente e così diventiamo sempre più colleghi di Gesù Cristo e corredentori con Lui.

Se il Signore mi fa questo dono, la mia spiritualità cambia volto. Quando incontrerò quei fratelli e sorelle la seconda, decima o centesima volta, vedendo gli stessi sbagli comincerò a pregare di più per loro e li sentirò sempre meno un corpo estraneo e sempre di più appartenenti a me. Mi abituerò a non dire più: “Se fa cose sbagliate, peggio per lui”, ma: “Se fa cose sbagliate, peggio per me”, perché siamo un unico corpo, siamo nella stessa barca. E se io sono al motore della barca, non posso disinteressarmi di chi ha in mano la corda della vela o di chi impugna il remo per direzionare la barca: tutto ciò che Gesù compie, lo chiede anche a noi, pur se in dimensioni diverse».

Il Vangelo non è utopia

«Padre, a volte mi viene il dubbio che il cristiano sia una specie di extraterrestre».

«La proposta evangelica ti pare un’utopia? Ti racconterò un fatto del quale sono stato testimone oculare. Mate e suo padre Rusdia avevano un rapporto molto conflittuale. Quando bevevano – e lo facevano spesso –, perdevano il lume della ragione e s’insultavano a vicenda. Tre anni prima, viaggiando in auto con la sorella Barda, Mate ebbe un grave incidente e lei perse la vita. Da ubriaco, Rusdia accusava il figlio di essere responsabile di quella morte, mentre Mate rivendicava la propria innocenza. Gli amici li dividevano e la rissa tra i due gruppi diventava armata e quindi pericolosa. Quella sera, mentre i due si riabbracciavano per rifare pace, dalla rivoltella automatica esplose un colpo che lasciò Rusdia senza vita. L’incidente era stato involontario, ma tutti pensarono a un crimine.

In un momento di assoluta confusione, Mate riuscì a fuggire con la famiglia, prima di rischiare un linciaggio. Io ero rimasto con loro e si preparò il funerale: avrei accompagnato il defunto in Albania perché Rusdia era come un padre per me ed ero l’unico che avrebbe potuto viaggiare con documenti regolari. Dopo pianti interminabili, tutti i parenti si riunirono per l’ultimo saluto. La famiglia era di fede musulmana, ma conosceva il Vangelo più del Corano. Facemmo le preghiere e, da ultimo, ci fu il saluto del figlio maggiore Arko, che aveva 19 anni, uno in meno di Mate.

Arko pregò così: “Papà, ti abbiamo perso – e fece una lunga litania di nomi di parenti e amici che, col desiderio e la benedizione, l’avrebbero accompagnato nel suo ultimo rientro in Patria; nominò la mamma e scoppiò in lacrime, poi si riprese – papà sei stato ucciso ed io, tuo figlio, ho il dovere di vendicarti. Perciò, con tutte le mie forze, chiedo che muoia chi ti ha ucciso, ma non chiedo questa maledizione per mio fratello, che ha moglie e figli, no, lui deve vivere. Chiedo che cada solo su di me”. Scoppiarono grida e pianti. Tutti abbracciammo e baciammo Arko: sapendo che, presso quel gruppo, la benedizione o la maledizione non sono un augurio ma un fatto reale, a tutti sembrò che Arko fosse il defunto da salutare.

E, infine, non posso dimenticare ciò che raccontò a Spiridone un condannato nei campi di lavori forzati in Siberia. Quell’uomo, rincasando la sera, trovò la moglie in un lago di sangue e, accanto, il corteggiatore che l’aveva tentata tante volte senza mai riuscirvi: l’aveva pugnalata. Il marito, dopo un momento di shock, non si buttò sull’assassino, ma andò a consegnarsi all’autorità costituita, dicendo di aver ucciso lui stesso sua moglie. Per quello era stato condannato».

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo IV

TEOFILO E LA SFIDA DELLA MORTE

pag. 42-59

La morte

Quel giorno Teofilo aveva ascoltato molto. Aveva pure annotato alcuni spunti per riflettere in seguito e, dopo un silenzio più lungo del solito, si era rivolto allo starez:

«Mentre quel mattino il buon Dio creava ogni cosa e la dichiarava buona, mentre preparava il primo fiore carico di colore e bellezza, nello stesso istante in cui il fiore schiudeva i petali nelle mani del suo Creatore e ogni parte dell’universo si apriva alla vita, iniziava anche in essa il processo di morte. Questo fatto non avrà dato un po’ di malinconia al buon Dio?».

«Certamente, se si fosse chiamato Teofilo. Siamo noi che, per poterci esprimere, chiamiamo vita l’inizio dell’esistere di ogni essere vivente e chiamiamo morte il momento in cui ci rendiamo conto che questa vita si spegne. Per noi il pesce pescato da un martin pescatore è morto, mentre riteniamo vivo l’uccello che se ne è nutrito e corpo morto il sasso inanimato. Ma sarebbe meglio se riconoscessimo che tutto è inserito in un processo di vita.

Guarda bene quella pietra così immobile, così ‘morta’. In realtà il vento, che stacca invisibili particelle di silicati e metalli, mescolandoli poi alla terra per secoli e millenni, in un giorno qualsiasi può trasformarla in un filo d’erba, in un fiore o nel capello di un bambino. Le stesse molecole del nostro corpo, attraverso i millenni, sono state parti di mille cose: gocce d’acqua dell’oceano, particelle di fiori e frutti, frammenti di piume d’uccello o artigli di violenti rapaci. Hanno volato nella polvere del vento e sono state

trasportate dai detriti dei fiumi. Teofilo, la nostra è una storia lunga, ma è solo storia di vita».

«Quando però vedo gli occhi del mio amico spegnersi e congelare per sempre, almeno questo lo chiamerò morte? E a togliergli la vita non può essere che Dio!».

La stanza

«E se rimane comunque la morte a sfidare la mia ragione, specialmente perché essa rimane sempre l’ultimo mistero, potrò caparbiamente domandarmi: “Se Dio è il Signore della storia, perché toglie la vita a un essere che Lui stesso ha creato?”».

«Ebbene, Dio non toglie la vita a nessuno! Viviamo in questa meravigliosa stanza che è l’intera creazione, con ogni bellezza che i nostri occhi possono contemplare: le galassie a milioni di anni luce; il sole che colora ogni fiore; ciascuna pietra preziosa che emerge dalla terra; gli animali domestici e della foresta con la loro eleganza e l’aggressività che ne garantisce la sopravvivenza; la bellezza di ogni bambino, donna e uomo; le meraviglie visibili a stento o appena conosciute – sommerse come sono nell’indefinitamente piccolo – di

tutte le molecole, con i loro atomi, nuclei, neutroni, neutrini e protoni; e gli spazi senza fine tra gli uni e gli altri.

Diceva un ingegnere che il nucleo di un atomo non visibile è come il pallone messo al centro di un campo da football, mentre i neutroni si troverebbero a due km di distanza. Se è così, quando calpestiamo un sassolino, in realtà passiamo sopra a qualcosa di molto più simile a una galassia che a un oggetto buttato via perché insignificante. E come non restare confusi di fronte all’incanto di ogni cellula vivente che si riproduce e accompagna la vita?

La più grande preziosità che possono vedere i nostri occhi è un pugno di terra: ogni seme seleziona in quella manciata ciò che gli è necessario, alimentando la pianta e generando fiori e frutti di ogni specie. Ma non solo: sono composti di terra gli animali e lo stesso corpo umano, nel quale s’insediano intelligenza, sentimenti, emozioni e in cui Dio soffia il suo spirito, rendendolo simile a Lui.

Ecco la meravigliosa stanza della creazione, in cui viviamo ogni giorno. Accanto c’è una porta che si apre sull’altra stanza, quella dei Cieli e della Terra nuovi, preparati dallo stesso Signore della storia. Quando ciò che chiamiamo ‘morte’ ci introduce nel nuovo regno, a noi non viene tolto nessun istante di vita, cambia solo la stanza della nostra abitazione e la porta che resta chiusa provoca lacrime su lacrime a chi rimane al di qua, senza poter continuare a vedere e toccare il corpo vivente di chi ci ha lasciato nella grande attesa.

Già all’inizio delle scritture sacre (versetto 3 e seguenti del Libro della Sapienza) troviamo questa intuizione riguardo a chi ha varcato la porta dell’eternità: “Agli occhi degli stolti parve che morissero: la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche quando agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena d’immortalità. In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé. Li ha provati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un sacrificio”.

Da parte sua, Giobbe (19,1. 23-27) grida: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso”. E, più vicino a noi, Gesù (Gv. 6. 37-40) proclama: “Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto Egli mi ha dato, ma che lo resusciti nell’ultimo giorno”. Prima della sua partenza, è sempre Gesù che promette: “Vado a prepararvi un posto”. Infine, Paolo (1 Corinzi, 15,22) ci rassicura: “Come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo avranno la vita”.

Ecco le parole della grande speranza! Quindi, il tuo amico che dici essere stato vivo per te fino a un minuto fa è semplicemente passato da quella porta per entrare nell’altra stanza della grande casa di Dio: vivo era prima e vivo è adesso. Dio non toglie mai la vita. Egli la accompagna semplicemente per strade diverse, che a noi sfuggono. Oggi nel mondo vivono alcuni miliardi di uomini e fra cent’anni non ci sarà quasi più nessuno di loro sul nostro pianeta. Saranno tutti sostituiti da figli e parenti. Dovranno passare tutti la porta di cui parlavamo, in circostanze diverse: malattie, incidenti, terremoti, coperti dalle onde, ma nessuno potrà accusare Dio di aver tolto la vita a qualcuno».

«Quindi non si può parlare di morte? È una parola sbagliata? Da togliere dal dizionario?».

«Se vuoi, usala per raccontare le parabole, come io ho fatto con te. Usala pure, purché tu sappia che esiste solo la vita, quella per la quale il Creatore si rallegrò al termine di ogni giorno della sua creazione».

«Allora, quando parliamo della morte di Gesù, quella parola non ha senso?».

«Quella che chiamiamo la morte di Gesù è sempre associata alla parola Resurrezione come unico termine. Se poi vuoi parlare di quella morte, ricorda che quell’ultimo respiro è il suo ultimo atto d’amore per, con e in mezzo a noi in questa dimensione terrena, dopo di che continua a vivere nel cuore del Padre, con lo Spirito Santo».

«Padre, ma abbiamo continuato a vedere il corpo di Gesù morto, pietrificato e si è dovuto seppellirlo: questa la chiamiamo morte».

«Perché a noi non è dato di vedere al di là di quella porta fino al giorno in cui Lui lo vorrà. E adesso, Teofilo, concludiamo la giornata con una preghiera di ringraziamento: il prefazio della Messa del 2 novembre, nella commemorazione di tutti i fedeli defunti:

Padre santo,

Dio onnipotente ed eterno,

in Cristo tuo figlio, nostro Salvatore,

rifulge a noi la speranza della beata Resurrezione,

e, se ci rattrista la certezza di dover morire,

ci consola la promessa dell’immortalità futura.

Ai tuoi fedeli, o Signore,

la vita non è tolta, ma trasformata;

e, mentre si distrugge la dimora di

questo esilio terreno,

viene preparata un’abitazione

eterna nel cielo.

Per questo mistero di salvezza,

uniti agli angeli e ai santi,

cantiamo senza fine l’inno della tua lode.

Ci rivediamo domani. Il sole ormai riaccende tutti i colori alla ribalta del mondo e non possiamo non contemplare questa Gloria, che è solo Gloria di Dio e della vita che ci dà».

Intanto lo starez fece scivolare uno di quei rotoli che sostengono il cammino e, alla sera, Teofilo poté leggere:

Il ragazzo rimase fulminato dalla bellezza della giovane contadina che era scesa a valle con il padre, per comprare le provviste al monastero. Il padre della ragazza faceva questo lavoro da tanti anni e adesso si era fatto aiutare anche dalla figlia ormai abbastanza grande. Il ragazzo la vide, se ne innamorò e, quando seppe che

abitava nella casa più vicina al monastero, s’informò sull’orario della Messa che ogni giorno i monaci celebravano con straordinaria solennità. Ogni giorno il ragazzo saliva alla chiesa del monastero con la speranza di intravedere almeno per un momento la ragazza che aveva invaso tutte le fibre più segrete del suo cuore. Erano sufficienti per lui pochi minuti di contemplazione e tutta la giornata acquistava il suo senso pieno. Spesso anche la ragazza partecipava alla Messa e, in questi casi, per il giovane innamorato non esisteva null’altro in quella grande Abbazia. Non sentiva i canti e non si rendeva conto quando la funzione iniziava, né quando finiva. Non c’era posto per altro nella sua mente e nel suo cuore. Spesso, dopo la Messa, sostava in chiesa a lungo e chiedeva sempre la stessa grazia. Il tempo passava e durante le celebrazioni il ragazzo

guardava sempre dalla stessa parte ma, più che desiderarla per possederla come gli capitava all’inizio, ora la contemplava.

Si accorse poi anche degli altri che pregavano e degli stessi monaci, che sembravano essere assorti altrove. Qualche volta riuscì anche a sentire il sacerdote che spiegava la Bibbia. Intanto i suoi interessi si moltiplicarono. Iniziò a pregare per coloro che erano più sfortunati di lui: i malati, i carcerati, i poveri di tutto, i peccatori che non riuscivano a liberarsi dal vizio e dalla violenza e ad amare.

Finita la celebrazione, sostava a lungo e seguiva con la fantasia i monaci che uscivano ed entravano in quel misterioso silenzio: l’ambiente cominciò ad affascinarlo, poi sempre di più si accorse di Lui, del Signore. Contemplava il corpo del grande crocifisso tutto insanguinato ed era sempre più attratto verso quell’Abisso.

Arrivò poi il momento in cui i genitori della ragazza che aveva occupato totalmente il cuore del giovane decisero di sposare la figlia. Il padre pensò: “Andrò in Chiesa e vedrò il giovane che arriva per primo e lascia la chiesa per ultimo. A lui proporrò mia figlia”. Così fece per diversi giorni: arrivato all’Abbazia trovava sempre quel tale che, inginocchiato non lontano dall’altare, restava a lungo in preghiera dopo le celebrazioni. Un mattino aspettò che uscisse dalla chiesa e s’intrattenne con lui per fargli la proposta, con la certezza di dare anche al ragazzo una grande gioia, ma la risposta fu imprevista: “Grazie per la fiducia; in questi anni sono salito sul monte proprio a motivo di vostra figlia, ma adesso é tardi e il mio cuore è già stato occupato”. Così si congedarono.

Intanto il giovane cercava un’occasione per parlare con l’Abate, ma, all’ultimo momento, si trovava impacciato e non sapeva come esprimere a parole il suo desiderio di una scelta definitiva là, nella ‘prigione’ di Dio. Passarono alcune settimane e intensificò la preghiera per trovare le parole adatte per consegnarsi al monastero.

Un mese dopo chiese un appuntamento con l’Abate perché ormai si sentiva sicuro ma, poco prima di incontrarlo, capitò che tutto il monastero venisse assediato e invaso da un’orda di turchi che cercavano cristiani da sacrificare. Quasi quattrocento monaci provenienti da varie regioni si erano rifugiati tra quelle mura proprio per sfuggire al massacro, ma l’intero monastero fu accerchiato e i monaci legati e martirizzati uno ad uno dai barbari, che pensavano così di fare cosa gradita a Dio.

Il giovane, che dapprima era corso a nascondersi e non era stato avvisato da nessuno, ebbe una luce e pensò che fosse giunto il momento di presentare la sua candidatura alla vita monastica. Si avvicinò al mucchio di martiri, ma subito i turchi lo bloccarono per legare le mani anche a lui. Allora, con molta calma, ammise: “Non sarei venuto qui se avessi voluto fuggire”, e lo lasciarono fare. Prese quindi un abito già insanguinato, lo tolse con rispetto, poi lo baciò, si avvicinò alla fila dei monaci che stava terminando e i suoi occhi si incontrarono con quelli dell’Abate. Il giovane gli mostrò l’abito, chiedendo a cenni se poteva indossarlo e gli occhi dell’Abate annuirono. Lo infilò, poi si mise in coda e così trovò le parole adatte per presentarsi al nuovo stato di vita.

La sofferenza degli animali

Quando si ritrovarono, Teofilo presentò allo starez altri interrogativi:

«Padre, mi rendo conto che parlare di sofferenza, di dolore e morte, anche se in modi impropri, richiede un tempo che non potete più darmi, poiché il vostro cuore è già molto al di là dei problemi miei, che sono quelli dei bambini. Però mi incoraggia ciò che un grande teologo disse al termine dei suoi giorni: “Se questo problema mi avesse tormentato prima, avrei dedicato tutta la vita a riflettervi e a studiarlo. Qualche tempo fa abbiamo parlato del martin pescatore e vedo il mondo pieno di ‘martin pescatori’. Un piccolo coleottero incappa nella ragnatela e ne viene avvolto, perciò subisce la lotta e il colpo mortale del ragno. Dopo un momento, una beccata di uccello uccide il ragno e il cacciatore abbatte il volatile con uno sparo: il mondo mi sembra una grande carneficina. Se la nostra sofferenza può avere un senso, quale senso può avere quella di un agnello sgozzato, di un pesce soffocato fuori dall’acqua, di una gazzella sorpresa dal leone e così all’infinito?».

«Teofilo, se una sofferenza esiste ha certamente un senso, perché Dio – che è solo buono – non poteva fare di tanto in tanto errori di percorso nella sua Creazione. Non a caso, al termine di ogni giorno “vide che tutto era buono”. In effetti, caro figlio, noi usiamo la stessa parola per dire due realtà diverse: la sofferenza che proviamo noi umani e la ‘sofferenza’ che intuiamo negli animali, ma di cui non possiamo fare nessuna esperienza diretta.

Rispetto a questo argomento, parecchi elementi ci sfuggono. Ti può essere utile, tuttavia, considerare come possa soffrire un agnello sgozzato che non ha coscienza, poiché privo di un ‘Io’ come il nostro che gli permette di dire: ‘Io soffro’. In noi umani la sofferenza si relaziona all’Io che abbiamo con tutta coscienza, ma a cosa si può rapportare la sofferenza dell’animale, se è privo di un Io cosciente, il solo che gli potrebbe consentire di affermare: “Io, proprio Io, soffro o mi rallegro?”. Negli animali, infatti, non vediamo i segnali del pianto e del sorriso. Apparentemente così simile all’uomo, lo scimpanzé non sa di essere tale e non può dichiarare: “Io sono”. Quindi, pur avendo tutte le reazioni fisiche della sofferenza, non può dire: “Io soffro”, poiché l’Io non è presente. Proprio pensando agli animali che non hanno coscienza di esistere, mi esplode dentro un grande

senso di gratitudine per aver ricevuto dal buon Dio questo dono».

«Ma, allora, pensando alla prima pagina della Bibbia, in cui Dio chiede all’uomo e alla donna di non mangiare il frutto dell’albero della vita, mi viene da porre questa domanda, se non è blasfema: hanno fatto male o bene a prendere quel frutto e così aprire gli occhi e avere coscienza del bene e del male, diventando molto più “ad immagine di Dio”, proprio come Lui stesso li aveva progettati?».

«Quella pagina non dice tutto: sai che le parabole rivelano sempre una piccola parte della verità che vogliono esprimere. Questa, comunque, vuole sottolineare che la donna e l’uomo non hanno usato la libertà di obbedire a Dio. Noi sappiamo però che – come in questo esempio – Dio sa trarre il bene anche dagli errori. Perciò, se vuoi, puoi pensare che l’autore del racconto biblico avrebbe potuto scrivere: se l’uomo e la donna non avessero disubbidito, Dio avrebbe potuto dar loro proprio quel frutto in un tempo successivo, con la facoltà di vedere con occhi nuovi e acquistare coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male e diventare appunto più ad immagine e somiglianza di Dio, com’erano stati progettati.

Come Dio chiede a un padre e a una madre la collaborazione per generare una vita nuova, per completare la stessa creazione dell’uomo e della donna, che – come lascia intendere la parabola – doveva ancora essere portata a termine, poteva ben pretendere la loro cooperazione attraverso l’obbedienza. In quella pagina, poi, l’autore, oltre a intimare di non disubbidire a Dio, vuole anche sottolineare che il male non viene mai da Lui stesso. Cosa sia il peccato, però, e quali siano le conseguenze di quel rifiuto, non possiamo pretendere

di capirlo per mezzo di una sola parabola. Per comprendere quale gioiello di antropologia, psicologia e teologia essa sia, possiamo intanto osservare come quella disubbidienza sia stata compiuta da due persone che avevano ancora ‘gli occhi chiusi’, cioè con facoltà incomplete che le rendevano prive di un’avvertenza piena e di un

deliberato consenso. Due esseri, quindi, senza una coscienza capace di conoscere cosa fosse realmente il bene e il male, poiché ancora immersi nel processo di umanizzazione.

Ma puoi pure constatare che nemmeno oggi ci rendiamo conto di come i nostri occhi non siano ancora così aperti da poter discernere veramente tra il bene e il male.

Se però la parabola ti confonde proprio per il suo linguaggio limitato, potresti riscriverne un’altra: Dio, attraverso milioni di anni, ha creato la casa in cui l’essere umano avrebbe potuto abitare e poi, attraverso centinaia di migliaia di anni, l’ha educato non solo a camminare eretto come fa oggi ma, dopo averlo reso abile a coltivare in sé tutte le facoltà umane, lo preparò anche ad accogliere il dono della libertà di fare delle azioni buone, di compiere atti d’amore».

Il peccato

«Padre, faccio comunque molta fatica a pensare che in seno a Dio e alla sua Creazione possa esistere il peccato».

«Teofilo, tu sai cos’è il peccato?».

«Penso a una offesa che l’uomo può fare a Dio e ai suoi fratelli, insomma qualcosa di terribile, che dovrebbe rattristare molto il cuore di Dio».

«Probabilmente per te il peccato è come una montagna, una montagna di rifiuti che puzza e infesta il mondo. E, se fosse questo, tu avresti ragione a trovarti confuso nel pensare al peccato in mezzo a un mondo dove tutto è dichiarato buono.

Proviamo però a partire da un altro punto di vista. Esistono il bene, la virtù e le infinite azioni di bontà che questa umanità compie ogni giorno e, dall’altro lato, la ‘pigrizia di fare il bene’. Un omicidio, una vendetta, un atto di odio, sono in realtà la pigrizia di perdonare e la pigrizia di amare quella persona o se stessi. Puoi rileggere i Comandamenti e vedrai che descrivono dieci pigrizie di fare il bene. Comunemente diciamo che c’è il bene e il male, ma potrebbe essere meglio dire che esiste il Bene, tutto il bene voluto da

Dio quando crea l’uomo; se vuoi, in questo caso puoi usare l’immagine del Bene come un’immensa montagna di luce, perché è un’azione umana unita a una grande Grazia di Dio, il quale vuole sempre il Bene e solo il Bene. La pigrizia di fare il bene, che chiamiamo peccato, è il bene non ancora realizzato, non portato a compimento. Perciò, mentre il bene è un essere, il male è ancora un non-essere in attesa di misericordia, di perdono e di amore».

«Padre, ma l’uomo non si distingue dagli animali anche per la libertà di fare il bene e la libertà di fare il male?».

«L’espressione non è così esatta. Noi abbiamo ricevuto il dono della libertà che gli animali non hanno, ma questo grande dono è solo per fare il bene. Con la Grazia di Dio e la mia buona volontà posso compiere degli atti liberi nel fare il bene. Quando la pigrizia di fare il bene mi paralizza e compio un’azione criminosa, posso dire che non sono ancora abbastanza libero di fare il bene, oppure non sono più abbastanza libero di fare il bene. Il punto di riferimento per chiarire il discorso sulla libertà è Gesù Cristo: Gesù è libero, ma di una libertà

così completa che non può fare nulla di male. La libertà è solo per fare il bene. Dio Padre e Creatore è di una libertà assoluta, per cui non c’è in Lui nessuna possibilità di compiere il male».

«Padre, nel catechismo si parla di peccati che portano alla morte, ‘peccati mortali’ che meritano la dannazione eterna. Come dobbiamo regolarci di fronte a questo problema?».

«Il catechismo precisa che si verifica quel peccato chiamato mortale quando c’è materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso, ma non dice quanti ne siano esistiti o se ne siano esistiti. Se ci trovassimo di fronte a un’azione simile potremmo parlare di malattia o schizofrenia religiosa.

Si racconta, penso a titolo di parabola, che un giovane si recò da Pio XII per presentargli la sua angoscia e disperazione: suo fratello si era suicidato e quindi, non potendo più chiedere perdono dopo quell’ultimo peccato, certamente sarebbe andato all’inferno. Il Papa lo invitò a salire sul davanzale della finestra esposta a Piazza San Pietro. Lo incoraggiò a guardare giù tenendosi bene e, in seguito, a staccarsi e a buttarsi nel vuoto. Con un’esclamazione istintiva, il giovane gridò: “Non sono pazzo!”. Il Papa, allora, gli chiese di scendere e lo aiutò a capire: si era dato la risposta da solo. Se non c’è una distorsione psichica o una malattia mentale grave, come la schizofrenia o la depressione, non si può consumare un suicidio, anche quando qualcuno dice o scrive di essere pienamente cosciente del proprio atto. Potremmo affermare che l’uomo maturo, equilibrato, normale e libero non si suicida.

Ora ritorniamo al peccato mortale del catechismo. Se per arrivare a un suicidio si suppone un attacco schizofrenico, allo stesso modo e molto di più si potrà farlo per un’altra azione che il catechismo chiama peccato capace di meritare la morte eterna: qualora si richiedesse materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso, per passare all’azione e compiere l’atto criminale potremmo concludere che si dev’essere colpiti da una forma di pazzia che può durare anche pochi secondi in mezzo a tutta una serie di azioni

apparentemente equilibrate.

Mettiamoci di fronte a un’azione criminale concreta – ad esempio un omicidio – compiuta per il piacere di uccidere e sapendo anche che la vittima è innocente: se, pur di avere un’avvertenza piena e un consenso deliberato, questo criminale pensasse indipendentemente da ciò che pensa in genere il criminale o da chi vede consumare il crimine, la conclusione può essere solo che ci troviamo di fronte a una forma di pazzia, cosciente o meno. A questo punto, se qualche passaggio mancasse alla nostra riflessione, Gesù stesso ci viene in aiuto: “Non giudicate!”. Non tocca a noi giudicare come peccato questa o quell’altra azione. Il Signore si è riservato a sé questo diritto. Potremmo quindi dire che non siamo autorizzati a giudicare come peccato una sola azione compiuta in questi duemila anni, né peccato mortale, per usare il linguaggio del catechismo, né veniale.

Un prete che confessa otto ore al giorno per quarant’anni anni, di fatto non sa se ha perdonato dieci peccati, cento o nessuno (e non possiamo neppure giudicare che una simile azione sia mai esistita). Il confessore e tutti noi dobbiamo giudicare le azioni della storia, per dare il consiglio dovuto, il rimprovero, una punizione o la condanna, se necessaria. Se sono giudice di un tribunale civile, posso anche punire col carcere a vita chi viene giudicato, se non è più in grado di vivere in società senza uccidere, stuprare e altro, ma il giudizio sulla coscienza non spetta a noi. E non sapremo mai se ci siamo trovati di fronte a un peccato».

«Padre, dovremmo cancellare allora la parola ‘peccato’?».

«Teofilo, sei impazzito? Ho parlato dell’atteggiamento da tenere di fronte alle azioni di violenza e odio, di fronte ai furti, agli adultèri e ad ogni tipo di male. E, prima che tu mi dica che Gesù è venuto per cancellare i peccati del mondo, ti ripeto che Lui, al termine della sua vita, nell’ultima cena, quando sintetizza la ragione della sua venuta in mezzo a noi, dice all’incirca: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, questa è la mia vita che io offro per il perdono (il perdono è un atto di amore): questa è la mia vita che offro per amare e perché anche voi amiate in memoria di me”.

Ciò che interessa a Gesù è il perdono. E le azioni che noi chiamiamo insensate sono permesse solo per essere perdonate. Di fronte ad ogni azione che noi chiamiamo peccato, Dio si aspetta solo il perdono (richiesto e donato). Il Signore ci permette di vedere il peccato quasi sempre come un’azione grave e responsabile solo perché noi ci alleniamo alla misericordia e al perdono. Se vedessimo dell’irresponsabilità nel peccato non dovremmo fare nessuna fatica a perdonarlo e non potremmo compiere quell’atto d’amore che è ragione di tutta la creazione e dell’Incarnazione. In ultima analisi, se il peccato – che noi non conosciamo bene nella sua radice – ha un qualche diritto di cittadinanza è solo ed esclusivamente per essere perdonato. Non sapremo mai cosa sia in realtà l’azione che si presenta ai nostri occhi come peccato, cioè offesa a Dio, ma sappiamo per certo che è permesso sempre e solo per un atto di perdono e quindi d’amore, per cui il fine di ogni azione permessa è sempre un Bene. Non sempre il fine, cioè il perdono, viene raggiunto a causa della nostra pigrizia, però rimane sempre lo stesso».

«Padre, questa è una vostra riflessione o esistono dei riferimenti nella Bibbia o nella Tradizione della Chiesa?».

«No, non è affatto una mia riflessione, ma il dogma di Gesù Cristo che ti ho già citato. Sul Calvario, di fronte al Padre, Egli rivela il più grande crimine della storia umana: l’uccisione del Figlio di Dio stesso, spiegando che il peccato dei suoi crocifissori può essere solo pazzia: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che si fanno”. Possiamo mai pensare che, se avessero immaginato cosa stavano facendo, coloro che hanno condannato, crocifisso, ucciso Gesù, avrebbero compiuto un simile crimine? E nota che il primo peccato riportato nella prima pagina biblica come ‘peccato originale’ viene descritto come azione compiuta con gli occhi ancora chiusi».

«Allora, Padre, qualcuno potrebbe concludere che il peccato non esiste».

«Teofilo, io non impazzisco al pensiero del peccato e di cosa sia; a me interessa ciò che interessa a Gesù, cioè il perdono, che è la più alta forma di amore. Quando Gesù, nella sua vita, incontrava dei ‘peccatori’, non si fermava mai al peccato in sé, quasi non gli interessasse, ma andava subito al perdono».

«Padre, ho iniziato col dire che in Dio e nella sua Creazione mi angosciava il ‘peccato’. Esso era per me proprio come una montagna che dovrebbe angosciare Dio più di quanto possa angosciare me stesso. Ora, dopo questo cammino, se incontrando ogni uomo e donna riuscissi a pensare che possono essere buoni, innocenti o addirittura santi al di là delle loro apparenti azioni di cattiveria e che posso e debbo amarli come li ama Dio, il mondo intorno a me cambierebbe! Questa sarebbe una grande rivoluzione cristiana, una parte del Nuovo comandamento di Gesù».

«Nell’Antico Testamento, di fronte a chi aveva commesso degli sbagli si doveva solo capire come punire o come convertire il peccatore; oggi, con Gesù, per qualunque violenza, inganno o mostruosità possa manifestarsi nell’essere umano che ho di fronte, mi viene offerta una opportunità in più. Con il comando: “Non giudicate!” posso e devo pensare che chiunque può essere innocente e con il comando di perdonare e amare anche i nemici mi viene tracciata la strada di tutta la volontà di Dio!».

«Ecco che mi si fa luce sulla Creazione del sesto giorno, quando Dio creò l’uomo e la donna e dichiarò che tutto ciò che aveva fatto era buono. Tutta la cronaca nera dei nostri giorni non ha il diritto di farmi pensare che qualcuno sia stato cattivo o abbia commesso dei peccati, tanto meno la persona accanto a me, anche se la vedessi

ammanettata dopo una rapina o un omicidio o uno stupro».

«Guai se dimenticassi che quell’uomo rimane tempio della Trinità. Non domandiamoci perciò perché Dio ha voluto crearci così, cioè con un corpo umano che in alcuni momenti può apparire irrecuperabile tanto è diroccato, eppure nel quale cantano gli Angeli: noi dobbiamo inginocchiarci di fronte a quest’ostia infangata, ma pur sempre consacrata. Mentre ti riposerai, Teofilo, leggi qualche pagina di questo manoscritto di parabole. Oggi abbiamo parlato troppo».

Recitarono l’Angelus e si ritirarono. Appena Teofilo ebbe del tempo libero, aprì il testo dal titolo “Gli occhiali della verità” e lesse:

Un giovane salì sulla montagna e chiese al monaco Teofane se poteva fare un’esperienza al monastero. Lui gli domandò:

“Vuoi diventare monaco?”.

“Certo. È per questo che desidero passare un po’ di tempo presso di voi”, fu la sua risposta.

Il monaco sorrise: “Sì, è possibile, ma per due settimane resterai fuori dalle mura e potrai fare qualche servizio, quando i monaci te lo chiederanno. Sei sempre d’accordo a voler diventare monaco?”.

“Certo – rispose – ti do l’impressione di non essere pienamente convinto?”.

“Sei ancora un poco incollato alle cose del mondo, ma è bene che ti fermi sulla montagna. Aspetta un momento”.

Poco dopo tornò con una brocca e un paio di occhiali:

“Con la brocca andrai a valle dove c’è la fontana del paese. L’acqua di quella fontana è migliore di quella che abbiamo in monastero e ne abbiamo bisogno per un monaco malato. Ora metti questi occhiali, sono gli occhiali della verità. Vai in pace!”. E, benedicendolo, pose la mano sul capo del giovane, che da quel momento rimase muto. Ma scese subito a valle e, man mano che si abituava agli occhiali della verità, vedeva tutto trasformarsi.

Alla fonte c’era una donna. Con gli occhiali della verità, il giovane novizio vide in lei una bellezza straordinaria. Non aveva mai visto prima nulla che assomigliasse lontanamente a un incanto così travolgente. Gli pareva una creatura non di questo mondo, tanto la vide bella. Stava per abbracciarla con un trasporto che nessun amante avrebbe potuto provare sulla terra, ma si fermò. Pensò che, non potendo parlare, quindi spiegare a parole che voleva solo abbracciare e stringere e baciare la sua bellezza, rimase come un passante senz’occhi e senza cuore. La donna non si accorse di nulla, attinse acqua e ripartì.

Là c’erano anche dei bambini che giocavano. Con gli occhiali della verità, il giovane notò in loro una bellezza mai incontrata, che risvegliò nelle sue vene un affetto così paterno che gli venne da correre per abbracciarli ma, non potendo dir loro che li amava e voleva solo abbracciarli e baciarli, pensò che si sarebbero certamente spaventati e si arrestò, immobile. Anche i bambini se ne andarono con i loro giochi.

Il giovane si spostò ancora oltre la fonte e intravide l’inizio di una strada su cui passava un gran numero di persone: uomini, donne, bambini. Ciascuno di loro era come la ragazza e i bambini che aveva appena visto con gli occhiali della verità. Persino i gendarmi, che stavano visibilmente cercando qualche criminale, avevano la stessa bellezza. Ritornò sui suoi passi e, accanto a un cespuglio, vide un uomo che cercava di nascondersi. Era pieno di luce. Pensò che fosse un’apparizione del cielo. L’uomo chiese se i gendarmi fossero andati via e il novizio annuì. Questi gli raccontò che aveva compiuto un’atrocità di cui si vergognava all’infinito, poi corse verso il monte. Potendo vedere con quei magici occhiali della verità, il giovane ebbe l’impressione di vivere la sera della Creazione, mentre riecheggiavano nella valle le parole di fuoco: “E vide che tutto ciò che aveva creato era buono”.

Il novizio guardò allora la cima della montagna, avvolta da una luce divina. Subito dalle nubi si mostrò il sole con fasci raggianti di mille arcobaleni. Alzò le mani per abbracciarlo e baciarlo, ma era così distante! Anche il monastero trasfigurato era troppo lontano.

Quando abbassò le braccia e anche la testa, mentre il cuore batteva forte, vide la terra di uno splendore che gli fece pensare ai Cieli nuovi e alla Terra nuova, ma questa era già sotto i suoi piedi. Cadde in ginocchio e le dita delle mani quasi entrarono dentro quella terra a cui si era abbarbicato, la baciò rimanendo con le labbra incollate e amò intensamente tutto ciò che gli era concesso di amare.

Passarono due settimane e il monaco Teofane, uscito dal monastero, non vide il giovane. Scese a valle e lo incontrò prostrato e incollato alla terra con le mani e con quel bacio che non si era ancora spento. Lo prese per il braccio e lo accompagnò verso il monastero. Il novizio consegnò allora gli occhiali della verità e quella salita gli sembrò sempre di più la salita del Calvario, dove tutta la luce che aveva visto per quei quindici giorni si era spenta. La vita si stava appesantendo come una croce sulle spalle, ma lui non si fermò, solo pianse ad ogni passo su per la salita. Arrivò insieme a Teofane alla porta del monastero, che aveva visto simile a una Gerusalemme celeste, mentre era solo fatto di pietre grigie.

Entrò e, non appena la porta si chiuse alle sue spalle, il gruppo dei monaci venne a dargli il benvenuto. Gli parve di respirare nuovamente, ma le pietre rimanevano pietre. Tra quegli uomini santi, sulla sua destra, molto vicino a lui, ne riconobbe però uno, che appena due settimane prima era nascosto in un cespuglio, mentre i gendarmi cercavano un criminale: allora lo aveva visto con le ali degli angeli.

Teofilo pensò ancora a lungo, rileggendo quel rotolo e continuando a domandarsi: “Dov’era il peccato nella valle della fontana?” e si addormentò. Ma, nel tempo libero, ritornava su quel libro di Parabole. Un giorno ne scelse un’altra “Il sogno di Dio”.

Le galassie si erano ormai messe in movimento e grandi spiragli di luce fasciavano quella interminabile notte. Uno di questi falò, accesi per preparare il mondo, si riversò sulla terra che mostrò tutti i colori di alberi, fiori, pesci, rettili, uccelli, animali che si destreggiavano ormai a loro agio tra le intricate foreste. Proprio là Dio passeggiava, pensando al suo sogno: un bambino da tenere tra le sue braccia materne e paterne. C’erano già creature viventi bellissime, ma ancora senza sorriso, senza lacrime e senza parola.

Un giorno, prima che sorgesse il sole, le mani innamorate di Dio si misero nuovamente al lavoro. Per settimane e mesi modellò il suo nuovo sogno nel ventre di una madre e, quando il sole illuminò quell’angolo di mondo, un bambino e una bambina erano là, bellissimi e pieni di lacrime: piangevano senza interruzione perché quelle stesse mani innamorate li riprendessero, li stringessero e insegnassero loro a sorridere. Tutti i giorni il buon Dio correva con loro; andavano a nuotare al fiume, raccoglievano i fiori, rincorrevano i leprotti e, appesi alle liane, volavano come uccelli.

Il giovane papà non aveva più altro da fare che giocare con questi bambini da poco messi là per rallegrare l’intero universo. Lui, Dio, aveva lavorato milioni e milioni di anni per preparare quella valle e adesso poteva riposare felice. Non era un papà ingenuo: insegnava loro come difendersi dal morso di serpenti e scorpioni, come evitare i leoni quando sono affamati, quali frutti mangiare e quali evitare, perché velenosi. Spesso li lasciava soli perché imparassero a cercarlo e altre volte si fermava con loro perché non si sentissero soli. La madre, che li aveva generati insieme all’intera valle, al sole, alle stelle, li guardava senza comprendere che cosa sarebbero diventate queste due straordinarie creature: un uomo e una donna. Con i figli nacque la prima famiglia e quella regione fu chiamata: “La Valle dei miracoli”.

Dio aveva insegnato ai suoi figli ad amarsi, ma anche ad amare la terra, il cielo, il fuoco, l’acqua, le piante, gli animali e ogni cosa, perché solo volendo bene si fa il bene e ci si difende dal male. Se venivano colpiti dalla malattia, da climi glaciali o torridi, Dio arrivava sempre a consolarli, incoraggiarli, o indicare nuovamente la strada. Egli voleva che diventassero forti, ma quando si sentivano tali, li faceva tornare bambini. Se poi disubbidivano a quelle strette di mano del Padre, piangevano sconsolati. Allora Dio arrivava per punirli col volto serio, mentre col cuore piangeva anche Lui.

Una sera li chiamò, si sedette vicino. I bambini giocavano sull’erba e il Padre del mondo parlò a lui: “Quando vorrai parlare con me e dirmi tutti i segreti del tuo cuore, chiama lei”, e gli indicò la sposa. E disse a lei: “Quando vorrai sentire che non sei sola, che qualcuno ti vuol bene e ti protegge, quando in una parola mi vorrai vicino, chiama lui. Mi ritroverete”. Poi, mise le mani sul loro capo, li benedisse e diede loro ancora un messaggio: “Oltre ad amare voi stessi, non dimenticate che la vostra missione si estende fin là – e guardò verso i bambini – essi sono piccoli, indifesi: sono i poveri del mondo, ma sono il mio sogno”. E li lasciò là, nella “Valle dei miracoli”.

Il rotolo era stato strappato e il racconto visibilmente incompleto, per questo Teofilo continuava a domandarsi come mai la storia dell’umanità fosse cambiata così tanto dopo quelle giornate descritte nel rotolo: “Chissà cosa si nasconde dietro questa umanità così perversa e malata di tanta sofferenza. Certamente nel sogno di Dio, che ha impiegato un’eternità per generare questo uomo e questa donna, si nasconde qualcosa che noi proprio non riusciamo a immaginare. Eppure Lui è sempre lo stesso Dio che giocava nella Valle dei miracoli e gli uomini e le donne sono quelli di allora, del primo mattino in cui li strinse ancora neonati tra le sue mani e s’incantò Lui stesso della sua paternità”.

Mentre si commuoveva, Teofilo intravide un altro pezzo di rotolo strappato. Si accorse che doveva essere la continuazione della stessa storia, anche se certamente ne mancavano delle parti. E lesse:

Ormai, dopo tanta esperienza, la sua famiglia poteva fare un passo radicalmente nuovo: amare, amare tutti, ma ci volevano delle occasioni per allenare questo cuore umano ad amare. Per aiutare i suoi figli a non amare soltanto coloro che li amavano, rendendo ancora tanto povero il loro amore, per diventare veri figli suoi, un giorno il buon Dio volle che si allenassero ad amare anche chi all’apparenza era poco amabile. Così una notte, mentre alcuni di questi figli carissimi dormivano, Lui si avvicinò e iniettò in essi dei narcotici. Questi, ubriachi, cominciarono a gridare e, con pietre affilate, ferirono molti dei loro famigliari, poi maledissero tutti, bestemmiarono, mancarono di rispetto ai loro genitori e offesero i figli. Diventarono brutti, proprio nel profondo di loro stessi. A che gioco stava giocando questo Dio?

Poi, nelle notti dei millenni, nel sogno Dio suggeriva ai suoi figli di fare la pace e qualcuno cominciò a umiliarsi e non vendicò quelle offese. Qualcuno si umiliò molto per dare nuovamente la stretta di mano. Qualcuno pensò che quello era un fratello, quindi non poteva continuare a fare la guerra contro di lui. Qualcuno però perse il controllo e fece più male di quanto ne avesse ricevuto, lasciando a terra i corpi dei familiari uccisi o feriti. Poi si ravvide. Le madri arrivarono prima a fare la pace con i figli, in fondo li avevano partoriti esse stesse. Poi anche gli uomini arrivarono a fare la pace con i figli, i fratelli, i genitori. Attraverso i millenni, i figli di questa umanità scoprirono la bellezza del perdono e tornarono ad amare. Lentamente, senza smettere di moltiplicare sbagli su sbagli, di tanto in tanto il perdono si ripeteva più genuino, più fresco, più vero e l’amore cresceva.

Sulla parte finale del testo qualcuno aveva aggiunto:

Poi venne quell’uomo di Nazareth, che cominciò Lui stesso a perdonare non solo i famigliari, ma anche i vicini e da ultimo anche i nemici, specialmente coloro che non riuscivano a capirlo e gli facevano la guerra. Riuscì a perdonare e ad amare quelli che l’avevano condannato e infine ucciso. Anzi, li amò persino mentre l’uccidevano e, ancora prima di morire, spiegò cos’è il peccato: una pazzia, un’azione criminale causata da narcotici o da malattie psichiche che abbrutiscono l’uomo, rendendolo incapace di amare affinché chi gli vive accanto si alleni ogni giorno ad amare chi non sa amare e vivere perciò l’amore cristiano.

Così, di fronte all’azione più criminale di tutta la storia, l’uccisione del Figlio di Dio, cioè Dio stesso, Gesù ha potuto dire al Padre che quell’azione era pazzia: “Scusali, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. In altre parole: se avessero piena avvertenza e deliberato consenso non potrebbero far questo, perché la loro libertà è solo per fare il bene. E quando Dio, che aveva fatto la Valle dei Miracoli, vide questo Figlio di Nazareth tornare a casa dopo tre giorni che era morto, prese un pezzo di liana con cui aveva giocato tanti anni prima, scrisse sulla terra che quel giorno il lavoro della Valle dei Miracoli era concluso e si rallegrò immensamente: aveva finalmente realizzato il suo sogno di avere un Bambino.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo V

IL SACRAMENTO DEL PERDONO

pag. 60-84

La Resurrezione, sigillo di verità

Non passò molto tempo e Teofilo si ritrovò a fare altre domande:

«Padre, alcuni di coloro che vengono all’eremo si sentono tagliati uori dalla Chiesa, non capiti. Qualcuno, privato della Comunione eucaristica, dopo lunghi anni sente il peso di questo digiuno, che sembra causare in lui una comprensibile anemia spirituale».

«Quando Gesù, davanti al pane e vino, segno del suo corpo e sangue, dice che li offre per il perdono dei peccati, non lo dice per convincere il Padre a perdonarci, cosa che Dio ha già fatto. Io parafraserei: “Sì, domani mi lascerò crocifiggere per il perdono dei peccati, cioè per poter perdonare chi mi crocifigge. Vi ho detto che bisogna amare i nemici e mi lascerò crocifiggere per poterne dare testimonianza. I nemici li perdonerò io perché anche voi perdoniate ‘in memoria di me’: se avrete anche voi la forza divina di perdonare sarete salvi e la mia Resurrezione sarà il sigillo di questa verità”».

«Sentendovi parlare della misericordia di Dio, ho annotato dei pensieri per far meditare i nostri ospiti. Se lo riterrete opportuno, avremo un pezzo di carta in più per ricostruire nuove speranze».

Lo starez apprezzò la suggestione di Teofilo e si stupì persino che il giovane avesse preso tanto sul serio le lezioni impartitegli per aiutarlo ad entrare più profondamente nella vita religiosa. Si accordarono poi di ritrovarsi settimanalmente per rileggere quegli appunti riordinati e completati, in modo che ne potesse nascere un piccolo opuscolo di misericordia e di speranza. Non passarono molte settimane che gli appunti furono pronti per essere donati. Eccoli:

Appunti di misericordia e di speranza

Se non hai ancora ricevuto un perdono pronunciato ad alta voce, un’assoluzione nella Confessione e ti manca la stretta di mano ufficiale della Chiesa, non scoraggiarti e rivolgiti personalmente al Signore, in un dialogo di coscienza: nel profondo Dio dice l’ultima parola. E la parola di Dio, che parla alla tua coscienza, non potrà essere in contrasto con la Chiesa ufficiale, ma può certamente superarla e dirti ciò che un padre spirituale non sa dire. Non giudicare male la tua Chiesa se spesso non ha i mezzi sufficienti per capirti: Lui, il Signore, può darti risposta, può riabbracciarti nella tua coscienza. In ogni caso puo rimanerti il dubbio se la tua coscienza ha inteso bene la voce di Dio oppure no.

Come puoi sapere che Lui, il Signore, ti ha capito? La risposta non è difficile: se riesci a pregare e a compiere delle azioni di bontà verso il tuo prossimo, questo è il segno tangibile che il Signore cammina al tuo fianco e che si dichiara disponibile a riprogettare la tua vita. Senza un particolare intervento dello Spirito Santo – senza un dono, una grazia speciale di Dio – non potresti nemmeno dire: “Gesù è il Signore”, né alzare la mano per fare un segno di croce. Se quindi riesci a rivolgerti a Lui e hai il dono di dire col cuore: “Signore, pietà di me”, vuol dire che stai ricevendo la grazia necessaria per vivere in comunione con lui.

Il sacramento del perdono è per chi vive senza perdono; per chi vive di espedienti; per chi è divorziato; per chi lavora in attività illecite; per chi pratica l’omosessualità; per chi è tossicomane, spacciatore; per chi distrugge la salute con i vizi; per chi si prostituisce; e tutti gli altri, tutti noi. Tutti hanno bisogno di essere perdonati e tutti devono perdonare. Il sacramento del perdono che ci riconcilia con Dio e i fratelli è un grande dono della nostra Chiesa. È una stretta di mano che mi dice: “Sì, sei perdonato, vivi nella pace, non peccare più”.

Mi è capitato tempo fa di avere una discussione con degli zingari. Mi sembrava che uno, di nome Parnò, non volesse capirmi e non trovavo le parole adatte per farmi comprendere. Così persi le staffe e trattai male quell’amico rom, per di più di fronte agli altri. Il tutto finì lì, ma mi restò un peso sul cuore più grande di me. Non riuscivo a dormire, poi mi dissi: “Tanto Parnò mi capisce, mi perdona, non è capace di serbare rancore: è buono di natura…”. Più tardi continuai a pensare: “Come potrebbe non perdonarmi? Sento che mi ha già scusato di tutto” e mi addormentai. Il giorno seguente lo vidi e mi affrettai a chiedergli scusa. Lui mi strinse la mano: “Non pensiamoci più, amici come prima”. È vero che sapevo di essere scusato anche se non avessi mai più incontrato fisicamente l’amico rom, ma quella stretta di mano era ciò di cui avevo particolarmente bisogno. Il sacramento della Confessione, grande dono dello Spirito Santo fatto alla Chiesa, è la stretta di mano di cui abbiamo bisogno, come abbiamo bisogno di tutti i sacramenti. È vero che alcune persone ne fanno a meno per molti anni o per tutta la vita, ma mancherà loro quella gioia e pace che il Signore vorrebbe donare.

Un accenno storico

Fino al 300, la Confessione si faceva una sola volta nella vita, dopo di che si affidava il penitente alla misericordia di Dio. Si concesse poi la possibilità di confessarsi più frequentemente e oggi viene dato il Sacramento del perdono ogni volta che il cristiano lo chiede. Anche se qualcuno non riesce a vedere un particolare legame tra questo sacramento e i testi evangelici, dobbiamo in ogni caso riconoscere che il sacramento del perdono è un grande dono dello Spirito Santo alla Chiesa.

Una liberazione faticosa

Ci sono situazioni, chiamate da alcuni “stati di peccato o di irregolarità o di incoerenza”, proprie di chi è vittima di un errore o di una disgrazia e non è disponibile ad uscirne perché lo considera il minor male per la propria vita o perché non trova la forza di decidere altrimenti o ritiene che quello stato di vita sia la scelta migliore, quindi un bene, mentre gli altri cristiani lo valutano un male. Ora, se un cristiano giudica buono il proprio comportamento morale, non può chiedere perdono per ciò che ritiene buono. Può avere una coscienza erronea, che però pur sempre coscienza è e anche Dio la rispetta. Ci sono però anche coloro che portano nel cuore la sofferenza di un’incoerenza e proprio questi, bisogna pur dirlo, potrebbero ricevere una risposta più liberante dalla Chiesa, anche quando i canoni ufficiali, non potendo prevedere tutte le situazioni personali, si esprimono in maniera diversa.

La storia fatica a capire la giustizia e a diventare misericordia

Qual è il criterio per dire che un determinato comportamento è peccato? Non intendo, in queste pochissime pagine, fare un riassunto della morale, desidero solamente ricordare una certa relatività storica nel considerare i comportamenti morali o immorali e questa relatività è data dai limiti umani e dai mutamenti storici, dalla durezza di cuore e dalla dura cervice. Qualche esempio. Nell’Antico Testamento “non uccidere” significava non uccidere quelli del tuo popolo, gli ebrei e “non rubare” significava non rubare a quelli del tuo popolo. Ma i nemici potevi e spesso dovevi ucciderli e pure derubarli dei loro bottini. Con Gesù Cristo si fa luce. Il solo desiderio di peccato è già peccato. Se uno vuole la tunica, il Vangelo ci dice di dargli anche il mantello. Non solo non si deve uccidere, ma nemmeno tagliare un orecchio al nemico. Con Gesù ci viene chiesto persino di amare chi non ci sa amare o il nemico stesso.

Nasce dunque il cristianesimo e, con esso, un nuovo comportamento morale, che libera sempre di più il cuore dell’uomo, ma quanta fatica per camminare verso un cuore più libero! Fino al III secolo, per ordine del successore di Pietro e degli altri Vescovi, i cristiani non potevano fare il servizio militare per non rischiare di uccidere qualcuno e chi aveva grande difficoltà a lasciare una carica militare doveva promettere che non avrebbe mai ucciso nessuno. Nonostante queste aperture, dopo Costantino capita il contrario. Le stesse persone danno un ordine diverso: solamente i cristiani possono prendere le armi e fare le guerre (infatti ci si fidava solo più dei cristiani). Prima del 300, chi faceva la guerra era fuori della Chiesa. Dopo il 300 era fuori della Chiesa chi non la faceva. Questi esempi ci dicono con quanta umiltà dobbiamo giudicare le azioni degli altri e persino di noi stessi.

Il perdono è gratuito

Molti cristiani che si trovano in situazioni particolari si chiedono: “Posso ricevere il perdono di Dio nella Chiesa con la Confessione? Posso partecipare alla Messa e ricevere l’Eucarestia?”. Alcuni si sono scoraggiati dopo le parole di un confessore disattento o di chi, con una grande speranza, cercava di stimolarli a una revisione di vita più vera. Altri non hanno nemmeno provato a sentire la parola o un consiglio diverso perché si sono già condannati da soli.

Queste pagine sono per dire che il perdono esiste e il perdono, voglio gridarlo, è gratuito. Non nasce da un contratto di questo tipo: “Io do la mia conversione a Dio ed Egli mi dà il perdono”. Dio non mi dice: “Ti perdono se ti converti”, no! Il Signore mi perdona e poi mi chiede la conversione, anzi, mi chiede tutto: avere un cuore puro per vedere Dio; essere povero per accogliere in me il Regno di Dio; porgere l’altra guancia a chi mi ha percosso; fare del bene a chi ha fatto del male; amare i miei nemici; amare come Lui ha amato; essere perfetto come è perfetto il Padre che è nei cieli.

Gesù all’adultera

Gesù non dice a quella donna: “Se sei disposta a cambiare vita ti perdono, altrimenti vado a chiamare quelli che volevano lapidarti, perché tornino indietro”, no. Gesù la perdona gratuitamente e indipendentemente dai progetti di lei. Solo in seguito le rivolge un invito: “Va’, non peccare più”. E non fa firmare nessun documento per accertarsi se è pentita e nessuna parola dice che lo fosse. È possibile che quella donna amasse follemente l’uomo con cui era stata sorpresa in flagrante adulterio. È possibile che nella sua caparbietà dicesse nel suo cuore: “Preferisco morire sotto le pietre che lasciare quell’uomo”. In ogni caso, Gesù la perdona.

Ancora perdono

Così Gesù fa con il paralitico: in primo luogo lo perdona, perché sa che più di ogni cosa ha bisogno di quella guarigione interiore, poi gli farà la catechesi, la spiegherà agli altri, lo guarirà pure, ma prima di tutto gli dà il sacramento del perdono, gratuitamente.

Può sorprendere, ma in questi casi del Vangelo, il perdono non viene nemmeno richiesto (e chi avrebbe osato?). Viene dato e basta. Dato perché Gesù ha l’autorità di darlo, gratuitamente perché il perdono non richiede ricompense, accolto dal peccatore non per altro, ma solo perché è disposto a lasciarsi perdonare. Bisogna pur dire che quando preghiamo: “Signore, pietà”, oppure: “Signore, perdonaci”, probabilmente nella nostra mente chiediamo che Dio ci guardi nuovamente con sguardo pietoso e misericordioso e cessi di essere offeso o arrabbiato con noi, ma volga un’altra volta il suo sguardo benigno e finalmente ci perdoni ancora.

In realtà, Dio non deve fare nulla di tutto questo (come troviamo in alcune preghiere). Egli non è mai stato arrabbiato o offeso con noi. Ha già perdonato il nostro peccato da quando l’abbiamo pensato e poi realizzato, fosse anche stato il peggiore dei progetti criminali. Dio mi ha già perdonato e la ragione è semplice: Lui è Dio e in quanto tale non può non amarmi. E come potrebbe amarmi senza avermi perdonato? Il problema è un altro: sono io che non ho la buona volontà di ricevere il perdono.

Dal momento in cui abbiamo errato e Lui ci ha perdonati, il Signore sta alla nostra porta e bussa: “Figlio, ho il perdono da consegnarti, ma apri la porta perché possa offrirtelo. Sono già due ore, già tre settimane, sono già tre anni o trenta che aspetto: io busso per consegnarti il perdono, ma tu non apri. Apri la porta del tuo cuore e riconciliati con me. Io sono già riconciliato con te, ma aspetto che faccia la tua parte”. E come si apre la porta da parte mia? Col pentimento di aver sbagliato, col proposito di non commettere più quell’errore e una sincera volontà di convertirmi e fuggire le occasioni prossime del peccato. Se c’è questo da parte mia, il sacramento del Battesimo e della Penitenza mi confermano che mi sono riconciliato con Dio.

Durante la Confessione, in seguito all’accusa dei peccati e alla richiesta di perdono, il confessore non deve telefonare a Dio per autorizzarlo a perdonarci, perché Lui ha già perdonato, ma semplicemente deve aiutare il penitente a pentirsi e a desiderare sinceramente di voler cambiare vita, dopodiché il confessore ha ancora il ruolo di rappresentare l’intera comunità ferita dagli sbagli di ciascuno. Se, infatti, ho dato scandalo in piazza davanti a mille persone e, in seguito, ciascuno è andato da mille parti diverse, come posso chiedere e ricevere il perdono, se queste persone nemmeno le conosco? Il fatto che il presbitero rappresenti la comunità mi aiuterà ad ottenere quel perdono.

“Allora, se offendo una persona e le chiedo perdono, posso ricevere il perdono direttamente da lei, senza confessione?”. “La confessione è un dono ed è bene non rinunciarvi, perché ogni peccato, piccolo o grande, ferisce la grande famiglia umana di cui faccio parte, quindi in qualche modo ho bisogno del perdono di ciascuno, e anche in questo caso il presbitero – che rappresenta tutta la Chiesa e il mondo ferito dal mio peccato – può aiutarmi a ricevere il perdono”. Da ultimo, è come se il confessore dicesse: “Dio ti ha perdonato, da parte mia e da parte della comunità io pure ti offro il perdono. Ora devi solo più pentirti dei tuoi peccati, proporre di non peccare più e io ti dichiaro riconciliato con Dio”.

Il confessore non è un “Dio in terra”, incaricato di perdonarmi o meno a suo piacimento, o uno che, dopo avermi sentito e valutato le mie intenzioni, viene autorizzato da Lui a perdonarmi. No, nulla di tutto questo: Dio ha già perdonato tutto e ora attende solo più la mia riconciliazione. E che significa dunque: “Ciò che non sarà sciolto sulla terra non sarà sciolto in cielo”? Semplicemente che, in alcuni casi, quando il presbitero si rende conto che il penitente non è pentito e non è disposto a lasciare il peccato, né a rimuoverne le cause e non vuole convertirsi o non è disposto a perdonare chi lo ha offeso, deve dirgli: “Poiché non sei sinceramente pentito e non vuoi convertirti, non posso ancora dichiararti riconciliato con Dio”.

A quel punto, il confessore può chiedere un tempo penitenziale aumentando la preghiera, gli atti di carità, il digiuno da curiosità, letture o immagini che idiotizzano la persona, per ottenere dal Signore la grazia di una conversione sincera. E, dopo qualche settimana, tornare e riproporre la revisione di vita accompagnando con infinito rispetto la fatica della Resurrezione.

Bisogna proprio confessarsi?

A chi chiede se bisogna proprio confessarsi almeno una volta l’anno come indica la Chiesa, anche se molte chiese protestanti non sentono l’importanza di questo sacramento, si può rispondere, senza scomunicare nessuno, che molti bambini non hanno mai ricevuto un bacio dalla mamma, ma coloro che ne hanno ricevuti tanti sono molto più fortunati.

Il ladro crocifisso

“Oggi sarai con me, in Paradiso”. Non è fuori posto vedere anche qui un perdono incondizionato, un’accoglienza nella misericordia.

Gesù non dice neppure: “Non peccare più”, non tanto perché non ci fosse più tempo per fare peccati; infatti lunghe ore lo separavano dalla morte, ore immense e più che sufficienti per disperarsi, per mettersi a bestemmiare. Gesù non chiede nulla, perché la sofferenza è troppo grande e deborda da ogni parte: in questi casi si offre solo più il perdono.

Il documento dei Vescovi del Reno

Il testo a cui mi riferisco è stato pubblicato integralmente in italiano dalla rivista “Il Regno”. Quell’opuscolo non è un capitolo di un documento conciliare, bensì un’accorata proposta di alcuni pastori (Vescovi) che invitano il loro gregge alla misericordia.

La misericordia non si usa quando tutti i conti tornano, ma anche quando non tornano. La misericordia non si usa solamente verso chi si è già convertito, ma specialmente per chi è ancora nell’errore e spesso non sa venirne fuori o non ha la forza di fare un passo più coraggioso. In breve, tutti hanno bisogno di essere perdonati e tutti devono perdonare. A 83 anni, prima di morire dopo una vita di guida spirituale intensissima, il mio parroco mi disse: “Non ho mai negato l’assoluzione a nessuno. Ho sempre cercato qualche ragione per poter perdonare. Così ha fatto il nostro Maestro di Nazareth”.

I Vescovi del Reno avevano proposto un testo per i sacerdoti che attendevano le confessioni e un testo per coloro che volevano approfondire il discorso sul sacramento del perdono in situazioni familiari irregolari. E, ancora, i vescovi avevano pure preparato una lettera pastorale semplificata per essere letta in tutte le parrocchie delle Diocesi del Reno e così si fece in sostituzione dell’omelia per due domeniche consecutive.

Il documento si riferiva alla Comunione ricevuta o negata a chi vive in situazione che contrasta in parte con la disciplina generale della Chiesa cattolica romana. Si diceva che, se una persona sposata ha ricostruito una seconda famiglia per diverse ragioni di fragilità o per errori propri o del partner e non ha ricevuto l’annullamento del primo matrimonio da parte della Sacra Romana Rota (Tribunale ufficiale della Chiesa Cattolica, può incontrare altre soluzioni per giungere alla riammissione al sacramento della Comunione. Infatti, se oggi questa stessa persona riconosce nel profondo della sua coscienza che al momento del suo matrimonio era stata presente una qualche invalidità (ed è così raro che non ve ne siano) questa persona può accostarsi al sacramento della Comunione (pur senza aver ricevuto un’invalidità ufficiale).

Nel testo si consigliava pure che questa decisione fosse presa durante una revisione di vita fatta con il proprio parroco o altra guida spirituale, ma al di fuori del contesto della Confessione, perché non si chiede che venga perdonata una colpa per accedere all’eucarestia, ma semplicemente si fa luce sulla propria situazione a livello di coscienza, privilegiato luogo dove Dio dice l’ultima parola. Si chiedeva pure che, quando il chiarimento fosse avvenuto mediante un confronto con una guida spirituale (non il parroco), bisognava semplicemente informare il proprio parroco che la situazione di irregolarità era stata risolta a livello di coscienza.

La succitata proposta del piccolo episcopato del Reno prende in considerazione la seconda convivenza matrimoniale che non ha ottenuto l’annullamento del precedente matrimonio, perché non sempre si può esprimere con parole un’invalidità a un Tribunale ecclesiastico che si può solo basare su particolari terminologie con contenuti giuridici, mentre la propria esperienza può andare ben oltre l’esprimibile giuridico e solo la coscienza la può leggere.

A questo punto voglio esprimere una considerazione personale, non esplicitata nel testo. Indirettamente si può arrivare alla conclusione che, se un uomo e una donna vivono una relazione matrimoniale e si riconoscono in grazia di Dio (in quanto partecipano alla Comunione), la loro relazione è quella del Sacramento del matrimonio con tutte le Grazie che il Sacramento comporta, anche se questo sacramento non è stato celebrato ufficialmente in una chiesa.

Per capire come lavoravano in sintonia il Prefetto del Tribunale Vaticano Cardinal Ratzinger e Giovanni Paolo II, è bene osservare come si concluse la proposta sopraccitata. Un anno dopo (non tre giorni dopo) la pubblicazione del testo dei Vescovi del Reno, il Prefetto Card. Ratzinger rispose ai Vescovi del Reno che, dopo lunga preghiera e riflessione, il suo Ufficio che presiede alla Fede cattolica non si sentiva di dire un Sì ufficiale alla loro proposta, ma invitava a una riflessione più profonda, accompagnata da preghiera per ottenere una luce in più nel futuro, mentre Giovanni Paolo II nominò Cardinali due dei tre vescovi che avevano redatto il testo.

Questo “Sì” e “Non ancora” espresso dalla Chiesa di Roma diceva anche la difficoltà di offrire linee guida alle più diverse culture del mondo che si sarebbero prestate a letture non corrette del documento. Penso non sia fuori posto ricordare che, nella sua prima omelia, Papa Francesco, parlando della misericordia, citò un libro del Card. Kasper (appunto uno dei tre, allora Vescovi, redattori del testo commentato appena sopra). In quell’omelia sulla misericordia il Papa aveva concluso: “Dio non si stanca mai di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono”.

Beneditemi, padre, perché ho peccato

Nella breve carrellata che segue, ascoltiamo per un istante chi non ce la fa ed è “a terra” come un mendicante curvato sotto i giudizi di tutti coloro che dicono: “Potrebbe pur fare altro”. Ascoltiamo anche chi è riuscito a riscattarsi per dire a noi stessi e agli altri: “È possibile fare qualcosa di diverso”.

- Se tu che leggi sei “a terra” con la testa bassa cerca di

vedere se qualche soluzione nuova è ancora possibile;

- se sei già in piedi e cammini, non disprezzare nessuno perché

sai quanto è faticoso rialzarsi;

- se sei un prete che accogli il desiderio del perdono, giudica

sempre e solo secondo il cuore di Cristo.

Oshok [2]

La vigilia della prima Comunione di suo figlio è andato a confessarsi ed è arrivato a casa deluso perché il prete non gli aveva dato l’assoluzione e, con molta semplicità, lo disse ad alcuni amici di famiglia e a me. Raccontò all’incirca così: “Tra le altre cose ho detto che sono andato a rubare e lui mi chiese se ero disposto, se non a restituire, almeno a non rubare più e a fare qualcosa di diverso per vivere e io: Ma come faccio? Non so fare altro, lascerei morire i miei figli. Oltretutto, nessuno mi prenderebbe a lavorare perché non ho i documenti in regola. Poi mi ha detto delle parole molto belle. Io non capivo tutto ciò che mi diceva, ma si comprendeva che era un uomo di cuore, però io, domani, non potrò fare la Comunione”.

Non escludo che questo stimolo, questo sentirsi fuori posto, non abbia giovato al mio amico, ma vorrei raggiungere quel prete con queste righe per dire che probabilmente il suo non era l’unico giudizio possibile. Sia chiaro che non ho detto all’amico “Ti do l’assoluzione io”. Bisogna pur allenarsi a vivere con la Chiesa che fa fatica a muovere i passi su terreni difficili, ma quella volta avrei voluto vedere il mio amico più felice.

Mintu

Sono figlio di commercianti. Sono sposato. Dopo la scuola media, quando la mia casa era diventata stretta, mi ero messo a fare da solo. Mi sono sposato, dopo cinque mesi ho lasciato mia moglie e non ho mai più saputo nulla di lei. Ho conosciuto una sinta mentre andavo in accampamento, per vendere qualcosa che avevo trovato in giro. I miei cognati zingari lavorano tutti nello spettacolo viaggiante e sono riuscito a entrare in quel giro di lavoro. È un lavoro che mi piace ed è onesto, a differenza di quello che facevo prima.

D. Sei contento della tua vita?

R. Direi di sì.

D. Gesù Cristo è importante per te?

R. Certo. La mia famiglia di origine è molto cattolica e praticante. Io un poco meno.

D. Hai fatto la prima Comunione?

R. Anche la Cresima, ma dopo mi sono allontanato, forse trascinato dai miei amici.

D. Sei sposato in Chiesa?

R. No. Sia il primo che il secondo matrimonio li ho fatti in civile.

D. Hai figli della prima moglie?

R. No. Due bambini dalla seconda.

D. Ti piacerebbe riprendere più seriamente la vita cristiana?

R. Si, ma non saprei che fare.

D. Saresti contento di celebrare il matrimonio cristiano?

R. E cosa dovrei fare?

D. Ne parli con tua moglie e ci incontriamo qualche volta per preparare questo regalo che tu e tua moglie potete fare a voi stessi e ai vostri figli.

Taposh

Ero sposato da otto anni. Mia moglie ed io eravamo impegnati in parrocchia. Ci sembrava di essere, non dico buoni cristiani, ma ce la mettevamo tutta. Improvvisamente lei si è innamorata di un ragazzo con cui lavorava.È stato un terremoto in famiglia. Io l’ho minacciata, ricattata, perdonata, ma non è valso a molto. Ho le mie colpe anch’io, lo riconosco, ma mi sembra di essere stato più onesto. Ci siamo separati. Hanno dato la figlia a lei e io mi sono sentito solo. Ora convivo con una signora che chiamo mia moglie, però riconosco che ci manca qualcosa perché non siamo sposati: la nostra situazione è irregolare. Ne ho parlato col mio parroco: “Non posso mica stare tutta la vita da solo”, ma lui non mi ha capito.

D. Hai provato a parlare anche con altri?

R. No.

D. Riesci a partecipare alla messa alla domenica?

R. Sì, quello sì, ho mica ammazzato nessuno.

D. Andate tutti e due?

R. Sì, sì.

D. Alla Comunione?

R. No, non sono mai più andato e nemmeno lei.

D. Ti manca qualcosa nella vita?

R. Sì, vorrei di nuovo quella pace che avevo una volta, anche se mi sembra di essere a posto in coscienza, ma sento che qualcosa non va.

D. Consideri questo una disgrazia?

R. Ecco, sì, forse una disgrazia.

D. Se vuoi, torna qualche volta a riparlare di questo, perché certamente Nostro Signore vuole ridarti quella pace che dici di non avere più, e dartela in questa nuova famiglia che hai costituito.

Airin

Ho 94 anni. A 28 sono rimasta vedova con quattro figli. Mio marito, quando è morto, aveva la mia stessa età. Ho lavorato e cresciuto i miei figli. Non ho mai pensato ad altri. Il Signore mi è sempre stato vicino. Non mi sono mai pentita di aver fatto così.

Jumka

“Una cosa ho capito, una cosa sola mi hanno spiegato molto bene ed è questa: non potrò mai fare altra vita che questa. La prima volta me lo disse un uomo gentile, che sembrava anche intelligente: non ci credetti, ma poi me lo ridisse e me lo ripeterono altri. Mi fecero capire che ero un fallimento da tutti i punti di vista, che non sarei riuscita a far altro che lavorare sulla strada o a domicilio: era l’unica soluzione. Prima disprezzavo le prostitute e adesso forse disprezzo me, ma sono certa che non potrò fare altro nella vita. Forse non ci crede, ma io prego Dio, lo prego sempre”.

D. Saresti contenta di fare un altro tipo di vita?

R. Ma non saprei da dove cominciare.

D. Se tu incontrassi un giovane come te che non ti sfruttasse, ma ti volesse bene e volesse mettere su una famiglia con te, che ne pensi?”.

R. Mai nessuno mi ha detto che questo potrebbe essere possibile.

D. Forse si tratta solo di cominciare a crederci.

R. Non ti piacerebbe riprendere a frequentare la messa della domenica come facevi una volta?

R. È da tempo che non ci penso più, perché ormai la religione, penso, non è più una cosa per me.

D. Ti posso invitare domenica prossima? Verresti?

R. Mi troverei comunque a disagio. Tutti vanno alla Comunione e io dovrei stare in un angolo come una scomunicata.

D. Non invito la gente alla Cena del Signore per poi non offrire nulla da mangiare. Ci prepariamo e vedrai che sarà bello.

Puspo

Dice: “Sì, sono passata anch’io per quella strada di umiliazione: la rabbia, il cinismo degli uomini, l’egoismo, il disprezzo erano la realtà di tutti i giorni. Non ne sono uscita con le mie forze, non con le mie mani, non con i miei piedi, né con l’intelligenza del cervello o con la forza del cuore. No, Qualcuno mi ha liberata. Questo qualcuno si chiama Gesù Cristo. Mi sono consacrata a Lui e passo la mia vita a liberare chi è schiava della prostituzione, così come lo sono stata io. Ce l’abbiamo fatta in tante”.

Prodip e Omol

Due ragazzi omosessuali hanno scelto di vivere insieme per risolvere i loro problemi affettivi e di solitudine. Prodip dice: “Ho cercato diversi surrogati, quando mi sono accorto che ero diverso dagli altri. Mi sono dato alla musica, poi mi sono buttato nel lavoro e mi gratificava tantissimo, ma mi trovavo sempre solo. Ho tentato di suicidarmi. Poi ho trovato Omol che mi ha capito e ora viviamo insieme e sono contento”.

D. Ti consideri cristiano?

R. Sì, dirò di più: nella scuola media l’insegnante mi insegnò a leggere la Bibbia e me ne servivo quando componevo delle canzoni.

Una pagina mi ha fatto molto pensare: quando Dio crea Adamo, quest’uomo guarda tutte le cose del mondo, le più belle, ma nessuna gli fa superare la solitudine, è sempre solo, terribilmente solo, fino a quando trova qualcuno che è ossa delle sue ossa, carne della sua carne. Ho fatto anche una canzone su questa pagina e ho cantato che io, a differenza di Adamo, non trovavo nessuno.

D. Tu pensi che un uomo da solo non può vivere?

R. Io penso che un uomo come me, da solo, impazzisce.

D. Hai visto tanti sacerdoti, religiosi, religiose, anche monaci di altre religioni. Pensi che nessuno di questi possa vivere onestamente il celibato o la verginità?

R. No, per voi è diverso. Io penso così: una persona normale, pur attratta dall’altro sesso, può scegliere di vivere da sola semplicemente perché può difendersi, evitando tutte le occasioni che la porterebbero ad avere relazioni sessuali con un’altra persona. Ma per noi è diverso: il corpo di cui ci innamoriamo, il sesso verso cui ci sentiamo attratti, lo portiamo sempre con noi, è incollato a noi, per questo per noi è molto più difficile.

D. Ti capisco. È però anche vero che Dio non permette mai tentazioni superiori alle nostre forze, ma ne parleremo altre volte. Lo sanno i tuoi amici?

R. Sì quasi tutti, almeno quei pochi amici che mi restano.

D. Allora degli amici ne hai, non sei solo o meglio non eri solo come dici.

R. Sì, ma poi ciascuno per i fatti propri.

D. Preghi qualche volta?

R. Poco, ma qualche volta sì.

D. Hai mai parlato con qualche altro prete dei tuoi problemi, di come hai cercato di risolverli?

R. E cosa gli dico? O almeno so già cosa mi può dire.

D. E se ti dicesse qualcosa di diverso da ciò che prevedi?

R. Mi sorprenderebbe.

D. Secondo te, che cosa può pensare Dio di te?

R. Non lo so, ma vorrei che mi capisse.

D. Pensi che la nostra vita continui dopo la morte?

R. Penso di sì. Sono comunque d’accordo con un mio amico che dice: “Se esiste l’inferno, a noi Dio lo risparmia, perché abbiamo già sofferto troppo qui”.

D. Quindi non è che tutto sommato stai bene, se mi parli di inferno

R. Può essere.

D. Se Dio in persona ti telefonasse e facesse una proposta che non prevedi, saresti disposto a prenderla in considerazione?

R. Come no? Gli ho chiesto tante volte di aiutarmi.

D. Ci sono tempi in cui noi non possiamo capire i consigli di Dio e per questo Lui tace e sa aspettare, ma per te oggi potrebbe essere diverso. Ascolta, riconosci di avere degli sbagli nella tua vita da farti perdonare?

R. Mi trovo confuso a rispondere, ma certamente sì.

D. Gesù è disposto a riabbracciarti col suo perdono e io pure. Tu pensa solo a questo abbraccio. Se vuoi tornare fra 15 giorni, io cisono.

(Oggi questo giovane è missionario laico in Africa).

Mothi e Abdullah

Sono andati da un Vescovo considerato in tutta la Diocesi come uomo paterno e intelligente. Gli hanno esposto i loro problemi e parlato della loro convivenza. Il Vescovo non li ha fatti mettere al rogo, non ha dato il Sacramento del perdono perché non l’avevano chiesto; ma ha raccomandato loro di non perdere la fede, quella piccola o grande fede in Gesù Cristo che dicevano di avere. Il Vescovo li ha invitati a sperare, ad essere disponibili a passi nuovi più maturi, nella loro vita. Ha detto poi che la Chiesa deve ancora molto interrogarsi su questo problema e che il mistero umano ha ancora troppe zone d’ombra, dove non si vede chiaro e non si capisce. Li ha poi salutati da fratelli e ha chiesto loro di pregare per lui, mentre avrebbe pregato per loro, invitandoli a tornare.

Ashim

Si è espresso così: “Quando i miei problemi sono diventati più grandi di me e ho scoperto di essere omosessuale, ho cominciato a fumare e poi a prendere droga pesante. A volte mi chiedo se sia stato proprio questo il motivo per cui mi sono infognato così o forse è solo un alibi che a volte mi torna comodo per motivare una colpa che faccio fatica a perdonarmi. Comunque, in meno di sei mesi ero irriconoscibile. Ho poi incontrato una comunità veramente carismatica dove mi hanno voluto una montagna di bene e ne sono uscito. Ho frequentato ragazzi come me, poi ho smesso. Adesso mi faccio seguire ancora un poco da un bravo psicologo, faccio yoga che mi aiuta molto e ho trovato un lavoro a metà tempo. Non so nemmeno se avrei la forza di sostenerne uno a tempo pieno.

D. Vivi da solo?

R. Sì

D. Pensi di vivere tutta la vita così?

R. Spero.

D. Che cosa ti ha portato a questa decisione?

R. Tre fatti in particolare. Ho letto una biografia di Ghandi e mi ha impressionato che 20 anni prima della morte, in comune accordo con la moglie, fece voto di non avere mai più rapporti sessuali. Ho letto pure di Budda che ha lasciato la moglie giovane e bellissima per fare una strada ascetica diversa. E, da ultimo, ho visto un giovane che frequentava la scuola con me entrare in monastero appena laureato in medicina. Anche lui ha lasciato la fidanzata di cui era innamorato pazzo. Le letture e la scelta dell’amico saranno pure una casualità, ma il tutto mi ha fatto capire che queste persone, come migliaia e migliaia di altre in oriente e in occidente non sono morte o non muoiono per aver scelto il celibato, ma anzi sono state capaci di fare cose bellissime. Io non ho voglia di farmi religioso né monaco buddista, ma penso di poter fare cose bellissime anch’io.

Robi

Sono prete da 14 anni. Quattro anni fa ho lasciato il ministero perché avevo dei doveri nei confronti di una donna che aspettava il nostro bambino e poi è diventata mia moglie. Mi sono sposato in civile. Ho sofferto molto per non aver ricevuto la dispensa, d’altra parte non avevo motivo per riceverla, né scusanti, né attenuanti.

D. Siete sereni?

R. Abbastanza. Abbiamo un figlio e sta per nascere il secondo.

D. Se dovessi tornare indietro?

R. Farei sempre e solo il prete o mi sposerei e farei sempre e solo il marito e padre dei miei figli.

D. La fede è rimasta?

R. La mia non è stata una crisi di fede, ma una crisi affettiva. Non sono riuscito a maturare come prete adulto. Mi sono trovato fuori posto e onestamente dovevo scegliere: non potevo ingannare me stesso, una donna, una comunità.

D. Partecipate ai sacramenti?

R. Andiamo sempre a Messa e spero di educare i figli nella vita cristiana più serena possibile. A confessarmi no, perché non potrei ricevere l’assoluzione, sono fuori posto per la Chiesa.

D. Sei sicuro di non poter ricevere l’assoluzione?

R. Sì, le leggi della Chiesa le conosco.

D. Ma la nostra vera Legge, che è pure legge della Chiesa, non è Gesù Cristo?

R. È vero, ma le leggi della Chiesa devono mediare la Legge di Dio con la singola realtà umana. Così come c’è un Codice di Diritto Civile, che storicizza la Legge Universale e la fa diventare particolare con sanzioni, punizioni e assoluzioni, così c’è un Codice di Diritto Canonico e Leggi particolari nella Chiesa che io riconosco.

D. Ascolta: le leggi e le norme di comportamento che ci sono nella Chiesa, i Concili, le Dichiarazioni dei Papi e dei Vescovi sono un servizio per far luce sul comportamento morale ma, ripeto, non sono la Legge. La Legge è sempre e solo Cristo.

R. Però la Legge che è Gesù Cristo dovrebbe concordare con le leggi della Chiesa, altrimenti queste ultime che ci stanno a fare?

D. Ma spesso Gesù Cristo le supera anche.

R. Sì, questo è vero.

D. Tu sai che ogni situazione umana avrebbe bisogno di un intero Codice di Diritto Civile per essere giudicata in un processo ed è per questo che, dopo essere stato illuminato da tutte le leggi civili, il Giudice deve pronunciare un giudizio il più vicino possibile alla Legge Universale. Ho conosciuto Giudici che, senza apparenti cause seconde, hanno punito gravemente piccoli reati e penalizzato con pochi mesi di detenzione reati gravi. E tutto ciò a causa dei contesti sociali, familiari e psichici dell’imputato. Nel caso nostro non è cosa simile? Quando accoglie una Confessione per il Sacramento del perdono, un prete deve lasciarsi illuminare da tutte le norme, dichiarazioni e proibizioni che la Chiesa ha maturato lungo il suo cammino, ma alla fine deve giudicare lui e, se giudica di dare il Sacramento del perdono che è stato richiesto, è perdono della Chiesa oltre che di Dio, il quale certamente precede i nostri stessi desideri di perdono.

R. Sì, forse è così. Devo pregarci sopra per dispormi ad accogliere quel dono.

Onil e Jaia

Il perdono è gratuito ed è possibile offrirlo tutte le volte che c’è sofferenza per il peccato commesso o per il male che è in noi, anche se qualche volta può essere utile l’attesa del perdono, un’attesa come segno, un’attesa penitenziale.

I due sposi erano venuti per la Confessione in uno di quei momenti che rasentano la disperazione. Non intravedevano vie d’uscita. Non volevano l’aborto e non riuscivano ad accogliere la nuova gravidanza che li aveva un po’ sorpresi. Facevano fatica con i tre figli, uno dei quali già grande. Avevano fatto tante ipotesi e alcune le abbiamo fatte insieme. Ci eravamo molto aiutati in altri momenti e non potevamo non farlo adesso.

Il marito era particolarmente angosciato per la moglie, già assai compromessa nella salute. Anche lei non ce la faceva a dire di sì a quel bambino per tutte le implicanze che sarebbero venute in seguito. Abbiamo pregato e riflettuto, poi mi sono accorto che non potevo decidere per loro o da solo sulla loro pelle. Né mi sembrava onesto dire di fare ciò che credevano meglio e poi, eventualmente, confessarli. Come pastore mi rifiutavo di lasciarli da soli.

Presi un foglio bianco e, col batticuore, lo firmai e lo diedi loro per firmarlo quando avessero preso la decisione finale, dicendo: “Non posso lavarmi le mani nel momento della scelta. Ora deciderete voi, a casa, se su questo foglio bianco potrete scrivere atto di nascita o se dovrete scrivere atto di morte. Io l’ho già firmato. Se per disgrazia doveste scrivere atto di morte, ritornate da me e andremo insieme a confessarci, perché mi sento corresponsabile con voi. Se direte di no, sarà perché non eravamo degni di accogliere questa vita, non meritavamo questo dono. Tutti i nostri peccati del passato potrebbero farci pagare questo prezzo”.

Sono andati a casa senza assoluzione. Il giorno seguente non ho celebrato la S. Messa a causa di quella firma. È vero che sei mesi e mezzo dopo è nato un bambino, senza troppe complicazioni, ma poteva essere diverso.

Questo pezzo di mia confessione pubblica l’ho raccontato per sottolineare che non si esclude per principio una sospensione, un’attesa provvisoria dell’assoluzione stessa, purché sia provvisoria e breve. Dio ha scelto di nutrirci attraverso i sacramenti e noi non possiamo fare a meno per molto tempo degli alimenti di Dio stesso.

Sujit

Ero andato a trovarlo all’ospedale. Stava male: i reni funzionavano con fatica, il fegato era distrutto dalla cirrosi e i polmoni schiacciati dal liquido che gli impediva di respirare. Parlava a stento. In pochi anni l’eroina lo aveva ridotto uno straccio, anche se c’era stata una pausa di un paio d’anni. In quei due anni ci eravamo conosciuti. Il ragazzo aveva ravvivato la fede e fatto un cammino non comune. Sapeva bene chi era Gesù Cristo, cos’erano il bene e il male e sapeva pure di essere troppo fragile.

Quel giorno, poco prima di morire, mi disse: “Non ce l’ho fatta, ma questo non sarebbe niente, il peggio è che non ce la faccio, nemmeno adesso. E se non mi inietto una dose non è per altro, ma solo perché non posso”.

Impiegò diversi minuti per dire tutto questo, in quanto la voce usciva a fatica. “Vedi – mi diceva – ho aghi da tutte le parti, sono inchiodato, non posso muovermi, altrimenti almeno una volta…”.

“Ascolta – gli risposi – mi ha mandato qui da te un comune amico, lo sai. Gesù Cristo mi incaricato di dirti che ti vuole bene così come sei, proprio così. Se fossi riuscito a liberarti certo sarebbe stato bello per te, per me, per Lui, ma se non sei riuscito la sua amicizia con te rimane la stessa, hai capito?”.

“Mi perdona?”.

“Sì, certo che ti perdona!”.

“Anche se non riesco a smettere nella mia testa e se domani sto meglio vado di certo a cercare una dose?”.

“Sì, ti perdona così, così come sei tu ora. Ti dispiace di come sono andate le cose, vero?”.

“Certo che mi dispiace!”.

Ha poi continuato. Ha voluto confessarsi, anche se con poche parole ed io, a nome della Chiesa, ho potuto dargli il Sacramento del perdono. Morì poche ore dopo.

Fatima

“Dopo cinque anni di matrimonio, un giorno lui uscì ed entrò poco dopo per dirmi che non si sarebbe più fermato in casa perché aveva scelto un’altra persona. Il bambino stava ancora dormendo. Lui uscì senza nemmeno entrare a prendere qualche vestito o altro. Forse temeva di dover discutere e preferì fare in quel modo. Rimasi come un’idiota e guardai dalla finestra: con mia sorpresa vidi che non era una donna ad aspettarlo, ma un uomo. Quando mi resi conto che vivevo ancora in questo mondo, compresi anche perché tutta quella fatica a vivere insieme in quegli anni con un marito che era tale solo di nome. Pensai al bambino, a come avrei fatto, pensai se mi avrebbero potuto aiutare i genitori o i suoceri. Pensai al mio futuro, agli amici. Tutti questi pensieri mi assalirono il cervello. Seguirono tutti i tentativi di soluzione, intanto io mi stavo abituando ad accettare la realtà così com’era. Ho pensato di ricostruire una famiglia, se avessi incontrato la persona adatta e la trovai. Ho fatto qualche tentativo per la richiesta di annullamento di matrimonio, ma per vari motivi non si riuscì a venirne a capo”.

Intanto ci incontrammo e più di una volta riflettemmo su come muoverci per raccogliere quei cocci che rimanevano e ricostruire con responsabilità il futuro. Si pensò al nuovo matrimonio, ma Fatima, essendo cattolica e praticante, faceva fatica a pensare a una convivenza senza matrimonio che non fosse sacramento. Dopo vari tentativi, si dovette rinunciare all’annullamento ufficiale. La mia proposta finale, dopo molta preghiera e non senza chiedere consiglio, fu: “Poiché riconosco delle invalidità in quel matrimonio celebrato anni fa, propongo il matrimonio civile e io vengo da testimone. Sapete che i ministri del matrimonio sono gli sposi e il prete è solo un testimone, ovviamente a nome della Chiesa. Durante la celebrazione del matrimonio, ufficialmente io risulterò un cittadino italiano comune, mentre voi sapete che sono anche prete e testimone di questa nuova ricomposizione”.

Il parroco della ragazza, uomo anziano e molto paterno, non trovava le parole per ringraziarmi e mi propose anche, dopo la cerimonia, di accompagnare gli sposi in una cappella della parrocchia per una benedizione in più. Ringraziai anch’io, ma non era necessario: in quella celebrazione ci sarebbe già stato tutto. In casi simili, altri preti seguirono quella stessa strada, compreso il vicario diocesano di una Diocesi vicina. Sono passati molti anni e riconosco che il modo in cui si sono risolti i problemi è stato una grazia.

Ammettere ai sacramenti

Qualche sacerdote è preoccupato di ammettere ai sacramenti un “peccatore pubblico” a motivo dello scandalo: è un rischio che dobbiamo correre nelle nostre comunità. Se i cristiani non diventano misericordiosi verso gli altri, bisogna aiutarli a diventare tali, altrimenti facciamo un peccato in più giudicando il fratello peggiore di noi stessi.

Verso il perdono

Qualcuno dice che il pentimento è vero quando il peccatore lo dimostra prima a Dio, poi a se stesso e alla Chiesa, cambiando vita e rimuovendo gli ostacoli che impediscono un onesto comportamento morale. Da parte mia, mi ostino a dire che il pentimento è la sofferenza, il dispiacere per le ferite del peccato che ci sono in noi e questo non significa sempre essere capaci di guarire.

Il figlio prodigo

È pur vero che non posso dire: “facciamo festa” al giovane mentre pascola i porci e si accontenterebbe delle ghiande dei medesimi. A questo ragazzo devo dire: “Cerca di tornare a casa, là c’è la vita”, ma se questo non riesce a tornare che faccio? Lo lascio morire?

Ho un bel ricordo di un figlio che, a differenza del figlio prodigo, non tornò mai a casa. Era alcolizzato e non aveva mai creduto di poter fare qualcosa di più che vivacchiare. Ma il fratello maggiore, che si sentiva responsabile di lui, ogni giorno gli portava da mangiare e non gli lasciò mai mancare nulla, nemmeno i soldi per le partite a carte con gli amici. Motivava il tutto in questo modo: “È fatto così, ha questa malattia ed è mio fratello”. Il tutto tradotto in linguaggio teologico: non lasciò il fratello senza sacramenti.

Ancora una parabola:

Se la pecora smarrita non torna a casa, il buon pastore va in cerca di lei. Se la trova tra le spine non può invitarla a fare festa tra i rovi, la festa si fa nell’ovile dove si mangia l’erba e si beve. Ma se il pastore trova la pecora in qualche crepaccio della montagna e non riesce a tirarla fuori, non si rassegnerà facilmente a lasciarla morire di fame e di sete per il solo fatto che non può mangiare e bere come le altre nell’ovile.

Il buon pastore porterà l’erba, la lascerà calare nel crepaccio con l’acqua mentre cercherà qualche soluzione per il giorno dopo, sperando che l’energia della pecora e la creatività del pastore trovino una via d’uscita.

Ai margini

Non escludo che un breve tempo ai margini della Comunione, tempo in cui si priva un fratello del cibo della festa, non possa essere utile alla purificazione e stimolo a un cammino di autentica vita cristiana. Non escludo nulla di tutto questo, purché il tempo del digiuno sia breve, altrimenti il fratello rischia di morire di fame e i sacramenti sono questo cibo e se tutti ne hanno bisogno, in primo luogo ne ha bisogno chi è più debole.

Giovanni Battista

E se il tuo confessore non ti ha ancora offerto il sacramento del perdono, mentre preghi e leggi la Bibbia e compi azioni di carità, tutti sacramenti del Cristo, pensa a Giovanni Battista che manda da Gesù alcuni amici per chiedere se è Lui il Cristo o se deve attendere un altro. Gesù invita i messaggeri di Giovanni a riferire: “I ciechi vedono, gli storpi camminano, i carcerati sono liberi, i morti risuscitano”.

Cosa avremmo pensato noi al posto di Giovanni, se avessimo inteso “i carcerati sono liberati” e intanto avessimo dovuto costatare che le catene e i piedi restavano chiusi, mentre l’inferriata alla finestra e la porta continuavano a imprigionarci? E se avessimo inteso “i morti risuscitano”, quando noi sapevamo che la sera stessa sarebbero venuti a decapitarci? A noi sarebbe bastata una libertà qualsiasi, una “libertà provvisoria”, pur di uscire dal carcere, invece a volte il Cristo e anche la Chiesa ci può lasciare in “detenzione” provvisoria per una liberazione e assoluzione con “formula piena”.

A un amico penitente che soffre

Caro amico,

pur in una situazione difficile, simile a una di quelle di cui ti ho parlato, se nella nostra Chiesa ti senti capito da qualcuno che può incoraggiarti e illuminarti nel tuo difficile cammino, ringrazia il Signore. Se invece ti sei sentito rifiutare i sacramenti e per questo ti sei emarginato, sappi che il Signore Gesù può capirti e, mentre lo stesso Signore ti chiede soluzioni sempre più coraggiose, sa accogliere anche la tua impotenza e persino la tua volontà fragile, al punto di essere incapace di cambiare vita e guarire. Intanto prega, leggi il Vangelo, compi gesti d’amore, rifletti e renditi disponibile a un domani migliore, più maturo e quindi più portatore di gioia. E, se ne hai la possibilità, non cercare di fare il cammino da solo, ma fatti accompagnare con umiltà.

Misericordia con autorità

Quarto capitolo del Vangelo di Giovanni: la samaritana arriva al pozzo, dove Gesù riposa e l’attende. Lei è una pluridivorziata, una peccatrice pubblica, tutti la conoscono. Gli stessi apostoli si stupiscono che Gesù sia stato così imprudente a parlare con lei. Lei è scomunicata. Lei non ha il coraggio di chiedere a Gesù la “comunione” con lui, ma è Lui che chiede la comunione a lei:

“Dammi da bere!”. E, come se non bastasse, le dice di andare a chiamare anche suo marito, ben sapendo che non è suo marito

perché, come tutti sanno, ne ha avuti cinque.

Agli occhi di alcuni giuristi questo Gesù é veramente esagerato, più di Papa Francesco. Che misericordia! che perdono! E che autorità per chiedere l’inizio di una vita nuova! Mi permetto di aggiungere in questo contesto che nella pastorale alle famiglie ferite certamente sono utili i tempi penitenziali di digiuno, di digiuno eucaristico anche prolungati, ma quando le ferite sui figli sono avvenute e pur se saranno perdonate non potranno essere cancellate e quando l’egoismo ha vinto e ha spaccato una famiglia, e quando il desiderio di vendetta ha provocato altri danni, e quando la donna che é venuta davanti a te “pastore della chiesa”, lei che dopo il divorzio ha avuto già altri cinque mariti, ebbene non sarà necessario fermarsi a ripensare il tutto e risentire Papa Francesco che ci chiede, proprio in quel momento, uno sguardo di rispetto e compassione, che concretamente sa “curare”, “liberare” e “animare a maturare nella vita cristiana”?

A un confratello desideroso di perdonare

Posso assolvere una persona che vive una situazione irregolare? Se una persona sposata ha rimesso in piedi una seconda famiglia con un altro partner e nella nuova famiglia ha pure figli che non deve lasciare, per non creare una situazione più grave della precedente e se questa è la situazione che giudico la meno sbagliata e se questa persona chiede il perdono, posso dare l’assoluzione? A chi mi appello se chi mi manda mi dice di no? Il sacerdozio ministeriale è una proprietà privata che posso gestire io o è dipendente?

Una umile risposta fraterna:

- i Concili, il Papa, i Vescovi hanno detto dei no, ma non per la persona specifica che incontri tu oggi, nel suo particolare contesto storico, culturale e psicologico. L’autorità della Chiesa ha sempre dato norme generali che illuminano ogni realtà umana;

- il tuo sacerdozio ministeriale non è proprietà privata, ma è dipendente;

- il tuo sacerdozio ministeriale è dipendente sì, ma non dipendente dal Vescovo o dal Papa, bensì da Cristo;

- il sacerdozio ministeriale non è una tua proprietà privata, ma in esso “è impresso il carattere”, sei costituito giudice e in quanto tale dovrai giudicare;

- non sei un delegato del Vescovo, ma un mandato da Cristo (secondo il Concilio di Trento). Il Papa e il Vescovo ti inviano in una comunità, ti scelgono il tribunale, ti danno un Codice con delle norme, ma dovrai giudicare tu. Non dimenticare però che la Norma, la Legge è Cristo e nella Chiesa, pur nell’obbedienza rispettosa, non c’è Democrazia, né Monarchia, ma solo Cristocrazia.

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[2]

I nomi di persona sono simbolici e non italiani, mentre le testimonianze arrivano tutte da un contesto italiano.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo VI

I DUBBI DI TEOFILO

pag. 85-107

È bene ribadire quanto già detto nell’introduzione: il capitolo che segue dev’essere considerato come un unico e lungo interrogativo. È uno stimolo alla riflessione e non un risultato dogmatico. Il lettore, specialmente se studente di teologia, dovrà fare un esercizio e cioè estrarre dal proprio bagaglio risposte più vere, oppure confutare quelle errate o incomplete.

Satana e Inferno

«C’è ancora qualche ombra nel tuo sguardo indagatore!», osservò il Padre il giorno seguente.

E Teofilo: «Non pensate però che faccia fatica a mettere a nudo tutti i dubbi e a formulare qualsiasi tipo di domanda, semmai quando gli interrogativi sono più grandi di me temo di non cogliere i concetti e di non essere in grado di riflettere in profondità, specialmente su domande e risposte date per scontate da secoli. Ci sono ancora due parole: ‘Satana’ e ‘Inferno’, che ho forse inconsciamente cancellato dal mio vocabolario, sapendo però di non poterlo fare senza strappare anche alcune pagine del Nuovo Testamento. Padre, vorrei proprio cancellare dalla mia vita la parola ‘Satana’, oppure essere illuminato a leggerla. Troppe volte sento la mia carne flagellata da mille tentazioni, che di solito vengono attribuite a quell’oscuro autore».

«Teofilo, la tentazione non è il peccato, è una provocazione alla lotta per diventare più forti e il fine della tentazione non è che tu faccia il male, ma che ti fortifichi, superando la pigrizia e rimanendo vincitore sul peccato. Se il diavolo della religiosità popolare volesse farti del male, certamente non lavorerebbe sulla tentazione e saprebbe molto bene che quella lotta può renderti più forte, diminuendo così la possibilità di sbagliare.

Si racconta che un giovane monaco abbia così pregato: “Signore, pensando a quella terribile notte, mentre ero assalito da tentazioni che mi sembravano superiori alle mie forze e gridavo a Te, perché sapevo che solo tu avresti potuto liberarmi, ebbene, quella notte, mentre rischiavo di cadere e peccare, tu, Signore, dimmi, dov’eri?”. Sembra che una voce gli abbia detto: “Ero dentro di te e mi rallegravo nel vederti lottare”. Questa è una parola in più per dirti che la tentazione è solo per fortificarci».

Teofilo riprese: «In ogni caso il personaggio in questione, che sembra si sia auto-incaricato di farci fare del male, questo demonio deve sempre avere un qualche permesso da parte di Dio stesso, altrimenti non potrebbe agire in nessun modo. Se però è così, il diavolo sarebbe la creatura più inutile e contradditoria al mondo».

«Lo stesso Curato d’Ars, presentato nelle agiografie in continua lotta contro Satana, un giorno disse: “Il diavolo mi fa proprio pena.

Non so proprio come possa vivere”. E ora, poiché riconosco che non è facile parlare di questo personaggio oscuro e contradditorio, per spiegarmi ho confezionato una parabola, un’immagine plastica:

Un uomo sfortunato aveva un figlio che, molto giovane, era precipitato nella droga, dapprima per scherzo, cominciando a fumare con gli amici, poi con le pasticche di ecstasis, quindi con l’eroina, finché via via imparò a bruciarsi polmoni e cervello, al punto da diventare uno scheletro ambulante. Il padre, disperato, dopo aver tentato di tutto non ebbe più mezzi per salvare quel figlio a cui aveva voluto tanto bene e in cui aveva posto tante speranze. Ad un certo punto gli venne in mente una soluzione per certi versi orribile, ma che, nella disperazione, gli sembrava l’unica strada ragionevole per non vederlo morire giorno per giorno in quel modo. Pensò: “Se riesco a procurargli un incidente che lo forzi a restare in ospedale alcune settimane, chissà che non possa riprendere la disintossicazione e forse salvarsi”. Nello stesso tempo, sapeva bene che non poteva fare un’azione violenta contro di lui: non avrebbe potuto accettare che proprio suo padre potesse fargli del male.

Così l’uomo comprò una tuta da carnevale nera, con corna rosse e una lunga coda, che rappresentava il diavolo. Mentre aspettava il figlio, una sera vestì quell’orribile maschera, poi prese una barra di ferro e, con tanto dolore nel cuore, si appostò vicino alla scala. Appena lo vide arrivare, gli spezzò le due gambe in un sol colpo. Il ragazzo ebbe giusto il tempo di vedere quel diavolo e cadde. Allora il padre sfilò la tuta carnevalesca e corse dal figlio che stava gridando. Lo raggiunse e l’abbracciò: “Figlio mio, chi ti ha ridotto così?”. Poi lo tenne tra le sue braccia in attesa dell’ambulanza. Intanto gli ripeteva: “Ma chi ha potuto farti una cosa così orribile?”. E il figlio rispose: “Ho visto un diavolo, poi un grande dolore e sono svenuto dimenticando tutto”. In ospedale ci rimase oltre un mese per risolvere il problema della frattura e iniziare per l’ennesima volta una terapia per liberarsi dalla droga.

Vedi, una persona fragile e debole non riuscirebbe mai ad accettare che suo padre possa avergli spezzato le gambe. Perciò è meglio che pensi a un nemico, a un diavolo, poi quando sarà guarito dalla sua malattia, sarà il padre stesso a confidargli come sono andati i fatti. Penso sempre più che è Dio e solo Lui il Signore della storia e non ha bisogno di nessun nemico che lo aiuti ad allenare i suoi figli per diventare più santi attraverso le tentazioni.

Da parte mia ti dirò che, pur non avendo avuto nessuna rivelazione in proposito, penso che esistano degli Spiriti, ma sempre sottomessi a Dio con incarichi diversi per stimolarci e riportarci alla santità. Possono essere gli Angeli che vanno a incendiare Sodoma e Gomorra o i molti dell’Apocalisse, ma queste e altre potrebbero essere semplicemente immagini di Dio stesso.

«Padre, non si parla anche di possessioni demoniache? E pure di esorcismi. Queste parole, allora, non hanno più senso?»

«Bisogna semplicemente rivedere il senso che hanno. La possessione può essere un atto di odio che si è scatenato contro un nemico. Come una pietra o un proiettile lanciati contro una persona può anche distruggerla, così un atto di odio è anche più forte di un’arma da fuoco e può creare danni così devastanti, da sembrare in molti casi irreparabili; allora bisogna pregare su queste persone, bisogna pregare e digiunare per esse come ci indica Gesù stesso nel Vangelo. Ma può anche trattarsi di malattie vere e proprie. Una volta portano a Gesù un epilettico e gli descrivono i sintomi: per loro ha un demonio in corpo che lo getta a terra con delle convulsioni e che ha cercato pure di buttarlo nel fuoco e annegarlo nell’acqua. Gesù non sta a dire che tipo di malattia è, non gli prescrive l’E.E.G. Gesù non vuol fare il medico e neppure il teologo. Per Lui c’è un figlio che soffre e vuole liberarlo: se chi lo ascolta si esprime dicendo che ha un demonio in corpo, Gesù risponde che manderà via quel demonio».

Teofilo domanda ancora: «E quando Gesù manda gli Apostoli e i Discepoli a predicare e scacciare i demoni?»

«Gli Apostoli sono invitati a convertire i cuori, a cacciare la pigrizia di fare il bene, a cacciare i vizi, i demoni della superbia, della lussuria, dell’avarizia, dell’invidia, dell’ira e tutti quei vizi che tengono prigionieri tanti fratelli. In una parola, Gesù manda a convertire e cambiare la vita di chi va su strade sbagliate e, siccome il peccato viene considerato una malattia, Gesù li manda a guarire. E, quando i discepoli tornano contenti ed esaltati per aver cacciato tanti demoni e spiriti immondi, Gesù dice che è molto più importante che i loro nomi siano scritti in Cielo: per questo li invita a rallegrarsi.

Teofilo, posso ancora ricordarti che, durante il Concilio Vaticano II, i Vescovi chiesero al grande teologo francese Pierre Benoît di dir loro una parola sul personaggio oscuro che è il diavolo. Egli rispose che non possiamo togliere quella parola senza strappare tante pagine di Vangelo ma che – a partire dalle analisi bibliche contestualizzate nella cultura semitica e tenendo conto di com’è venuta a formarsi tale immagine – non si può dare a Satana un’identità attendibile. Bisogna quindi concludere umilmente che non sappiamo cosa sia – se un personaggio reale, simbolico, rappresentante del male o personificazione di esso – ma essere anche molto comprensivi per il fatto che, attraverso i secoli, non sempre la Chiesa ufficiale ha trovato il linguaggio più adatto per parlare del male.

Comunque, crediamo in ciò che propone il Credo degli Apostoli che non si perde nelle emozioni dei predicatori: crediamo quindi in Dio Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo, nella Chiesa e in tutte le verità rivelate da essa, anche se spesso con linguaggi impropri poiché inficiati dalle modalità di pensiero delle varie epoche, ma sempre in coerenza assoluta con il grande dogma di fede che è Dio Giustizia infinita, Dio misericordia infinita e Dio amore infinito: la Misericordia di Dio è infinitamente giusta, come la sua Giustizia è infinitamente misericordiosa. E crediamo ancora la Comunione dei Santi, la Resurrezione, la Vita eterna; il resto lo deponiamo nel cuore di Dio, che ci spiegherà meglio quando lo incontreremo a tu per tu, nei Cieli nuovi e nella Terra nuova».

«Padre, c’è ancora una parola che dovrete aiutarmi a capire: ‘Inferno’. Questo concetto richiama quello di giustizia divina e di libertà dell’uomo che lo stesso Dio rispetta, e di mille altri. Come ben sapete, voglio essere totalmente fedele al Dio della misericordia, al Dio amante e appassionato di ogni creatura ormai carne della sua carne e desidero promettere fedeltà al Gesù che m’invita a perdonare settanta volte sette i nemici, cioè coloro che potrebbero inchiodarmi su una croce come hanno fatto a Lui.

Ma mi chiedo: può questo Dio dimenticare tutto per infliggere a una povera creatura umana, fragile dalla testa ai piedi, un castigo come quello riportato in certi catechismi e in certi scritti? Quando si parla di Inferno, si descrive un castigo che l’uomo non riuscirebbe nemmeno a pensare di sopportare un solo minuto, figurarsi un’eternità. Non c’è un angolo nell’umano dove si possa collocare un concetto simile. Quando parliamo dell’uomo dobbiamo pur tener conto delle facoltà che possiede, delle sue resistenze, delle forze e fragilità di corpo e spirito.

E ancora, come riferisce Matteo, chi dice “stupido” a un fratello merita di essere processato e chi lo chiama “fallito” merita il fuoco della Geenna, ossia l’Inferno. Questo è ciò che meritiamo e, poche righe dopo, lo stesso Matteo accompagna alla soluzione: devo perdonare il fratello che mi ha chiamato “fallito” e che merita quindi di bruciare nella Geenna. Anzi, se mi trovo a offrire il sacrificio all’altare, devo uscire, andare da mio fratello a perdonarlo e a ricostruire la pace. Se dunque il Signore chiede di perdonare colui che merita la Geenna e lo chiede a me debole, fragile e cattivo, molto di più saprà perdonare Dio stesso. Mi sbaglio, Padre?».

«Dio ci chiede un perdono incondizionato, cioè da dare sempre e se Lui dovesse punirci con una vendetta eterna significherebbe che dovremmo essere migliori di Dio stesso. Ma si sa che pensare a un Dio meno buono dell’uomo significa far nascere l’ateismo. A me sembra che le menti umane – compresa quella di chi dice di credere al supplizio eterno – di fatto l’hanno rimosso, coscientemente o no.

Un giorno un sacerdote mi confidò che in quasi quarant’anni di ministero presbiterale non aveva mai incontrato una sola persona che abbia evitato di commettere un crimine per sfuggire all’Inferno, quindi vuol dire che non c’è spazio nella mente umana per un luogo così. E, ancora, mi pare di dover dire che, se anche un solo uomo potesse vivere in una dimensione punitiva di quel tipo, allora sarebbe stata inutile l’Incarnazione, mentre il Gesù che conosco sarebbe disposto a morire altre cento volte per salvare un ipotetico condannato a un simile supplizio.

Quand’ero bambino, la catechista ci parlò dell’Inferno. Fui molto impressionato e domandai: “Se mia madre, a cui voglio tanto bene, dovesse andare all’Inferno e io in Paradiso, come potrei restare felice sapendo che è là, tra quelle fiamme?”. Senza il minimo dubbio, la catechista rispose: “Dio ti farebbe capire perché è successo, dopo di che tu resteresti felice per la vita eterna in Paradiso, mentre tua madre starebbe dannata per l’eternità all’Inferno”. Avevo solo sette anni, ma non mi conformai a quella risposta, che avevano già dato Tertulliano, San Tommaso d’Acquino e molti altri, pressappoco dicendo le stesse parole della mia catechista. Comunque pensai che era matta».

Con tanta pazienza, senza mai innervosirsi neppure di fronte alle domande che Teofilo poneva con tanta passione e irruenza, il monaco soggiunse:

«Ecco una breve riflessione che non è tratta da nessuna Enciclica della Chiesa, ma che dev’essere purificata e forse chiarita meglio con altre più profonde. Nessuno compra il Paradiso. Esso è un dono. Siamo invitati a fare il bene e ad amare gratuitamente non per ottenere un premio o per sottrarci al castigo. Una mistica islamica del 1300, camminando con un bilanciere sulla spalla che da una parte sosteneva un secchio d’acqua e dall’altra un’anfora piena di carboni accesi, ammoniva: “Con l’acqua voglio spegnere l’Inferno e col fuoco bruciare il Paradiso, così chi amerà Dio lo amerà gratuitamente e chi vorrà evitare il peccato e fare il bene lo farà non per sfuggire al castigo o avere un premio, ma solo per amore gratuito”.

In ogni caso, anche la più grossolana teologia del merito ammette che possiamo fare una piccola parte con le nostre forze e con i talenti ricevuti, ma che alla fine, sulla bilancia, la grande parte di dono sia quella di Dio, che si aggiunge al nostro piccolo contributo per offrirci una salvezza eterna. Non possiamo dimenticare che Gesù ci ha amati di un amore totale ed è morto per noi con un’offerta pura e santa e questo Gesù, la testa, ha fatto corpo con noi, le membra, per cui tutto ciò che Lui è stato completa quello che non siamo ancora.

Per questo possiamo osare di sperare la salvezza, non tanto per i nostri meriti, ma per quelli di Gesù Cristo e il corpo di qualunque di noi che è stato un pezzo del corpo di Cristo, un corpo in cui ha abitato la Trinità e in cui hanno cantato gli Angeli è difficile pensare che possa essere buttato via per un’eternità, mentre è serio ritenere che venga purificato, come ci dice in diversi modi il Vangelo».

Teofilo continuò: «Per ciò che riguarda l’Inferno di una certa tradizione cristiana, che non è quello biblico – gli italiani potrebbero chiamarlo dantesco – chi può meritarlo? Come le azioni buone da sole non potrebbero procurarci il Paradiso, così ancor più difficilmente le azioni cattive possono avere un potere così grande. Per meritarci un Inferno di quel tipo, bisognava che qualcuno ci avesse odiati così tanto da essere alla pari di Gesù al negativo, un Anti-Dio, appunto. Ma anche quando si parla di Satana, la teologia cristiana non ha mai accettato il dualismo tra Dio e un Satana che sia pari a Lui nel male».

Il vecchio riprese: «Teofilo, prima bisogna chiarire che l’Inferno riportato nei Vangeli, cioè la Geenna, luogo dove si bruciavano i rifiuti, sta a significare che la pigrizia di fare il bene, l’orgoglio, il potere e il denaro usati per schiavizzare gli altri, e tutti i vizi capitali che possono essere coltivati da un uomo, al pari della zizzania non hanno futuro, non entreranno nel Regno di Dio che è Regno di giustizia e di Pace senz’ombra di male. Tutto viene bruciato: la pigrizia che ha impedito al nostro frutto di maturare come Gesù, la pigrizia di fare il bene che ha rallentato l’arrivo, sulle nubi del Cielo, del Figlio di Dio, il quale – con il Padre e lo Spirito Santo – concluderà la storia con il Giudizio universale, la più solenne celebrazione della bontà e misericordia di Dio. Questa pigrizia sarà appunto bruciata, poiché non potremo presentarci di fronte al Padre senza essere prima purificati. Ora, la purificazione avviene già qui su questa terra con il dolore, la fatica del lavoro, la preghiera nostra e quella della chiesa in cui abita Gesù Cristo e, da ultimo, prima di presentarci al Padre saremo noi stessi a chiedere un fuoco che purifichi tutto il male che ci ha feriti durante la vita».

E Teofilo soggiunse: «Allora la Geenna è più simile all’immagine popolare del Purgatorio. Ma non sarà tanto Dio a bruciarci, quanto noi a chiedere di essere bruciati, come mi avete detto, cioè purificati, sgravati dai pesi che ci siamo portati dietro e che ci hanno impedito di essere liberi di amare come Gesù. Saremo quindi noi a chiedere questa soda caustica che ci lavi e purifichi».

«All’immagine della Geenna è poi subentrata la tradizione, non della Chiesa, ma di pittori, poeti e artisti vari, basti pensare alle immagini del Giudizio universale della Cappella Sistina o alla Divina Commedia. A difesa di Dante Alighieri bisognerebbe però dire che quel poeta la utilizzò solo come pretesto per cantare i suoi poemi. Occorre dire invece che, per quanto i catechismi e la predicazione popolare abbiano molto attinto a quelle immagini per tradurre un atto d’amore – cioè di purificazione – in un supplizio di quel tipo, si può affermare con tranquillità che la Geenna del Vangelo non è l’Inferno dantesco, benché l’immagine popolare sembri una verità suggellata.

A tal proposito, vorrei ancora aggiungere che in una grande Università Teologica Ortodossa, che prepara particolarmente i futuri presbiteri o Vescovi, terminato il primo anno di propedeutica il corpo insegnanti tenne un colloquio con ogni candidato, per introdurlo L’anno seguente al corso teologico normale. A un candidato non più giovanissimo fu domandato che cosa pensasse dell’Inferno, in quanto argomento trattato durante l’anno. Egli rispose secondo la visione più classica: per lui l’esistenza di quel luogo, con il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli, era una verità acquisita. Un docente provò a riprendere il percorso di apprendimento, ma il candidato ribadì la sua posizione. Il responso finale fu all’incirca: “Siamo spiacenti, ma se la tua mente è così rigida, non ci sentiamo di ammetterti agli studi teologici e quindi al cammino presbiteriale”».

«So che Karl Barth, uno dei due più grandi teologi del XX secolo, ha avuto il coraggio di parlare con sistematicità del problema dell’Inferno staccandolo dall’immagine popolare, che non corrisponde né a una visione biblica, né teologica e tantomeno cristiana».

«Se non sono coerenti col cuore di Dio, le Verità proposte dalla tradizione della Chiesa devono essere riviste. I dogmi stessi debbono evolversi nelle loro presentazioni e spiegazioni. Per quanto riguarda l’Inferno, in particolare, si è preferito rimuoverlo dalla mente che discuterlo e rifletterci sopra. Non è facile spiegare il motivo per cui sia stata tanto distorta l’immagine di un atto d’amore che perdona e purifica. Ci sarebbe da chiedersi come sia stato possibile per duemila anni accettare un Dio così poco “cristiano”, così vendicativo, così non-Dio, se davvero i cristiani, compresi i santi, ci avessero creduto. Ma tale dogma è stato rimosso dalla mente umana per una Grazia speciale del buon Dio. È rimasta quindi una verità che, per quanto professata da tanti, non è entrata nel cuore di nessuno.

Gesù Cristo, che è amore, non lo ha permesso, così non ha nemmeno dovuto amareggiarsi per essere stato travisato. In diversi casi Gesù stesso aveva accolto e usato lo stesso linguaggio – il patrimonio teologico del suo tempo e le indicazioni etiche – come accettava l’impianto teologico ebraico continuando a frequentare la Sinagoga e il Tempio, offrendo sacrifici a Dio nel Tempio e restando fedele a tutta una serie di leggi che Egli stesso aveva già superato nella sua persona. Tuttavia le conservava, per avere l’autorità di predicare il Comandamento Nuovo e la Vita eterna alla comunità ebraica, che poteva accettare di sentire un Vangelo così nuovo solo nel contesto del suo impianto teologico».

«Allora, Padre, si potrà cancellare questa parola?».

«No, Teofilo, bisogna liberarla dalla zavorra di cui si è caricata attraverso i secoli e riportarla all’atto d’amore, cioè di perdono, che ci purifica per poter entrare rinnovati nei Cieli nuovi e nella Terra nuova a sperimentare l’Eterno Abbraccio di Dio. E, per rispondere alle tue domande, Teofilo, lasciami dire ancora che tutte le volte in cui, nel Vangelo, si parla di Inferno, cioè del luogo dei morti o della Geenna dove tutto muore, si vuol sottolineare a tinte forti quanto sia grave il peccato e quanto devastante la pigrizia di fare il bene. E, in ultimo, sappi che è lo stesso Gesù, il Verbo incarnato, a discendere nella Geenna, nell’Inferno, nel luogo dei morti. Per entrarvi, Egli ha dovuto morire, bruciare là dove c’era “pianto e stridor di denti” (ossia sulla croce) e proprio nel luogo dei morti ha lottato e vinto la morte stessa, che oggi non esiste più. Con la Resurrezione, Gesù ci invita a uscire dall’Inferno e ad accompagnarlo nella Vita eterna. Va a preparare un posto anche per noi, poi tornerà a prenderci e a portarci con Lui. Questa è la nostra fede, che professiamo nel Credo degli Apostoli: “Credo in Gesù Cristo, che discese all’Inferno e di là risuscitò”. Così, San Paolo può gridare: “Dov’è o morte la tua vittoria?”, facendo eco a Osea (Osea 13,14)».

«Quindi l’Inferno è la metafora di una possibile distruzione di noi, esseri umani?».

«Dopo aver rimarcato con forza, caro Teofilo, la Misericordia di Dio, posso sorprenderti affermando che il linguaggio dell’Inferno nei catechismi cattolici sottolinea un aspetto da non sottovalutare. In primo luogo, nella misura in cui penso che la Geenna e il fuoco significano distruzione, posso anche immaginare che – a causa della mia pigrizia di fare il bene e del rifiuto a collaborare nel costruire il Regno di Dio – se Dio stesso volesse distruggermi totalmente (“Temete piuttosto chi può distruggere anima e corpo buttandoli nella Geenna e farli sparire per sempre”), non avrei nulla da reclamare. In fondo, Dio mi toglierebbe semplicemente ciò che mi aveva dato. Già, non avrei nulla da recriminare contro Dio, se l’Inferno fosse una cosa simile.

Se però dovessi sentire tale verdetto in un processo del Tribunale divino, penserei che la distruzione di anima e corpo sia talmente grave e insopportabile, che le immagini di fuoco, pianto e stridor di denti sono addirittura insufficienti per esprimere l’annullamento del mio essere, al quale è stata data la possibilità di venir salvato per l’eternità. E, ancora, l’Inferno sarebbe peggiore di quello descritto nel catechismo se, presentandomi a Lui e vedendo tutta la mia vita illuminata da un’intelligenza non più semplicemente umana, mi rendessi conto di essere passato tante volte accanto a Gesù Cristo e non averlo riconosciuto.

Avrei potuto fermarmi a parlare con Lui, porgergli non solo da mangiare, da bere, da vestire, ma anche offrire la mia amicizia e accogliere la sua, invitandolo o facendomi invitare per far festa con Lui. Invece l’ho trattato da mendicante, gli ho dato delle monete. Immaginate che ho dato monete a chi ha fatto il mondo, a chi ha tessuto nel ventre di mia madre tutti gli organi del mio corpo, il cuore che non ha mai smesso un istante di ritmare la mia vita, i polmoni mai stanchi di darmi il respiro e tutti i valori del corpo che si leggono sulle pagine delle analisi mediche. E vi rendete conto che ho preteso di fare l’elemosina a chi ha costruito i primi computer già tre miliardi di anni fa, quando dispose i primi esseri viventi sul pianeta!

Stavo correndo verso la stazione e c’era quella fila di mendicanti. Ho sfilato qualche moneta ai primi e sono scappato via per non perdere il treno. Sì, mi è passato per la mente il desiderio di fare qualcos’altro, ma il treno stava arrivando e dovevo assolutamente correre via. Mi aspettavano a quell’Assemblea nazionale, dovevo fare un intervento che ritenevo importante. C’erano i giornalisti, la televisione e invitati da ogni parte. Non potevo mancare… Ma chi l’ha detto? Dove sta scritto che non potevo sedermi con Gesù Cristo stesso sui gradini della stazione e lasciare che il treno passasse con i suoi passeggeri? Chi dice che non era meglio strappare quel biglietto del treno già comprato e fermarmi là? Avrei potuto proporre ai mendicanti di mettere insieme ciò che avevamo e far festa. E, non sapendo trasformare l’acqua in vino, avrei potuto andare a comprare abbastanza vino e berlo insieme. Sì avremmo potuto ubriacarci per la gioia di stare insieme. Se poi avessi saputo che facevo festa con lo stesso Gesù Cristo, altro che ubriacarci come a Cana di Galilea!

Quale vergogna mi invaderà. Come mi sentirò idiota, sì, per lo meno idiota e indecente. Allora sarò io a chiedere la Geenna per ripararmi in essa e farmi bruciare questa indecenza. Chiederò al buon Dio di bruciare la mia memoria, il ricordo di un crimine tanto grande. Ho avuto l’occasione di sedermi e accogliere l’amicizia col Signore Gesù e invece sono passato oltre. E griderò: “Bruciami, Signore, sì brucia quel ricordo perché non posso sopportare un’umiliazione così grande. Manda i tuoi angeli a immergermi nel fuoco perché possa essere purificato e avere il coraggio di essere riabbracciato dalla tua Misericordia”.

Le immagini bibliche sono del tutto insufficienti a esprimere quella richiesta di purificazione. Teofilo, vedi che non dobbiamo cancellare le immagini dell’Inferno dal Catechismo, semmai dovremmo caricarle del colore della vergogna, dell’umiliazione più insopportabile. Quante occasioni perse!».

Salvezza

Il giorno seguente il Padre sorprese Teofilo che, in ginocchio, ripeteva sottovoce: «La Salvezza, la Salvezza, la Salvezza!».

«Teofilo, il progetto della Salvezza sta entrando nel tuo cuore!?».

«Sì, Padre, fin qui è chiaro. Dio ha mandato Santi e Profeti per educarci all’amore, ma poi è arrivato Gesù Cristo: un Profeta più bravo degli altri? Più Santo? Con una coerenza assoluta? Senza la debolezza dei suoi predecessori, Lui ci ha spiegato con più forza come amare e quindi essere salvi? Un Profeta che ci dicesse le stesse cose che ci ha detto Gesù non poteva bastare per insegnarci a lasciarci salvare da Dio decidendoci veramente ad amare?».

«Attento, Teofilo, ti stai allontanando».

«Padre, poteva mandare un Profeta che ci dicesse le stesse cose e che, per inciderle col fuoco in noi, si lasciasse anche crocifiggere e perdonasse i crocifissori?».

«Teofilo, facciamo qualche passo indietro. Trovare un Profeta come dici tu non era stata forse un’impresa tentata tante volte e fallita? Tu stesso ti sei appena scandalizzato che Santi, Patriarchi e Profeti fossero carichi di limiti e peccati. Non avevamo bisogno di uno che ci facesse un’omelia più bella delle altre. Dio, infatti, ne aveva già inviati dei bravissimi, ma avevamo bisogno di un Santo, un Santo senza peccato che fosse così santo da garantirci con autorità tutta la Verità che avevamo bisogno di conoscere: imparare come amare Dio e i nostri fratelli. Dio Padre aveva inviato tanti suoi figli a lavorare per quest’opera di salvezza, ma erano solo uomini, uomini buoni, migliori degli altri. Nessuno, però, poteva avere quella forza e quell’autorità di parola.

Per questo, un giorno il Padre decise che il suo Primo Figlio, da tutta l’eternità presso di Lui, per noi uomini e per la nostra salvezza discendesse dal Cielo e venisse ad abitare in mezzo a noi: come uno di noi, ma con la grande dignità di Primo Figlio, che lo rendeva anche Unico. Ebbene, ciò non impedì a Gesù Cristo di camminare al nostro fianco da vero Profeta, vero Patriarca, vero Sacerdote, vero Re e vero Santo. Questo Figlio è diventato un bambino e noi Lo abbiamo visto crescere in mezzo a noi e proprio come noi, al punto che era terribilmente difficile capire e credere che in Lui non ci fosse solo un uomo santo. Prima della Resurrezione, infatti, non ci sono testimonianze chiare di qualcuno che avesse veramente capito chi era Gesù Cristo: Figlio dell’uomo e Figlio di Dio».

Recitarono la Salve Regina e si congedarono. Teofilo non aveva ancora imparato a far domande senza lasciarci dentro dell’amaro.

Forse c’erano in lui ferite non ancora rimarginate, ma anche un desiderio senza fine di avvicinarsi al Signore e di vivere solo ed esclusivamente nella Sua Volontà e nel Suo Amore. E per questo non si fermava mai, a costo di apparire eretico. Il fatto è che non voleva accontentarsi di risposte già un poco arrugginite dal tempo.

«Padre, qual è dunque la grande differenza tra Lui e noi? Anche noi siamo da tutta l’Eternità nel cuore del Padre! Mentre i nostri pensieri sono una elaborazione del cervello che può rimanere memorizzata a lungo o dissiparsi nel nulla, essendo da sempre nel Pensiero del Padre e Creatore, noi siamo una realtà vera. Non eravamo ancora stati generati in questa carne, ma già esistevamo come oggetto d’amore di Dio».

«Teofilo, la stessa creazione che noi ammiriamo e che canta la Gloria di Dio è da sempre oggetto d’amore di Dio, mentre non ci è stato rivelato come sia entrata solo a un certo punto nella dimensione spazio-temporale o se sia stata creata da sempre.»

«Perciò anche noi, come Gesù, esistiamo da sempre nel cuore del Padre?»

«C’è, però una grande differenza, figlio. Immagina la creazione e l’umanità come un enorme albero: noi siamo i frutti, i più preziosi, quelli creati nel sesto giorno e che Dio dichiarò buoni, ma siamo immaturi. Non vorrai dire, Teofilo, che un frutto immaturo sia cattivo, certamente no. Ma, se lo addenti, subito lo sputi. Eppure è cosa buona, come lo siamo tutti noi.

Gesù, il primo frutto, è anche l’Unico che ha raggiunto la piena maturità e in Lui abbiamo potuto contemplare tutta la bellezza e assaporare tutta la bontà. Lui non è precipitato dal cielo come un paracadutista ma, come noi, è stato generato nel ventre di questa creazione, crescendo sul nostro stesso albero. Si è nutrito della stessa linfa tra gli stessi rami e le stesse foglie. Spuntato su un ramo che era stato prescelto, quel “virgulto di Jesse” è stato accompagnato in modo misterioso e speciale dalle mani del Padre e da quelle di una madre, Maria, in tutto sorella nostra, ma con una santità unica.

Nella sua profezia, Elisabetta, avendo già avuto la visione che quel Frutto sarebbe stato il Frutto atteso da tutta la storia, gridò a Maria: “Benedetto il frutto del tuo ventre!”, saluto che ripetiamo in ogni Ave Maria. E Dio Padre ha aperto i Cieli e ha detto (in parafrasi): “Questo è il mio Figlio prediletto, il frutto che ha raggiunto la maturità piena, che ho desiderato per ogni figlio, per ogni frutto, ma che oggi in Gesù diventa realtà. Ascoltatelo!”.

Per questo, Dio Padre ha esaltato questo frutto maturo, questo Figlio così unico e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei Cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a Gloria di Dio Padre (Fil. 2)».

«Quindi, nella Sua piena maturità, Gesù ci salva amando, insegnandoci ad amare con autorità e chiedendoci di “amare come Lui ci ha amati”. Così ci ha salvati, indicando la strada della Salvezza che è Lui stesso?».

«E per realizzare questo, Teofilo, Lui ci carica ogni giorno di grazie: l’Eucarestia e tutti i Sacramenti, i Doni dello Spirito Santo di Cristo, cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà e Timor di Dio. Si tratta della linfa che arriva ad ognuno di noi, se vuoi ancora usare l’immagine dell’albero».

«Padre, coloro che non hanno Gesù Cristo, per esempio che appartengono ad altre religioni, da chi ricevono questa linfa per diventare frutti sempre più maturi?».

«Teofilo, Gesù è di tutti, semplicemente molti non Lo conoscono. La linfa è distribuita da Dio ad ogni uomo e donna del mondo, semmai con segni sacramentali diversi. Un giorno mi sono trovato presso una famiglia musulmana, dove tre gemellini erano appena morti perché durante il parto avevano ingerito una quantità eccessiva di liquido amniotico. Una signora cristiana, arrivata prima di me, mi disse che, preso in braccio uno dei bambini, aveva chiesto un po’ d’acqua per pulirlo, ma in realtà l’aveva battezzato. Subito le domandai: “E gli altri due?”. Mi rispose che erano con la madre, ormai morti. Allora soggiunsi: “Quando queste tre creature sono arrivate tra le Sue mani, che cosa può aver fatto il buon Dio, Padre appassionato di ogni creatura? Avrà preso con sé quello battezzato e buttato via gli altri due in qualche stanza buia dove non si vede la Sua Luce? Anche se non sei teologo, capisci che questo non ha senso. Eppure i teologi hanno pensato cose simili per secoli, e molti le pensano ancora. Anche da questo si capisce come tante risposte arrugginite attendono di essere rivisitate».

«Padre, forse la signora aveva letto che solo chi è battezzato sarà salvo e certamente pensava che esiste solo il Battesimo da lei conosciuto, per cui era in buona fede».

«Quando leggiamo un testo che parla di Dio, dobbiamo osservare se quelle parole sono coerenti con un Dio infinitamente buono, misericordioso e giusto. Altrimenti, come ti ho già detto, significa che, a causa della cultura in cui viveva, dell’ignoranza o comunque dell’immaturità dello stesso Profeta o Evangelista, lo scrittore sacro non ha potuto accogliere tutta l’Ispirazione divina».

«Padre, lasciatemi aggiungere una parola proprio sulla lettura o esegesi dei testi. Ho fatto due riflessioni: una riguardo a Gesù che, dopo la morte di Lazzaro, incontra Marta e la invita a credere nella Resurrezione del fratello. Lei, allora, professa: “Credo che risusciterà nell’ultimo giorno”. Sembra che, per alcuni, il grande miracolo di Gesù finisca qui: Egli ravviva la fede di Marta e lei crede nuovamente nella Resurrezione. Così la seconda parte del racconto pare meno importante.

C’è un secondo fatto, Padre: la moltiplicazione dei pani. Gesù invita i suoi a provvedere del cibo. Sembra che si sia domandato se qualcuno aveva qualcosa e probabilmente tutti potevano averlo, per quanto tenuto ben nascosto: non erano, infatti, così imprevidenti da non portarsi dietro nulla, dovendo stare fuori per molto tempo. Ma mostrare ciò che avevano significava condividerlo con gli altri. Un bambino, però, potrebbe aver detto: “La mia parte la metto”, e qualcuno si sarà aggiunto: “Anch’io”. E altri: “Anch’io”, al punto che ne avanzarono dodici ceste. Si potrebbe concludere che il più grande miracolo sia stato quello di aprire il cuore alla condivisione, più che moltiplicare i pani con autorità».

«Teofilo, le tue sono riflessioni originali e possono anche aiutare la spiritualità di chi legge il testo sacro, ma non dimenticare che, fra cinquantamila anni, chi vorrà confrontarsi con quelli o altri testi biblici li incontrerà come sono stati scritti. Se sono verosimili, come è verosimile che Gesù abbia risuscitato Lazzaro o moltiplicato i pani in quel modo, quei testi rimarranno sempre il punto di riferimento per chiunque li leggerà, mentre le tue riflessioni o quelle di migliaia di altri scrittori di spiritualità resteranno spunti, stimoli preziosi per la conversione, senza però sostituirsi all’autorità della Bibbia.

Se, invece, il testo non è verosimile, se ne modificherà la lettura secondo le nuove leggi della scienza, secondo quanto l’autore sacro voleva esprimere. Nel caso del “Fermati, sole” di Giosuè, ad esempio, con le conoscenze astronomiche di oggi possiamo affermare che il miracolo sarebbe consistito piuttosto nel fermare la terra e non il sole, che già relativamente fermo era, almeno nei confronti di essa. Mio caro Teofilo, se anche tu vuoi leggere la Bibbia quale dono privilegiato per farti maturare e quindi entrare nel progetto della Salvezza, hai bisogno di tanta, tanta umiltà più che di scienza e conoscenze archeologiche. Devi leggere il Testo Sacro in ginocchio perché diventi preghiera. Ma, ora, ritiriamoci all’eremo».

Le parole che Teofilo aveva ascoltato gli suscitarono nuove curiosità e domande, così il giorno seguente, appena incontrò lo starez, non perse tempo:

«Padre – gli domandò – in cosa differisce la Parola di Dio da un buon testo di spiritualità che possiamo trovare in qualunque libreria, scritto da uno di noi, nel nostro tempo e quindi anche più accessibile per il linguaggio e per essere imbevuto di cultura contemporanea?».

«Per “Parola di Dio” non intendo solo una pillola di saggezza o un testo che mi faccia recuperare la storicità della fede, ma una parola che, meditandola, mi converta o che coltivi la mia amicizia con Dio. È tutto questo, ma è soprattutto una parola attraverso la quale Dio ha accettato di parlare con me, oltreché convertirmi e coltivare la mia fede, qualunque essa sia.

Un giorno un indù mi disse: “Vedi, il nostro libro sacro Ghita non è come gli altri, perché ogni volta che leggi ripetutamente lo stesso versetto, ti suggerisce riflessioni sempre diverse. Ti dice ciò di cui hai bisogno proprio in quel momento”. Anche un musulmano notò la stessa cosa riguardo al Corano, al che replicai: “Pure noi cristiani diciamo lo stesso della Bibbia. Evitando di parlare di testi più veri di altri, più ispirati da Dio o meno, più dettati da Dio stesso – com’è considerato il Corano dai musulmani – o cresciuti nel cuore della comunità – come lo è per i cristiani – per capire quanto Dio ci ama e per portarci ad amare Lui, c’è in questi testi un fatto comune: è Dio stesso che accetta di parlare con noi tramite essi”. Ma tali testi diventano sacri solo se li leggiamo in ubbidienza a Lui. E ti spiego perché è una questione di ubbidienza: tra i ‘religiosi’ che vivono in congregazioni, monasteri, conventi, c’è una forma di promessa o ‘voto di ubbidienza’ a Dio tramite una persona, un ‘superiore’, un’‘autorità religiosa’.

Il religioso/a può vivere un conflitto di fronte a certe richieste o comandi del superiore stesso, perché troppo gravose o perché considerate addirittura fuori del buon senso. Se dunque il religioso, in coscienza, pensa di far cosa buona a rifiutare il comando, è possibile che Dio stesso sia disposto a fare per lui un altro progetto, anche molto bello, però se il religioso ubbidisce – eccetto che il comando sia contro la morale – sa con certezza che cammina non sulla via più ragionevole, ma sulla via in cui incontrerà la volontà di Dio. E non per merito del suo ‘superiore’, ma perché Dio stesso si è impegnato nell’accettare quella forma di ubbidienza, dichiarandosi disponibile a servirsi della volontà umana, di quell’autorità religiosa, per far crescere nella Fede, Speranza e Carità suo figlio/a. Così è per me quando mi metto di fronte a un testo sacro.

Se poi, nel profondo della mia coscienza, sento il dovere di cambiare religione e, di conseguenza, anche i testi sacri a cui mi riferivo precedentemente, posso farlo. E Dio potrà costituire un nuovo progetto con me, perché è proprio nella coscienza che Dio dice l’ultima e autorevole parola. Se però continuo a seguire la religione a cui ho giurato fedeltà già da adulto, certamente Dio s’impegnerà su quella strada a farmi incontrare la Verità e l’Amore.

Con ciò non dichiaro comunque che i testi sacri hanno lo stesso valore. No. C’è un valore oggettivo che chiunque può riconoscere, ma per testo sacro s’intende quello che si legge nella propria comunità religiosa, alla luce della comune fede e tradizione religiosa (cristiana, ebraica, musulmana, buddista, etc.). Un musulmano non dovrà considerare come testo sacro la Ghita o la Bibbia, ma il Corano, il testo che legge nella sua comunità religiosa, illuminato dalla sua fede e dalla tradizione islamica e, se c’è sincerità e spirito di ubbidienza in questa lettura, certo Dio lo illuminerà attraverso quelle parole e lo farà crescere nella Fede, Speranza e Carità, poiché Lui stesso si è impegnato di accompagnarlo in quella lettura.

In sostanza, Dio si è preoccupato di darci tutto il necessario per la salvezza. E cos’è il ‘tutto’ di cui abbiamo bisogno? La sua amicizia, che dà a tutti gli uomini e le donne di ogni religione e popolo del mondo. Quindi ci si rivolge a nostro Signore solo con nomi diversi, con preghiere diverse, in lingue diverse e con espressioni religiose, simboli e immagini diverse. Non dimentichiamo che è lo stesso Dio a ricevere tutte le preghiere dell’umanità. È Lui che raccoglie tutte le speranze e le fedi diverse dei suoi figli e figlie. E la Carità, l’Amore di tutta l’umanità, è raccolto dal cuore dello stesso unico Dio. Se, in un tempio indiano, dieci persone indù pregano di fronte a una bella statua di Ganesh col corpo umano e la testa di elefante, e se Dio vuol parlare al loro cuore per alimentarne la spiritualità, come potrà farlo? Non certamente attraverso l’immagine del Crocifisso, che essi non conoscono e non capiscono, né attraverso un’immagine della Madonna di Lourdes, o di Fatima o in un brano del Vangelo: se Dio vuol parlare al cuore di quei dieci indù ha a disposizione solo la loro immagine, o un testo della Ghita o di altri sacri testi indù».

«Padre, le statue delle divinità di altre religioni sono idoli?»

«No, figlio: gli idoli sono i furti e gli adulteri, un potere opprimente, il denaro usato male, le guerre e ogni tipo di violenza, mentre le statue delle divinità a cui ti riferisci non sono idoli, bensì piccole, piccole parole di Dio, perché attraverso esse Dio può parlare agli uomini che le venerano con cuore sincero. Se poi, Teofilo, tu hai avuto la rivelazione che, per noi uomini e per la nostra salvezza, la Parola di Dio si è fatta uomo in Gesù Cristo e noi ne abbiamo visto tutta la Gloria, tu, Teofilo, non hai nessun motivo di disprezzare chi rimane ancora distante da questa rivelazione.»

Qualche giorno dopo Teofilo prese l’occasione per riproporre gli interrogativi che nei silenzi della montagna venivano di tanto in tanto a bussare alla sua mente, trovandola sempre impreparata.

«Padre, visto che abbiamo parlato della Bibbia come linfa privilegiata per farci maturare ed essere salvi, anche se mi sembra blasfemo non posso tralasciare di esprimere la mia fatica nel leggere certi Salmi. Leggo, ad esempio: “Ecco, i tuoi nemici periranno e saranno dispersi tutti i malfattori” (92), mentre so che il Signore ha dato la vita per i criminali, o ancora: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici” (92), mentre Gesù mi chiede di amarli. Oppure: “Questo popolo mi ha disgustato per quarant’anni, così nel mio furore ho giurato che non entreranno nella mia casa” (94), mentre la casa di Dio è preparata proprio per loro. E mi stupisco che il salmista inviti i fedeli ad alzarsi “con le lodi di Dio sulla bocca e la spada a due tagli nelle mani per compiere la vendetta tra i popoli” (149).

Come posso riconoscermi in questo Dio che continuamente, nelle guerre, deve “disperdere i nemici con le folgori, lanciare frecce e sconvolgerli” (144) o nel salmista che riferisce a Dio ogni sorta di maledizione augurando che “restino orfani i figli e vedove le mogli e che i figli vadano raminghi, espulsi dalle loro case in rovina e nessuno gli usi misericordia e nessuno abbia pietà dei suoi orfani”?

(109). O in un Dio così guerriero, che “spezza le saette dell’arco, lo scudo, la spada, la guerra ed è proclamato Splendido sui monti della preda” (76), nel Dio roccia del salmista, che gli “addestra le mani alla guerra e specializza le sue dita per la battaglia”? (144). Padre, tra le maledizioni ai nemici, leggo ancora: “Beato chi sfracellerà i loro bambini sulla roccia” o professioni di morte, come quella del salmo 88: “Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre dei morti a darti lode? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro e la tua fedeltà tra i morti?”. Mi capite quando parlo di fatica di fronte a queste preghiere?».

«Teofilo, i Salmi sono la raccolta di canti che più di ogni altra è venuta a toccare il cuore dell’uomo e lo fa vibrare ancora oggi come le corde di una cetra, quando in ginocchio vuole parlare con Dio.»

«Credo, Padre, che in alcuni Salmi ci sia lo stesso cuore di Dio, non solo dell’uomo, mentre ce ne sono altri che non posso pregare».

«Per questo si dividono in due categorie: i Salmi che il singolo o la comunità possono pregare nel raccoglimento di un eremo o in coro sempre a nome di tutta la Chiesa e specialmente come parole pregate da Gesù. E Salmi, nati ovviamente nella cultura del Vecchio Testamento a cui ti riferisci, che sono canti di meditazione: quella meditazione fatta di studio, riflessione, ascolto e analisi della storia di Dio tra gli uomini. Un Dio che non li abbandona nelle loro violenze, vendette e tradimenti, ma che continua sempre a tenerli stretti per mano. La Chiesa – che comunque è madre attenta – ha già fatto una scelta parziale dei testi di Salmi da usare nella liturgia domenicale e nella liturgia delle ore con il popolo di Dio, che non sempre ha le capacità e il tempo di fermarsi e studiarli.

Non così deve essere per noi, che dobbiamo tenerli fra le mani e portarli nel cuore con la stessa misericordia con cui Dio li ha ascoltati dal suo popolo. Essi ci raccontano tutta la pazienza di Dio nel non essere inteso nella sua bontà, misericordia e perdono e, da Dio della Pace, trasformato in un Dio degli eserciti. Questo Signore, di fronte a tanta immaturità dei suoi figli, non li ha mai abbandonati. Ma anche il popolo, da parte sua, restava incollato al suo Dio. Nella disperazione gridava a Lui. Nella rabbia, nella guerra gridava a Lui. Nella vendetta, nella pigrizia di fare il bene e in mezzo ai sentimenti più contradditori, violenti e malvagi, sempre si rivolgeva a Lui, pretendendo persino che il Signore fosse dalla sua parte nella violenza. E Dio, innamorato del suo popolo, l’accompagnava, accogliendo quei Salmi come le grida di figli che non avevano nessun altro a cui rivolgersi se non il loro Dio, il ‘Dio d’Israele’.

Con pazienza infinita, Jahvé finiva per ascoltare le richieste di giustizia, di difesa, ma anche di vendetta contro i malvagi e di maledizione contro chi li perseguitava, per allenarli a distinguere il bene dal male, i buoni dai cattivi. Intanto sapeva che avrebbe mandato suo Figlio a spiegare che la Salvezza non si fa con un forte esercito, carri e cavalli, col potere di re o imperatori, ma col perdono su una croce, abbracciando i crocifissori.

«Beneditemi, Padre» lo implorò allora Teofilo, prima di ritirarsi sulla montagna, sulla cui cima c’era una grande croce. Per tre giorni rimase davanti a quella croce che abbracciava il cielo, riposando di notte ai suoi piedi. La terza notte, però, rompendo la regola del silenzio dopo la mezzanotte, Teofilo tornò di corsa e bussò come un disperato alla porta del Padre:

«Voglio parlarvi, è urgente».

«Offri al Signore questo tuo desiderio, Teofilo, riposa un poco e domani parleremo».

Teofilo accettò, ma non poté dormire, perché aveva il cuore colmo. Così attese il mattino.

«Dimmi, Teofilo».

«Padre, mentre l’altro giorno si aprivano delle luci in me, al tempo stesso sentivo ancora una grande confusione. In realtà mi mancano degli elementi fondamentali riguardo la Salvezza. Non abbiamo parlato di Vita Eterna. Non la considerate di grande importanza?».

«Certo. Anzi, alla fine del nostro cammino la Salvezza sarà appunto la Vita eterna che noi speriamo con tutte le nostre forze, ma questo sarà il lavoro di Dio e non nostro. Nel progetto della Salvezza, il dono dell’Eternità non sarà frutto del nostro sudore. Anche se passasse l’intera vita in preghiera, digiuno e penitenza, nessuno di noi potrebbe acquistare un dono così grande».

«Ma possiamo sperarlo veramente?».

«Abbiamo la garanzia di Gesù che, dopo aver amato fino alla morte e averci insegnato a vivere come Lui, il terzo giorno è resuscitato. È stato visto con gli occhi di questa nostra umanità, toccato con le mani umiliate di Tommaso e, dopo la Resurrezione, le sue parole cominciarono a bruciare nel cuore dei discepoli di Emmaus e oggi nel mondo intero. Se siamo frutti dello stesso albero – anche se così immaturi – perché non dovremmo sperare la stessa sorte? L’ha detto prima di morire: “Vado a prepararvi un posto”».

«Cos’è dunque la Salvezza?».

«La Salvezza non è un qualcosa da relegare nei Cieli, alla fine dei tempi, ma un paziente lavoro di restauro da fare su questa terra, in questa storia. Salvezza è quindi impegnare tutte le forze della terra e del Cielo per realizzare il Progetto-uomo così come è voluto da Dio stesso e che si chiama Gesù Cristo. La maturità umana è vivere come Gesù ha vissuto, amare come Gesù ha amato, morire come Gesù è morto e quindi ricevere il dono della Resurrezione come Gesù ha ricevuto. Da parte nostra è amore – se amo, sono salvo – e speranza, mentre da parte di Dio è Amore e dono finale di una vita con Lui nei Cieli nuovi e Terra nuova».

«Avevo bisogno di questo conforto, Padre».

«Con l’aiuto dello Spirito Santo, proclamiamo il Credo, in cui si afferma che Gesù, il Figlio di Dio, per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal Cielo. Certamente non fu il salvatore che gli ebrei si aspettavano come Messia, cioè un altro Re-Davide molto più potente, tanto da vincere il mondo intero e instaurare un nuovo regno di pace. In questo, certo Gesù li deluse».

Progetto di Dio

Dopo un istante, Teofilo riprese:

«Noi crediamo che Dio è Amore e il fine per cui ci ha creati è che possiamo amare anche noi. La Salvezza di Gesù non è quindi questo insegnamento e la forza che ci dà per renderci capaci di amare come ci ha amati Lui stesso?».

«Ed essendo noi così incapaci di realizzare questo progetto, per la nostra salvezza, nei millenni, Dio ha mandato santi e profeti ad insegnarci questo desiderio, questo progetto, questa volontà di Dio stesso, ma il lavoro è stato arduo e, com’era prevedibile con creature così fragili, non è stato possibile realizzarlo fino in fondo. Questi profeti erano riusciti a proporre di amare il vicino, quelli della propria famiglia e del proprio clan. Ma come si poteva andare oltre? Proporre di amare uno che non mi ama o mi odia o mi perseguita, amare un nemico… Come si poteva pretenderlo? Amare un nemico è disumano. Solo se riceviamo del ‘divino’ in noi possiamo compiere un simile atto. Per tanti secoli, nemmeno Dio lo propose, sapendo che i tempi non erano maturi. Per questo è stato necessario un intervento in più: quello dell’Incarnazione».

«Padre, poiché dite che Dio ha mandato Santi e Profeti, vi voglio dire che io sono debole e mi scandalizzo di tutto come un bambino. Ho appena letto una pagina in cui Mosè in meno di venti righe (Numeri 31, 1-18) dà quattro comandi diversi, ovviamente tutti in nome di Dio. Dapprima manda dodicimila uomini armati a sterminare i Madianiti, nemici e portatori di infedeltà. Poi, infuriato perché i soldati hanno lasciato vivere le donne che secondo lui erano responsabili di aver portato l’infedeltà in Israele, mandò a sterminare le donne sposate, ma anche i bambini-ragazzi maschi, i più innocenti, le donne sposate, ma anche i bambini-ragazzi maschi, i più innocenti, furono uccisi. Da ultimo però permise che le ragazze ancora vergini venissero risparmiate e che i soldati potessero tenerle per loro. Questa, come tante altre pagine della Bibbia, mi rende furioso contro questa ‘Parola di Dio’, contro questi comandi di Dio contradditori».

«Teofilo, stiamo parlando della fatica di Dio a salvare quel popolo che non era capace di lasciarsi salvare. Quando parlava ai Patriarchi, Santi, Sacerdoti e Profeti venuti per salvarci, Dio parlava in realtà a uomini con tutti i limiti umani. In Mosè non c’è solo santità, ma anche orgoglio, vendetta, e pure il potere, che a volte si fa spazio nelle sue viscere. E il miracolo della misericordia di Dio è che Lui, il Signore, continui a prendere per mano il suo popolo, che passa da un’infedeltà a una richiesta di perdono, a un’altra infedeltà ancora».

«Riconosco tutta la debolezza umana anche nei Servi di Dio, ma nel proclamare pagine che più sono disumane, più ci fanno prostrare di fronte alla bontà misericordiosa di Dio, penso tuttavia ai deboli che durante le celebrazioni, dopo una pagina come quella di Mosè che vi ho appena citato, dichiarano: “Parola di Dio”».

«Sono d’accordo con te, Teofilo: è un concetto che dovrebbe essere spiegato. Nella liturgia preferirei sentir usare un’espressione come: “Storia di Dio tra gli uomini”; “Rendiamo grazie a Dio, perché eterna è la sua misericordia” o qualcosa di simile. Per inciso, si potrebbe osservare che anche i musulmani sarebbero più coerenti se al termine di ogni pagina del Corano proclamassero: “Parola di Allah”, perché nella teologia islamica la parola scritta nel loro Libro sacro sarebbe dettata da Dio (da Allah stesso). Se per i musulmani la parola di Dio è diventata un libro, ormai sigillato in tutte le sue parole, non così è per noi: la Parola di Dio per noi cristiani è diventata un uomo, Gesù, il Figlio di Dio.

Per noi Dio non si è “incartato” in un libro, ma si è incarnato, diventando uomo come noi, eccetto che nella pigrizia di fare il Bene.

Gesù ci ha parlato con linguaggio umano e gli evangelisti hanno usato il nostro stesso linguaggio per tradurre le parole del Salvatore che, alcune volte, per il fatto di essere filtrate dalla loro cultura e dai loro limiti, ci hanno offerto dei testi passibili di approfondimenti e di studi teologici, storici e scientifici. Ma abbiamo fatto tardi, dobbiamo ritirarci».

IL DIALOGO DEI MONACI

Eucarestia

Nota dell' autore

Mentre ringrazio per i preziosi commenti e approfondimenti al Dialogo dei Monaci, voglio ricordare che nel capitolo precedente (I dubbi di Teofilo), presentato come stimolo e non come risultato teologico su Satana e Inferno - argomento molto complesso e generalmente trattato con superficialità - ho preferito usare un linguaggio d'urto, perché chi prende una posizione su questo argomento usi motivazioni serie e coerenza. Per esempio: "San Tommaso d'Aquino e Tertulliano sostengono che i Beati (e quindi Dio) in Cielo si rallegrano nel vedere i dannati contorcersi nel fuoco dell'Inferno". Ebbene, se uno non riesce ad accettare e sottoscrivere questa affermazione significa che crede di credere all'Inferno, ma di fatto lo ha già rimosso, San Tommaso è coerente. Dio è pace e quindi felicità assoluta e non può rattristarsi davanti ai dannati.

In quel capitolo io non ho sostenuto nessuna tesi, ho solo voluto stimolare chi è pigro e crede a qualunque affermazione senza approfondire. Ho voluto discutere con chi crede che l'Inferno sia una passeggiata in pinacoteca: passando in rassegna i quadri che riportano sulle tele i dannati che si contorcono nelle fiamme, questo visitatore di tanto in tanto fa un sospiro prolungato e pensa che l'Inferno sia questo.

Ringrazio ancora chi vuole continuare a stare un poco in compagnia di questo Dialogo dei Monaci. Mi sono preoccupato non di fare un'opera d'arte, ma di non far perdere tempo a nessuno.

don Renato

20 agosto 2016

Capitolo VII

EUCARESTIA

pag. 108-121

Questo è il mio corpo

«Padre, potete dirmi una parola su quella realtà che avrebbe bisogno di biblioteche intere, non dico per essere spiegata, ma semplicemente abbozzata con i contorni del grande mistero che porta con sé? Ho bisogno di un po’ di luce per vivere con maggior verità la celebrazione dell’Eucarestia».

«Se non ti bastano il Vangelo e San Paolo, non ho altro, figlio».

«Padre, ripetetemi ciò che dice la Bibbia, che trasmette la Tradizione, o che ha maturato la riflessione teologica».

«Caro Teofilo, allora aggiungo una riflessione su alcuni aspetti dell’Eucarestia, che troppo spesso è diventata il rito più solenne; il rito che nella sua espressione liturgica abbraccia il contenuto dell’intera fede cristiana; il rito più bello; un rito comandato da Gesù stesso e per questo della massima autorità; il rito nel quale la Chiesa intera colloca la sua preghiera più profonda e genuina nella preghiera del Cristo, un rito, però, che spesso, da parte nostra, rischia di essere solo un rito.

Ecco le sacre parole del Cristo: “Prendete, questo è il mio corpo e il mio sangue che io consegno per voi. Fate questo in memoria di me”. Gesù ci ha chiesto di fare come Lui. Certo, abbiamo preso anche noi il pane e il vino tante volte, abbiamo preparato l’altare, collocato il calice, la patena, i fiori. Ci siamo preoccupati di icone, quadri, affreschi, statue, marmi e legni scolpiti. Abbiamo pure preparato cattedrali per celebrare questo rito, questo mistero, ma troppo spesso abbiamo assistito a un teatro sacro, certo pieno di grazia, di stimoli alla conversione, ma l’Eucarestia di Gesù è un grido che va ben oltre. “Fate questo in memoria di me” non si può ridurre a prendere del pane e del vino e dire quelle stesse parole come se fossero magiche. “Fate anche voi questo” è il comando per fare quello che anche Lui ha fatto. Gesù ha preso la sua vita tra le mani, l’ha consegnata e invita noi a prendere il nostro corpo, il nostro sangue e consegnarlo, proprio come Lui, nelle mani del Padre e dei fratelli.[3]

Lasciami ancora aggiungere, caro Teofilo, che Gesù non ha paura di scuotere la nostra fede e, se ci lascia perplessi l’atteggiamento di Gesù stesso nel lasciarci il segno del pane e del vino, assai più restiamo scandalizzati di fronte al mistero dell’altra Eucarestia: l’uomo, corpo e sangue di Cristo. È questa l’Eucarestia più compromettente per Gesù stesso e la più sconcertante per noi. Al capitolo 25,31-46, Matteo ci presenta uno dei più rivoluzionari discorsi di Gesù. Nel giudizio finale, alla fine dei tempi, il Signore dirà ai buoni: “Venite, benedetti dal Padre mio e possedete il regno preparato per voi già dall’inizio del mondo. Infatti avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere. Ero forestiero e mi avete alloggiato. Ero nudo e mi avete vestito. Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i buoni risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o quando hai avuto sete e ti abbiamo dato da bere? Quando ancora ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo alloggiato, o quando nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti da te?”. Ed ecco la risposta del Signore: “In verità vi dico che, tutte le volte in cui avete fatto queste cose a uno di questi fratelli poveri, l’avete fatto a me”.

Sì, è quello il momento in cui Gesù ha proteso le mani su tutti i poveri del mondo, sui malati, sui peccatori (feriti dalle loro azioni) pronunciando le parole di consacrazione: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; tutto quello che farete loro fatelo in memoria di me. (Perché tutto quello che avete fatto loro lo avete fatto a me). Per questo ogni volta che apriamo un giornale e vediamo le immagini di chi ha vinto e di chi è stato sconfitto, di chi ha costruito e di chi ha distrutto, della vittima e del killer, in quel momento ci troviamo di fronte ad una serie di icone dai colori e dalle espressioni più diverse, che però riproducono lo stesso volto: quello di Gesù Cristo. In quei volti spesso cogliamo rabbia, gioia, disperazione o i segni della bontà e del crimine, ma ci è troppo difficile o almeno non siamo abituati a cogliere la vera presenza del volto di Dio”.

Quand’ero piccolo mi dicevano che, se facevo il buono, l’angelo custode e Gesù stesso stavano in me e mi proteggevano, se invece facevo il male, Gesù se ne andava via ed entrava in me il diavolo con le corna e la coda. Diventato adulto, dopo aver letto con più attenzione la Bibbia, mi sono accorto che, se faccio il bene, Gesù è in me e quando faccio il male Gesù, anzi la Trinità rimane in me. Non c’è azione criminale che possa buttar via dal mio cuore Gesù stesso. E fino a quando il respiro rimarrà in me ci rimarrà pure Lui. Se compio dei crimini gravi, il Gesù che è in me sarà un Gesù incatenato, inchiodato, che grida: “No! Non puoi fare quell’azione o coltivare nella tua mente pensieri che possono portarti alla violenza, alla pigrizia di fare il bene, all’impurità, ai tradimenti, a omicidi, furti, adulteri. No! Non puoi opprimere gli altri e compiere ogni sorta di ingiustizia solo per arricchire, per ottenere potere, forza, etc.!”. Ecco, Gesù è in me e nessun crimine potrà metterlo via dal profondo di me stesso, anche se lo volessi espressamente. Con l’Incarnazione Lui è diventato una sola cosa con noi.

Quando facevo l’adorazione di fronte all’Eucarestia esposta nella chiesa, sapevo di essere alla presenza di Dio, ma quando dovevo viaggiare con i mezzi pubblici non mi era difficile l’adorazione, avendo sempre qualcuno davanti a me, almeno l’autista del pullman.

Non avevo bisogno di domandarmi se chi stava di fronte a me era un santo o uno che aveva appena bestemmiato. Mi era sufficiente sapere che un uomo o una donna erano di fronte a me ed ero certo di essere alla presenza della Trinità. Sapevo che il corpo e il sangue di Gesù erano di fronte a me e potevo continuare ad adorare. Non importava se era un Gesù sorridente, o insanguinato: era comunque Lui. Posso pensare a un’ostia che mi cade per terra, nel fango o nel letame. Potrei essere impossibilitato dal mangiare quel pezzo di pane consacrato tanto è diventato ripugnante, ma fino a quando una parte di pane rimane pane benedetto, posso inginocchiarmi di fronte a quel frammento di Eucarestia». [4]

«Padre, mi avete riscaldato il cuore. Adesso vado a fare l’adorazione nella cappella».

Il giorno seguente Teofilo, con molta serenità, ma ancora con una domanda, si recò dal Padre e gli disse:

«La scorsa settimana è venuto a trovarmi quel mio amico luterano ed è venuto per incontrarmi dopo tanto tempo, ma anche per pregare con noi come abbiamo fatto. Prima di lasciare la montagna mi fece alcune domande sull’Eucarestia, ma io sono rimasto molto confuso nel tentare di dare alcune risposte. So che c’è un divario molto grande nel leggere i segni del pane e del vino tra le Chiese Protestanti e quella Cattolica. Come riavvicinare questa distanza?».

«Potremmo forse aiutarci in questo modo: Gesù è di fronte al pane e al vino utilizzato per la celebrazione e noi possiamo pensarLo mentre usa questa parafrasi: “Io sono il Verbo, la Parola che si è incarnata. Anche questo pane e vino sono segni della mia presenza, quindi sono i segni della mia Parola. Leggetemi, ascoltatemi, mangiatemi: nelle lingue semitiche il verbo ‘mangiare’ significa anche leggere, quindi masticare il pane sacro e leggere il segno di quel pane stesso e ancora leggere la Bibbia sacra e mangiarla, masticarla, meditarla sono espressioni molto simili per dire la stessa realtà. In molte chiese, specialmente in oriente, si usa mettere due tabernacoli, generalmente uguali: uno con il pane da mangiare, da ‘leggere’ e l’altro con la Bibbia da leggere, da ‘mangiare’.

I due verbi – ‘Leggere’ e ‘Mangiare’ – ci mettono in profonda comunione con il Cristo. E le Chiese, se lo vogliono, possono riconoscersi molto più sorelle. Comunque, Teofilo, devi sapere che l’Ecumenismo non è in primo luogo una riflessione teologica più corretta, ma è un atto di amore tra le Chiese e quindi un Dono particolare dello Spirito Santo. E per diventare un tutt’uno ut unum sint, non occorrerà che una Chiesa diventi un’altra Chiesa. Ma il giorno in cui le Diverse Chiese cristiane diranno le une alle altre: “Vi riconosciamo Chiesa di Gesù Cristo, Chiesa che conserva la sua presenza, in cammino e alla ricerca, cantando insieme il Padre nostro”, quel giorno potrà essere festa di Unità.

Dopo questo passo dovremo avanzare ancora un poco e in un sincero dialogo interreligioso abbracciare tutti i fedeli delle diverse religioni, che pur non riconoscendo Gesù Cristo sono amate da Lui e animate dallo stesso Spirito Santo e infine pregheremo per ottenere il dono della fraternità universale, non solo con ogni fedele di una qualche denominazione religiosa, ma con ogni parte di umanità, anche se atea e irriconoscente in quanto siamo un unico corpo».

«Avendo parlato di dialogo interreligioso ed essendo spesso interpellati dai nostri fratelli musulmani e dai nostri fratelli maggiori, gli ebrei, su un’accusa a cui mi trovo confuso nel rispondere, infatti ci dicono che non siamo monoteisti in quanto la nostra riflessione teologica parla di tre Dei, cosa si può rispondere?».

«Di fronte al mistero di Dio, qualunque linguaggio teologico è inadeguato: possiamo dire che sia solo un tentativo di risposta. Il linguaggio e la filosofia adottati per parlare della Trinità non sono certamente così chiari. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vengono infatti descritti come tre Persone distinte e poi, giustamente, si afferma che sono un Dio solo. Ed è comprensibile che possa trarre conclusioni diverse chi non è abituato alla filosofia greca o alla teologia cattolica. Si usa infatti un linguaggio analogico, legato alla nostra esperienza nell’ambito della creazione e del finito per descrivere Dio, increato e infinito.

Riguardo al dialogo interreligioso, invece, mi farei aiutare da un teologo che parlò di Dio come “non essere”. Sebbene l’espressione possa scontrarsi con la prima affermazione biblica di Dio come “Colui che è”, tale concetto vuole farci prostrare in umile adorazione davanti a Dio: quando lo pensiamo o descriviamo lo facciamo sempre con categorie legate al nostro mondo sensibile e finito poco adatto a parlare dell’Infinito e Increato. Semmai Teofilo ci ritorniamo su domani».

Il prefazio della Gloria

Il giorno dopo Teofilo andò a leggere nella bacheca il promemoria delle attività giornaliere e si stupì che non ci fosse nessun accenno all’incontro previsto, semplicemente registrò un tempo più lungo per l’Eucarestia. Al momento del Prefazio, infatti, lo starez pregò così:

Noi ti ringraziamo, Padre per i tuoi doni. Ti ringraziamo per la tua paternità. Da sempre tuo Figlio è nel tuo cuore. Con la creazione hai iniziato a preparare il suo corpo. Hai accompagnato, attraverso le infinite esplosioni, la materia informe dai nuclei degli atomi alle galassie senza numero, ordinando ogni cosa fino a rendere visibile la bellezza. E, come l’ombra dice pur lontanamente qualcosa dell’oggetto che rappresenta, così la creazione ha iniziato a dire qualcosa della tua bellezza. Intanto organizzavi molecole e cellule per far sì che un giorno, diventando umanità, potesse guardare verso di Te, e contemplare, anche se nell’ombra, qualcosa di Te.

Quando le cellule disposte in umanità sono state capaci di accoglierti, hai mandato in esse il tuo Spirito perché potessero diventare il corpo e il sangue del tuo Figlio. Un popolo, il popolo di Israele cominciò, con la tua luce, a sentire di essere non solo un popolo, ma anche il figlio che poteva dialogare con Te. Tu gli parlavi ed egli ti rispondeva. Col fuoco e con l’ombra, mostravi a Lui qualcosa della tua Gloria. Questo figlio ti chiedeva benedizioni e tu lo esaudivi. Provvedevi cibo, figli e ricchezze. Quando si dimenticava di Te, lo richiamavi perché non perdesse l’occasione di essere felice con la tua amicizia. Quando si allontanava da Te con la pigrizia di fare il bene, lo riprendevi per accordargli nuovamente il perdono. Per esserti riconoscente, ti offriva allora frutti del campo e animali, bruciandoli: privandosi di essi, sperava di raggiungere il tuo cuore dicendoti grazie o chiedendoti perdono.

Se nel cuore di questo figlio trovavi uno spazio più puro e capace di capirti, dicevi di gradire altri sacrifici e cioè cuori puri, umili e santi. Spesso ti supplicava: “Parlami, Padre, che il tuo servo ti ascolta”, ma per lui, ancora tanto bambino, era molto faticoso capire le tue parole, così diverse da quelle che era capace d’intendere. Poi, nella pienezza dei tempi, quando l’albero dell’umanità fu in grado di dare frutti maturi, hai realizzato il tuo sogno di salvezza. Da sempre gli uomini ti domandavano con insistenza: “Salvaci dai nemici, dalla schiavitù e dalle deportazioni. Salvaci dalle malattie. Salvaci dalle calamità naturali: terremoti, incendi, inondazioni. Salvaci da ogni forma di sofferenza. Salvaci da ogni male”. E tu, Signore, rispondevi a queste grida umane, ma volevi donare molto di più di quanto tuo figlio sapeva chiedere: volevi salvarlo dalla morte. O comunque desideravi che sapesse di questo dono eterno che avevi già progettato per lui e gli altri figli.

Dopo aver inviato Patriarchi, Profeti e Santi a parlare della salvezza, si è fatta spazio tra il tuo popolo la speranza che sarebbe venuto qualche Santo, un Messia a salvare il popolo da tutte quelle fatiche. E Tu, Signore, avevi già suggerito ad Abramo di consegnare il figlio suo pensando di poterlo riavere vivo anche dopo la morte. E ai figli dei Patriarchi avevi appunto rivelato te come Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quindi Dio dei vivi e non dei morti, e a Giobbe pure avevi dato una luce sufficiente per poter dire in mezzo al suo dolore: “Io so che un giorno, anche dopo la morte, con questo mio corpo vedrò il Signore”. E, ancora, avevi dato il dono di una fede straordinaria a una madre con sette figli, i Maccabei, i quali poterono testimoniare di credere nella Resurrezione al punto di lasciarsi uccidere tutti pur di rimanere fedeli al loro Dio. In ogni caso, tutto ciò rimaneva una speranza, ma anche questi testimoni erano morti, lasciando dietro di sé il silenzio che segue ogni mortale.

E Tu non hai voluto continuare a ripetere parole di speranza, ma mandare una parola nuova, anzi “la Parola” e questa Parola è diventata un bambino, poi un uomo cresciuto sullo stesso albero dell’umanità, lo stesso albero che ha prodotto ogni altro uomo e donna. In quest’uomo, Gesù, Tu, Padre hai occupato tutti gli spazi del corpo e dell’anima al punto che Egli può esprimersi dicendo:

“Chi vede me vede il Padre”. In Gesù tutto è divino. La gente lo incontra, pur non sapendo che è come incontrasse Dio. Quando gli amici lo ascoltano, ascoltano veramente parole di Dio. Se i malati vogliono chiedere a Dio la guarigione, vanno da Lui. Se qualcuno vuole chiedere a Dio che resusciti una persona cara, va da Gesù. Se qualcuno si sente peccatore e vuole chiedere perdono a Dio, va da Lui: così chi incontra Lui incontra Dio stesso.

Non è vero che, vedendolo straordinario, i suoi conterranei l’abbiano divinizzato ma, poiché il Padre l’aveva riempito del suo Spirito, l’hanno semplicemente riconosciuto, specialmente il mattino di Pasqua, dopo la Resurrezione. Qualcuno teme che la materia del corpo di Gesù venga chiamata Dio e quindi l’unicità di Dio, il monoteismo ebraico o islamico vengano compromessi. Per accompagnarci a piccoli passi, pensiamo alle molecole che compongono il pane e il vino: rimangono le stesse anche dopo la consacrazione, anche se ospitano la Tua presenza viva e vera. Così gli atomi, le molecole e le cellule che hanno composto il corpo di Gesù, nel momento in cui è morto sono diventati come ogni altra parte della materia. Se gli uomini avessero divinizzato la materia del corpo di Cristo, avrebbero continuato ad adorarlo anche da morto e invece lo hanno seppellito.

Solo con la Resurrezione, quando quella materia ha riaccolto la tua presenza, o Dio – e tu, Padre, sei tornato ad occupare tutti gli spazi di quella materia, anche se in un modo totalmente nuovo – abbiamo nuovamente contemplato la tua Gloria, o Dio, cioè la tua Gloria nel corpo del Figlio, quindi, Signore, in Gesù è il luogo dove la tua divinità è più visibile, per quanto lo possa essere in un corpo umano. E se tu, o Dio, sei presente nelle parti più segrete della materia che si esprime in sola energia e, pertanto, non sei presente nel pane spezzato o nel calice del Signore più di quanto lo sia in qualunque altro luogo, noi abbiamo però scelto il segno che ci hai suggerito per celebrare, in esso, la tua presenza. Nel pane spezzato non adoriamo il gusto del pane, il colore o il profumo del vino, né la visibilità della materia in quanto tale – ciò che i teologi chiamano accidenti – ma la presenza di Dio in quel luogo privilegiato.

Così tu, Dio Padre, sei presente in tutto il Figlio – che siamo noi, uniti a Gesù risorto – e ci dai la possibilità di celebrare la tua presenza divina, la tua bellezza e la tua gloria nel Gesù Cristo stesso, che ci anticipa fin d’ora quello che saremo anche noi. Per questo mistero di salvezza, noi, fatti voce di ogni creatura, uniti agli Angeli e ai Santi, proclamiamo la tua gloria: Santo, Santo, il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria, Osanna nell’alto dei Cieli. Benedetto il Signore Gesù che, ripieno di Spirito Santo, porta lo stesso Dio in mezzo a noi. Osanna nei Cieli Santi e qui sulla terra».

L’Eucarestia del fratello

«Caro Teofilo, annotai sul mio diario anche questa esperienza, che ti potrebbe suggerire ancora qualcosa sull’Eucarestia.

Era il 26 novembre: nella stazione di Zagabria si stava caldi e non era un problema passarvi la notte. Non ero molto stanco perché avevo dormito in treno. Aprii il breviario per la preghiera di Compieta. Mi ero seduto accanto a uno zingaro del Wukomerec che, essendosi ubriacato forse più del solito, non era riuscito a rientrare ed era là, accasciato su se stesso con la testa bassa. Lo conoscevo solo di vista. Lui mi guardò, borbottò qualcosa e tornò a dormire. Non avevo ancora celebrato Messa. Ero senza pane e senza vino. Avevo solo del tè in un termos.

C’erano tanti uomini e donne in quel grande salone. Molti erano visibilmente chiusi nella propria disperazione, non guardavano in faccia gli altri e non volevano essere guardati. Avevo l’Eucarestia esposta davanti a me, nel corpo e sangue di tutti quei fratelli e sorelle. Potevo fare adorazione, mi mancava però la “celebrazione” dell’Eucarestia stessa. Sedetti di fronte allo zingaro. Mi raccolsi, cercando di fare silenzio dentro di me e, da ultimo, pregai con la “Compieta”, la preghiera della sera. Era giovedì, salmo 15.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita: continuavo a guardare quello zingaro davanti a me. Il mio Signore era là, era la mia eredità, e il mio calice era pronto.

Per me la sorte è caduta in luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica: non c’era luogo migliore di quello. Mi era toccato in sorte il Signore stesso nella presenza del mio fratello, di fronte al quale facevo adorazione.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio, anche di notte il mio cuore mi istruisce: e pensavo a quella stessa notte.

Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare: il Signore era proprio posto davanti a me, alla mia destra, e io mi sentivo sicuro.

Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra: quella sera mi indicò con più forza il sentiero della vita. Ed era la gioia della sua presenza viva e vera in quell’uomo davanti a me.

Conclusi le preghiere della sera. Ormai era tardi, iniziai così la Messa davanti a quello zingaro, anziché davanti al pane azzimo e al vino. Feci le letture: il primo capitolo della Genesi, alcuni versetti della prima lettera ai Corinti e il capitolo 25 di Matteo e riflettei per alcuni minuti, poi proseguii con l’Offertorio:

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo dono, è un corpo umano. Questo è tra i più belli e grandi dei tuoi doni. Egli è frutto della terra, della gioia e della sofferenza, e in primo luogo del tuo amore. Lo presentiamo a te perché diventi per noi ciò che è già per te. Diventi per noi comunione di salvezza e ciascuno di noi sappia riconoscerlo. Benedetto nei secoli il Signore.

Mi rivolsi poi a quell’assemblea muta, che non si era accorta di ciò che facevo e gridai col cuore:

Pregate, fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente.

Tacquero. Si intese solo il rumore di qualche bottiglia. Alcuni entrarono, altri uscirono, ma io raccolsi entro di me la risposta:

Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio vivo e santo per il bene nostro e di tutta la sua santa chiesa, la chiesa di tutti gli uomini. Il Signore sia con voi.

E con il tuo spirito.

In alto i nostri cuori.

Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.

È cosa buona e giusta.

Era veramente cosa buona e giusta. Raccolsi tutte le mie forze e recitai la mia preghiera di lode e di ringraziamento:

Grazie, Padre, per tutto ciò che è attorno a noi, per l’assoluto che sei tu e per il limite che siamo noi. O Padre, siamo il tuo confine, là dove tu finisci e ricominci il canto della tua esistenza, della tua grandezza e della tua bellezza. E quando noi abbiamo interrotto il canto della libertà, tu, o Padre, non ci hai lasciato nel silenzio della disperazione e dell’inferno, ma hai mandato a noi Gesù Cristo, il quale ci ha riproposto il canto che tu stesso ci avevi insegnato. Questo stesso Gesù prese l’umanità fra le mani e benedisse quella carne che aveva consacrato dicendo: “Ogni volta che farete qualcosa anche al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me”; poi pose un bambino in mezzo e ripeté: “Ogni volta che accogliete uno di questi piccoli, voi accogliete me”.

Così, Padre, abbiamo riconosciuto la tua gloria sul volto di ciascuno di loro, poiché Gesù la rese particolarmente visibile nella sua persona di Figlio, per questo i tuoi figli inneggiarono il canto della liberazione ai quali ci uniamo per gridare: “Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo, i cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nei cieli e sulla terra. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nei cieli e sulla terra”.

Proseguii con il canone. Stesi le mani in avanti e dissi: Padre veramente santo e fonte di ogni santità, santifica questo dono, mandando il tuo Spirito perché diventi per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore.

Certo, lo era già corpo e sangue di Cristo, ma io avevo sempre più bisogno che lo diventasse per me, per me e per gli altri. Per questo bisognava ancora pregare, consacrare e benedire. E proseguii con la preghiera di “consacrazione”:

Un giorno Gesù prese un bambino, lo pose in mezzo e disse: “Tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.

Sostai in adorazione e continuai:

Mentre Gesù stava seduto sul monte degli ulivi, parlò del compimento finale e del giudizio di Dio e disse: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Non ero capace di sollevare quell’uomo con le mani, lo feci col cuore e proseguii: Mistero della fede. Annunciamo la tua morte, Signore, che continua in questi fratelli. Proclamiamo la tua Resurrezione, che ha riscattato definitivamente ciascuno, nell’attesa della tua venuta.

Ormai, la cattedrale in cui mi trovavo era diventata silenziosa ed io continuai a celebrare.

Celebrando il memoriale della morte e Resurrezione di tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo questo sacrificio vivo e santo per ringraziarti. Guarda con amore e riconosci nella tua chiesa universale e in questa piccola chiesa nella stazione di Zagabria la vittima pura, santa, immacolata, corpo santo dell’eterna salvezza.

Ricordati, Padre, della tua chiesa diffusa su tutta la terra, rendila perfetta nell’amore in unione al nostro Papa, al Vescovo, ai preti e a tutto il mondo che tu hai redento. Ricordati dei nostri fratelli defunti: i poveri e i ricchi, i mistici e gli indemoniati, ammettili a godere la luce del tuo volto. E di noi tutti abbi misericordia. Donaci di aver parte alla vita eterna, insieme a Maria, la madre di Gesù, gli apostoli, i santi e tutti gli uomini di buona e di cattiva volontà, che in ogni tempo ti furono graditi e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria. Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Qualcuno si era messo a gridare, ma non mi aveva disturbato ed era entrato così in maniera più viva nella nostra Eucarestia:

Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire, con la bocca a terra, osiamo con le labbra impure, osiamo con il cuore carico di peccato, sperando che nessuno si vergogni di averci per fratelli, poiché non si è vergognato Gesù, osiamo dire: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come li rimettiamo ai nostri debitori. Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Liberaci, Signore, da tutti i mali, concedi benigno la pace ai nostri giorni e con l’aiuto della tua misericordia saremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni paura, nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo.

Il coro era sempre più forte: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli.

Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa. Sì, guarda alla fede della tua chiesa. La tua chiesa è fedele, perché in essa ci sei tu, Cristo, che sei fedele. La tua chiesa è bella perché in essa ci sei tu, che sei bello. La tua chiesa è credibile, perché in essa ci sei tu che sei credibile. La tua chiesa è santa perché ci sei tu che sei santo. Guarda dunque alla bontà di questa chiesa e dona unità e pace, tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.

Guardai tutti, uno per uno, e: La pace del Signore sia sempre con voi. E con il tuo spirito.

Ho cercato di risistemare un uomo che era cascato sul fianco in una posizione che doveva stancarlo, anziché riposarlo, perché potesse avere ancora un poco di “pace” anche lui. Forse si spaventò e lanciò un urlo. Non compresi ciò che disse. È probabile che abbia pensato a un tentativo di furto. Tornai a posto e continuai davanti al mio zingaro così crocifisso e abbandonato come un agnello sgozzato:

Beati gli invitati del Signore; ecco Gesù, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. O Signore, tu adesso dormi e sei ubriaco, come posso fare comunione con te, la comunione con la vittima offerta, la comunione con il santo sacrificio dell’altare?

Ho preso il termos del tè, mi sono avvicinato allo zingaro, l’ho svegliato a fatica per chiedergli se voleva del tè caldo. Non rifiutò.

Mi sembrò contento più per l’attenzione che per il tè stesso. Ne diedi a un altro vicino e bevvi quello che era rimasto. Avevo fatto anche “comunione”. Canticchiai la preghiera di Francesco: Dove c’è odio ch’io porti l’amore.

Preghiera dopo la “comunione”

Signore, ora mi sento in comunione con tutti i fratelli e le sorelle del mondo. Ora credo che tu sei dentro di me e, per lo stesso dono di questa fede, abbraccio tutti i cattivi come me e i buoni, i ricchi e i poveri, gli inseriti e gli emarginati, i lavoratori e i disoccupati, coloro che soffrono, che muoiono, che cantano. Abbracciando te, o Cristo, abbraccio gli omicidi, coloro che cercano di sopprimersi, i drogati, i missionari, le prostitute, le missionarie, le mamme, i papà, gli omosessuali, i santi, i ladri, gli apostoli, i ricettatori. Abbraccio il loro corpo e il loro sangue in questa smisurata comunione che mi concedi. Amen».

Il pane e il vino

«Teofilo, da questi pochi appunti nasce una filosofia della vita e un’antropologia nuova. Ne nasce un grande impegno: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore. In te e nel fratello troverai il cuore di Dio e, contemplando nel silenzio il Dio degli uomini, il Dio invisibile, vedrai il vero volto dell’uomo. Per tutto questo non è sufficiente la preghiera sul treno, alla stazione, passando nella strada e attendendo negli uffici. Bisogna sostare a lungo nella propria stanza, nel segreto. Ogni giorno devo piegarmi, di fronte a quel pezzo di pane spezzato in segno della sua presenza, per aiutare il mio cuore a contemplare, nella gratuità del tempo, il Creatore della storia. Devo celebrare l’Eucarestia, offrire, chiedere, ringraziare, lodare, cantare le preghiere della chiesa da solo o con la comunità, altrimenti finirò per non riconoscere più questo Cristo di strada, di mondo, di fango. Se non c’è l’adorazione nel silenzio, la preghiera, la contemplazione nel deserto davanti all’altare della mia chiesa, Cristo diventerà sempre più un’idea, un pensiero, un fantasma e basta. Se guarderò sempre e solo alla terra finirò per credere soltanto in essa».

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[3]

Cfr. Rosso R. (2010), La consegna, EDB.

[4]

Cfr. Rosso R. L’uomo, nostra seconda Eucarestia, EDB.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo VIII

GIOIA DELLA PREGHIERA

pag. 122-130

Gioia

«È proprio guardando a questa totalità che mi sorge ancora una domanda circa l’apice dell’antropologia umana. Se chiedo infatti a un musulmano qual è il punto più alto dell’antropologia islamica, mi dirà che è la Pace. È anche il saluto che ogni musulmano rivolge a chi gli passa accanto, benedicendolo: “La Pace sia con te” e la risposta è: “Con te sia la Pace”. Se poi chiedo a un indù qual è l’apice dell’antropologia indù, mi dirà che è l’uomo in armonia con tutta la creazione, che rispetta fino all’inverosimile ogni essere vivente, infatti cerca di proteggere ogni forma di vita, fosse anche il più piccolo moscerino. Se pongo la stessa domanda a un buddista, mi dirà che è la libertà da ogni desiderio che potrebbe far soffrire: l’uomo che ha raggiunto la dimensione del nirvana. Ma quale sia l’apice dell’antropologia cristiana, questo non riesco ancora a coglierlo».

«È un uomo: Gesù Cristo. L’apice della nostra antropologia cristiana è appunto Lui, crocifisso su una croce e risorto. Ma la Resurrezione appartiene a una nuova dimensione, di cui abbiamo ricevuto la testimonianza senza però farne esperienza nel quotidiano: perciò il culmine dell’antropologia cristiana si ferma là, sul Calvario. Ovviamente ogni momento della vita di Gesù bambino, adolescente, adulto, di Gesù che insegna, che compie miracoli, che prega, sono punti di riferimento per capire e indirizzare la nostra stessa vita, ma l’apice è là, su quel monte. Noi predichiamo Cristo e Cristo crocifisso».

«Dobbiamo perciò concludere che il fine della nostra vita è soffrire? Siamo stati creati per la sofferenza e solo per questo? Allora l’uomo ha ragione a lamentarsi e spesso a rifiutare la fede cristiana».

«Teofilo, hai visto una sola dimensione della vita di Cristo. Gesù è certamente l’uomo massacrato dal dolore più di ogni altro uomo che è esistito ed esisterà sulla terra, ma è anche l’uomo che più di ogni altro ha vissuto la dimensione della gioia nella massima misura che un uomo possa vivere. Gesù visse la gioia nel suo quotidiano di Nazareth in una famiglia così unica, in una dimensione di affetto e amore che possiamo solo immaginare lontanamente.

Quando stringeva la mano di una bambina morta potendo dirle Talithà Khum o quando stendeva le mani sui malati per guarirli, quando predicava il Nuovo Regno, le Beatitudini e annunciava il Comandamento Nuovo e, in modo tutto unico, quando trascorreva le notti col Padre in una preghiera che univa l’umano al divino con una gioia che nessun uomo ha mai potuto né potrà mai sperimentare e, ancora, durante le sue giornate terrene, mentre amava ogni persona che passava o sostava accanto a lui, ecco la gioia di Cristo è al di sopra di ogni altra gioia sulla terra. E, nella misura in cui faremo nostra questa antropologia umano-divina, sappiamo che né il dolore né la morte riusciranno a sminuire il canto della nostra gioia che si fonde e diventa tutt’uno con quello di Cristo».

«Padre, allora continuate a rallegrare il mio cuore parlandomi di questa festa che, pur unita ai pianti di questa vita, non m’impedirà mai più di cantare: “E voi tutti benedite il Signore!”».

«Dopo aver balbettato queste poche cose sulla gioia, non mi resta, caro Teofilo, che raccontarti con estrema semplicità la mia esperienza della gioia, certamente diversa da quella di Gesù, dalla tua e da quella di ogni uomo e donna che vive su questo pianeta. Ma ora ritorniamo alle nostre occupazioni. Domani avremo un’intera giornata di silenzio sulla montagna: ritroveremo gli arbusti cresciuti, i boccioli fioriti, i ghiri, le manguste e forse qualche serpente da cui dobbiamo difenderci, senza perdere l’occasione di dire: “E voi serpenti, rettili e mostri marini, benedite il Signore” e di invitare a lodarLo tutto ciò che incontreremo. Sarà certo una bella giornata».

Teofilo partì il mattino presto e il freddo piuttosto intenso fu il primo a condividere con lui la preghiera. Poi, guardando più lontano, invitò anche la neve e il rumore del ruscello che scorreva a valle: “Freddo e gelo, benedite il Signore”. Così iniziò la lunga litania. Arrivarono poi il tepore, il caldo, le marmotte, gli scoiattoli e alcune caprette che un ragazzotto accudiva da lontano, mentre giocherellava da solo. La giornata passò tra un canto e l’altro. In un momento, l’aria diventò viola e i colori più vivaci scomparvero, ma Teofilo era già sulla strada del ritorno per concludere con l’Eucarestia la preghiera di quella giornata per lui troppo breve. Intanto si era fatto ansioso di sentire il suo starez raccontargli qualcosa della sua esperienza sulla gioia. E il momento arrivò il giorno seguente, dopo le preghiere del mattino e la colazione davvero povera.

«Come ti avevo promesso, Teofilo, ecco la mia esperienza. Ho pensato che mi sarei trovato meglio ad annotarla su qualche foglio di carta, così rimaniamo più raccolti nel nostro silenzio, che deve diventare sempre più ricercato, vissuto e apprezzato».

Allora Teofilo prese con emozione quel testo e corse subito nell’angolo preferito dell’eremo, dove normalmente si fermava per la meditazione.

Appunti sulla gioia

Anche se l’amore è il motore del mondo – ne parleremo di certo in seguito – e potrebbe essere più coerente iniziare da lì, mi sento motivato a partire dalla gioia: trovo che essa o il suo sinonimo, la felicità, siano i prodromi, gli indizi che precedono e preannunciano l’amore e le grandi emozioni. Tutto ciò che mi spinge a un’azione è motivato dalla gioia: quando cerco di fare sia il bene, sia il male, aspiro alla felicità. Spesso non la raggiungo per pigrizia, incapacità o follia, ma la perseguo sempre, oserei dire in ogni istante della vita.

La gioia vera e intensa è come una bomba atomica che distrugge tristezza, angoscia, affanno, depressione, panico, ma anche avvilimento, malinconia e sconforto. Talvolta posso confondere la gioia col semplice piacere, oppure con l’appagamento per aver raggiunto un oggetto: per la sua bellezza o preziosità, esso sembra soddisfare il mio istinto che cerca spasmodicamente la gioia, ma può essere un inganno. Per esempio, posso dire a me stesso: “Se riuscissi a terminare il libro che sto scrivendo o a concludere la mia composizione musicale o a finire il murale che mi sono proposto di dipingere, ciò mi darebbe una grande gioia”. Eppure, nel momento in cui termino l’opera, non ho il tempo di apprezzarla che è

diventata uno dei milioni di libri, musiche o quadri che sostanzialmente ripetono le stesse parole, gli stessi suoni, gli stessi colori: la gioia che prevedevo è già frantumata.

Anche le persone possono diventare un oggetto che travisa la mia aspettativa di gioia. Se, infatti, per costruire una relazione con un gruppo di malati, carcerati, mendicanti o comunque poveri, mi dedico ad essi anima e corpo ma, senza accorgermi, mi lascio rodere dal verme del successo, cercando di farmi strada e credendo di fare strada ad essi, senza preoccuparmi di instaurare un’amicizia profonda sopra una relazione sincera, non vivrò di gioia. Dio stesso può venire trasformato da me in un oggetto. Ne sono prova le preghiere che Lo considerano il dispensatore di ciò che gli viene domandato e quindi un oggetto che non corrisponde a una fede cristiana sincera e adulta. Con questo Dio non sarò capace di mettermi in relazione e, di conseguenza, raggiungere la gioia vera.

Dove, come e quando incontro la gioia? Evitando un’analisi astratta, dopo aver esaminato con accurata indagine la mia personale gioia, mi sono reso conto che per ottenerla devo trovarmi di fronte a qualcuno con cui dialogare, cioè condividere ciò che esiste nel mio profondo e potergli comunicare i sentimenti e pensieri che il mio essere produce. Di conseguenza, ho bisogno di ricevere dall’altro tutta la comprensione, la condivisione e la stessa comunicazione che contraccambia il dialogo con lui. Solo allora sperimento la gioia, che è composta da me e gli altri in relazione, in dialogo. È sufficiente sedermi accanto a un mendicante, anche con le mani vuote, ma in dialogo: così posso essere felice.

Al contrario, costruire case per i poveri della valle, piallare gli assi per una porta dell’eremo in costruzione, preparare una scuola mobile per i bambini pastori sugli alpeggi della montagna o ancora, con i contributi degli ospiti, sostenere un ospedaletto da campo in Africa o una tenda-scuola per i Beduini Saharawi, finire una barca da pesca per i Bajjao delle Filippine, o portare a compimento qualunque altro nobile lavoro – come scrivere, cantare o dipingere – può non farmi raggiungere la soddisfazione piena dello spirito, se mi manca la relazione o se essa è solo parziale.

Io voglio la gioia, la desidero, la spero e spesso la ottengo, anche se parzialmente, nella relazione. Se però cerco di dialogare con un bimbo di pochi mesi, il quale mi sfugge appena si accorge che non sono il suo papà o il suo interlocutore comune, devo capire il suo modo di cercare l’altro con un pianto inconsolabile che, se tardo a lasciarlo libero, diventa grido. In realtà quel bambino mi sta dicendo: “Vedi che so riconoscere chi mi ama davvero e so dialogare con le mani che abbracciano, gli occhi, il sorriso abbozzato? Se mi diventerai amico imparando il mio linguaggio, potremo scambiarci una grande gioia”. E quando incontro mia madre e ci raccontiamo i fatti dell’ultimo anno o delle ultime settimane trascorse e mi sembra di rilegare il mio cordone ombelicale a lei e torniamo ad essere tutt’uno, una grande gioia diventa il premio di quel momento; quando invece la relazione è impedita dal tempo o dallo spazio, io inaridisco.

Non dovrebbe essere sempre vero il detto: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, ma per me lo è troppo spesso. Per incendiare l’affetto che mi porta la gioia ho bisogno di incontrarmi occhi a occhi, stringere le mani e abbracciare l’altro, baciare, accarezzare; se questa dimensione mi manca, la mia gioia viene meno, il mio animo non è appagato. Intravedo quindi una gioia significativa là dove vivo una relazione sincera con l’umano. Penso che nel rapporto sponsale possa esistere il più alto grado di relazione e, di conseguenza, di gioia ma, anche in questo caso – pur non essendo il mio, poiché non ho fatto e vissuto questa esperienza – mi pare di dover concludere che la gioia potrebbe non raggiungere la pienezza a cui ogni essere umano tende se l’altro fosse considerato un oggetto e non una persona in relazione.

Mi pare di essere un gabbiano che, sorvolando le spiagge e le onde del mare per cercare nel cibo una pur piccola gioia, vede scritto ovunque: “più in là”. Mentre provo piccole e grandi gioie per tutti gli oggetti e in tutto l’umano, in realtà tendo a una felicità che posso avere in questo mondo, ma che non è di questo mondo. Non mi basterebbe saper parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli per ottenere la pienezza della gioia a cui tendo. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri, se avessi la conoscenza piena e se, ancora, possedessi tanta fede da trasportare le montagne, tutto ciò potrebbe non bastarmi per la gioia vera a cui tendo. E se dessi anche tutti i miei beni per sfamare il mondo, fino a consegnare alle fiamme il mio corpo per salvare qualcuno o fare del bene in modo eroico e se vivessi tutte le virtù, su ognuna di queste azioni potrei trovar scritto: “più in là”, “più in là, se vuoi incontrare la Gioia vera a cui tendi”.

La Gioia che ho pur trovato qualche volta e che spero tutti i giorni è Dio stesso, o meglio la mia relazione con Lui, il mio pur piccolo amore per Lui, poiché si relaziona con un amore infinito. Posso quindi dire che c’è una gioia nel contemplare ogni oggetto della creazione, una Gioia a un livello certamente superiore nel relazionarmi con l’umano e una Gioia al più alto grado quando l’umano si relaziona con il Divino, il Trascendente: Dio stesso. Anzi, quando si relaziona con Dio nell’Amore, l’umano cambia persino natura, diventando capace di compiere azioni che, arricchite da Grazie speciali, costituiscono l’apice della bellezza umana. Essa è magnanima, vuol bene a tutti, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto delle offese, ma si rallegra della verità. Quindi è capace di accogliere la Gioia che non avrà fine perché frutto dell’Amore, della Caritas.

In altre parole, questa Gioia è giocare sulle ginocchia del Padre in una relazione che si realizza in questo mondo, ma non è di questo mondo. E nasce dal fatto che, mentre tutte le relazioni con oggetti o con l’umano sono in qualche modo imperfette – perché l’altro non supera il mio stesso livello, quindi dopo poco tempo la mia memoria non lo conserva e non lo riconosce – la Gioia che nasce dalla relazione col divino è conservata nella memoria di Dio, per cui ogni volta che ne faccio esperienza posso essere riabbracciato dalla felicità nella sua pienezza.

Preghiera

A questo punto, Gioia e Preghiera diventano sinonimi, perché la preghiera è proprio quella relazione con Dio di cui ho parlato. La preghiera rimane, per me, un desiderio che mi accompagna alla gioia, anzi un grande desiderio, ma ancora molto arido, di conseguenza è arida la mia gioia durante la preghiera. Mi domando con umiliazione: “Perché mi dà più gioia una preghiera dove parlo e dialogo con Dio come se fosse al mio livello e molto di meno un tentativo di contemplazione? Cerco di dare una parziale risposta ponendo altri interrogativi perché di risposte vere e proprie non ne ho trovate nella mia esperienza. Mi fermo dunque su quella gioia impedita che avrebbe dovuto darmi la pienezza della soddisfazione dell’animo e cioè la gioia della preghiera. Cosa impedisce questa legittima gioia? Forse l’aridità spirituale. Mi è molto difficile addentrarmi nella mia aridità senza evitare scogli che mi manifestano contraddizioni insuperabili: la fenomenologia di questa emozione si presenta a me come mancanza o incapacità di relazionarmi con Dio nei momenti della preghiera.

Ho già detto che per vivere la gioia di questo dialogo o di ogni dialogo devo trovarmi il più fisicamente possibile di fronte a un interlocutore. Nella preghiera ho di fronte a me sia il volto di Gesù che di sua madre Maria, in quanto persone di questa storia e pertanto almeno immaginabili. Anche il Padre e lo Spirito Santo li credo fermamente presenti, ma la fatica e spesso l’incapacità di dialogare con questo mondo trascendentale mi fa seccare la linfa dell’anima: mia madre stessa, come dicevo, è meno presente per me quando è distante.

La mia aridità è una sorta d’incapacità, di svogliatezza, pigrizia, stanchezza e comunque una forma d’impotenza nel produrre degli atti affettivi, di passione, di eros e agape o almeno degli atti intellettivi poiché mi trovo dinanzi all’Invisibilità. Questa impotenza in me è così apatica da indurmi una discreta fatica nel rimanere costante nell’orazione. E una causa della mia aridità potrebbe essere proprio questo desiderio inconscio di pregare per provare soddisfazione affettiva in questo vincolo tra me e Dio stesso. Forse non sono disposto a una preghiera gratuita e per questo mi penalizzo, pietrificando il mio cuore.

Di fatto mi sembra che i sensi non concorrano più all’attività che dovrebbe contribuire a mettermi in relazione e anche tutte quelle potenze interiori ed esteriori delle facoltà sensitive diventano in qualche modo impotenti. Certamente, quando mi dispongo alla preghiera, e quindi alla gioia di stare con Lui, penso di far agire la mia volontà di amare questo Dio. Per avere coscienza di amarLo, devo pur conoscerLo, ma probabilmente lo faccio in modo attivo: sono io che metto in moto le attitudini dello Spirito, ma non so dispormi dinanzi a Lui in modo semplice come un bambino e in modo passivo. Probabilmente utilizzo i doni dello Spirito Santo, in particolare la sapienza, la fortezza, la scienza, la pietà, ma sono sempre io che li metto in moto o pretendo di farlo, mentre il Signore ha bisogno di una disponibilità diversa: pretende che Lo lasci libero di offrirmi il dono di contemplarLo e di amarLo, sia pure in modo confuso e oscuro perché sono umano. Così hanno sperimentato la preghiera di contemplazione i mistici, nella notte dei sensi, ma essi hanno saputo trarre grazia anche dal buio, dall’angoscia e dal loro io umano, percepito sempre più come inadeguato a contemplare l’Invisibile e l’Inafferrabile, nel silenzio di Dio.

In una parola, la mia aridità potrebbe proprio essere questo voler amare con le forze umane per vedere l’Invisibile, toccare l’Intoccabile, stringere chi non ha corpo o almeno (nel caso di Gesù) un corpo non più come il nostro. Così io stringo sempre le mani, che restano vuote. Di fronte a Dio faccio discorsi, cerco di dialogare e meditare con l’attività della mente su questa o quella Parola di Dio, ma non so abbandonarmi e lasciare che sia Lui ad offrirmi la relazione, per Grazia e non per i miei sforzi e accettare anche che questo dono non me lo faccia affatto, perché non ne ho alcun diritto. Penso di dovermi solo disporre in modo che sia lo Spirito Santo a pregare in me con quelle grida ineffabili… però a quel punto devo accettare che nei miei confronti Dio abbia tutta la libertà di usare una forma di comunicazione con me che non sia la mia.

So che i suoi pensieri non sono i miei e che le sue attitudini non sono le mie, ma penso di avere a disposizione solo il mio modo di comunicare con Lui, di conoscerLo e amarLo per essere abbracciato dalla pienezza della sua gioia. So che la mia anima deve rinunciare in assoluto ad agire nel suo modo naturale, direi istintivo, che è il modo di rapportarsi con ogni “tu”, poiché nella preghiera non è così: se per Grazia non rinuncerò ad essere io l’agente dell’amore con Dio, l’agente della preghiera e se la mia preghiera non cesserà di essere “mia”, dovrò ancora fare prolungate meditazioni come preparazione alla preghiera.

Dovrei anche dialogare con Lui servendomi ancora di parole come faccio con mia madre o mio padre, ma lasciare sempre di più che nella preghiera sia ormai Dio ad agire e solo se Lo vuole, mentre, da parte mia, accettare che la sua conoscenza e amore mi vengano comunicati non specialmente attraverso i miei sensi, ma nel modo che è proprio e unico di Dio stesso.

Nella preghiera mi sono sempre sforzato di aggrapparmi a gusti, a gioie, a “piaceri” spirituali, perché l’amore di “relazione umana” offre questo, ma devo riconoscere che Dio si relaziona con me senza la mediazione dei sensi, anche se esempi come il “Cantico dei Cantici” mi fanno incontrare con un Dio tanto incarnato, molto prima della stessa incarnazione di Gesù Cristo.

Quindi la fotografia della mia aridità è una preghiera in cui Dio è come una creatura sia pure la più bella e affascinante, ma pur sempre un Dio che aspetta i miei “fioretti”, la mia disponibilità ad azioni eroiche, un Dio che aspetta la mia disponibilità a dare il mio corpo al fuoco per Lui, un Dio che aspetta nella mia preghiera la disponibilità ad andare a predicare sui tetti le sue parole e non è ancora il Dio da cui devo avere l’umiltà di ricevere tutto, passivamente. In quel caso, anche se il Signore mi vuol provare con il suo silenzio o con un tempo di insensibilità non considererò più quella condizione come un tempo fallimentare, ma semplicemente una scelta sua di rapportarsi con me. “Sono io che ho scelto voi e non voi che avete scelto me” dice il Signore. In parafrasi: “Sono io, il Signore, che scelgo il modo di lasciarmi conoscere, di lasciarmi avvicinare e di lasciarmi amare nel privilegiato tempo della preghiera e non tu”.

Se il Signore vorrà continuare ad accettarmi come amante, Gli chiederò in particolare il dono dell’umiltà: così ciò che chiamo aridità potrebbe anche non mutare radicalmente nella sua fenomenologia – poiché è innestata sulle mie fragilità, sulla mia salute fisica e su quella mentale e ancora sulla mia intelligenza limitata – ma non diventerà frustrazione e potrà addirittura trasformarsi nel canto dell’amato nel deserto, nella notte, perso come colomba nei dirupi della roccia; un essere che non vede, non incontra, non riesce ad abbracciare il suo amato.

Ma se Dio mi fa il dono di continuare a sapere che Lui c’è e il dono dell’umiltà di non pretendere nulla, questo per me sarà quanto mi basta, almeno per il cammino in questa condizione terrena. Se dovessi lasciare un’impronta plastica della mia aridità, essa sarebbe come un uomo prostrato sulla sabbia del deserto, sapendo che Lui è vicino a me, ma da parte mia senza alzare la testa, per timore, nella notte, di non vederLo.

E, chiudendo il testo, Teofilo cominciò a riflettere sulla sua relazione con il mondo, con l’umano e con Dio.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo IX

CATECHISMO PER UN GIOVANE RICCO

pag. 131-153

La perfezione di Gesù

Era una sera di giugno e la giornata era stata stancante: i primi ospiti dell’estate erano arrivati all’eremo e vi avevano sostato tutto il giorno. Lo starez e Teofilo si scambiarono le loro impressioni:

«Molti di coloro che arrivano qui, specialmente d’estate, vorrebbero entrare un poco nella Cultura di Gesù Cristo, ma fanno una fatica immane, anzi, spesso con tutta la buona volontà non ce la fanno proprio. Essi sono legati ai mille fili che li tengono prigionieri del benessere, del denaro che è aumentato, dei divertimenti e, quando sentono la Beatitudine: “Beati i poveri...”, restano confusi, o coltivano desideri di distacco, di maggior appartenenza a Lui, ma poco dopo si ritrovano sui propri passi. Dovremmo preparare un testo, quasi un catechismo, per aiutare i nostri ospiti a svuotare il loro cuore di tutto ciò che occupa indebitamente il posto di Dio».

Nel preparare gli incontri per gli ospiti, i due monaci annotavano citazioni e riflessioni e, verso la fine dell’estate, raccolsero quasi un opuscolo, intitolato “Catechismo per un giovane ricco” che, dopo il primo capitolo diventò un testo non più specifico per ricchi o poveri, ma l’esposizione del “Comando nuovo di Gesù per diventare Cristiani” e, da ultimo, il testo raccolse una vera e propria “Regola per diventare Cristiani”. Ecco il testo:

Gesù ci chiede di essere perfetti com’è perfetto il Padre che è nei Cieli, e per dirci che questa non è un’utopia, ci ha dimostrato con la sua vita che è possibile. Gesù non è un Angelo, un Puro Spirito che imita il Padre, ma un uomo in carne e ossa, con tutti i limiti di ogni essere umano: ha bisogno di nutrirsi, si stanca quando lavora, ride e gioca con i bambini, piange quando un amico muore, vive momenti di amarezza, di solitudine e anche di tentazione, per essere superata. In alcuni momenti fa pure dei miracoli, per aiutare la fede dei suoi

discepoli, ma la sua vita feriale è molto simile alla nostra, eccetto nel peccato. Gesù non è un Angelo che svolazza da un pinnacolo del tempio all’altro, per far vedere che Egli è Dio, ma cammina normalmente con i piedi per terra, avanza faticosamente quando è stanco e crolla quando deve salire l'ultima montagna.

Deve farsi aiutare a portare la croce quando le forze fisiche e psichiche vengono meno. Grida, consola e accetta la consolazione. Non è un Superman dei cartoni animati. Gesù non lotta con forze sovrumane, ma con le nostre stesse forze. In questo modo ci annuncia, con la vita, che è possibile vivere come Dio stesso con la vita che ci è stata data e con il corpo che ci è stato dato. Sua madre, Maria, donna e madre, ha vissuto come Lui. Quindi almeno un uomo e una donna hanno vissuto di fatto, in questa storia, come avrebbero dovuto vivere il primo uomo e la prima donna della pagina biblica.

Per vivere questa perfezione ci dà due comandamenti, più uno. I primi due li aveva già ricevuti Mosè e Gesù li fa propri:

1- amare Dio con tutta la mente e con tutte le forze del cuore;

2- amare il vicino: il padre, la madre, la moglie, il marito, i figli, i parenti, i vicini, quelli della comunità, i vicini della comunità, fin dove le forze umane riescono a dilatarsi.

A questo punto, però, bisogna fare una restrizione. Per l’ebreo, il vicino, il prossimo era sempre un ebreo e per alcuni gruppi più integralisti era solo colui che seguiva la Torà, cioè il complesso totale della Legge ebraica. C’è poi un terzo comandamento, che potremmo chiamare l’undicesimo perchè non era tra i dieci comandi di Mosè, ridotti poi a due. Possiamo pure chiamarlo il Comando nuovo, cioé quello di amare come Gesù ha amato: è il comando che ci fa diventare Cristiani. Se poi volessimo ancora semplificare, potremmo dire che il Nuovo Testamento è semplicemente l’Antico Testamento vissuto da Gesù: i Dieci Comandamenti, vissuti da Gesù, diventano tutti nuovi. Mentre i Comandamenti dati a Mosé si trovano

non solo nella religione ebraica ma, con sfumature diverse, anche in altre, il Comandamento nuovo lo ricevono solo coloro che conoscono Gesù Cristo e che per Grazia di Dio lo mettono in pratica, diventando “Beati”.

Nel comando nuovo non ci sono delle norme in più. La stessa Legge di Mosè, che era fatta per giudicare in un normale tribunale umano, Gesù la fa propria e la trasforma, portandola a un livello nuovo: “Vi è stato detto di non commettere adulterio, ma io vi dico che anche solo desiderarlo è già peccato”. In un tribunale giudaico non si condanna per aver desiderato un adulterio. Ma Gesù educa ad amare in un modo nuovo.

Ancora una parola su questa nuova pedagogia di Gesù. Gli ebrei usavano lavarsi e lavare molti oggetti come rituale di purificazione. Gesù aiuta ad andare oltre. Omicidi, adulteri e furti non si lavano con l’acqua, che serve a pulire le membra del corpo. Il peccato che ferisce l’anima è a un altro livello. Se faccio una macchia su un quadro, poi la dimentico, metto vetro e cornice e, dopo un altro poco, comincio a lavare il quadro, ma solo sul vetro, con l’intenzione di eliminare la macchia, mi rendo conto che fiumi di acqua, sapone e detergenti vari non potranno raggiungere la macchia, perchè è ad un altro livello. Così Gesù aiuta la sua gente a scendere in profondità, per lavare le violenze e ogni desiderio cattivo. Per questa purificazione non ci vuole acqua, ma pentimento, preghiera e digiuno. Gesù aiuta ancora a fare un passo in avanti quando incontra un uomo molto ricco.

Riporto il racconto come lo propone Marco:

Mentre Gesù usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettatosi in ginocchio davanti a Lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù rispose: “Perchè mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse:“Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, perché aveva molti beni.

«Colui che si è presentato a Gesù era certamente uno di quei ragazzi buoni, puliti e con tanti sogni come ogni giovane ha diritto di avere. Probabilmente ha fatto molte domande a Gesù, anche se il Vangelo riporta solo l’ultima. È possibile che abbiano dialogato a lungo. È pure possibile che si siano incontrati tante volte e, alla fine, quando Gesù suppone che il giovane sia in grado di capire, gli fa una proposta che lo sorprende: “Se vuoi contiuare ad essere un buon Ebreo, continua a seguire la legge di Mosé, che é già ma se vuoi diventare “cristiano”, lascia tutto, vendi i tuoi beni e dalli ai poveri, poi vieni a vivere con me”» commentò infine lo starez.

Vendere i beni

«Padre, cosa chiede in realtà Gesù a quel giovane?».

«In primo luogo, Gesù invita il giovane a staccarsi da tutto ciò che è importante per lui. Non possiamo vivere affettivamente legati a Dio e ai beni di quaggiù. Dio e Mammona non sono compatibili nello stesso cuore: dobbiamo scegliere l’uno o l’altro. Se scelgo Dio posso certamente anche usare dei beni di questo mondo, ma essi restano un oggetto fuori del mio cuore, non coinvolgono la mia affettività e il mio amore rimane per Dio. Solo se percorro questo cammino sperimenterò ogni giorno che la sete di Dio è insaziabile, che Lui pretende tutto e non accetta che lasciamo un solo angolo del nostro cuore per qualcos’altro.

Se, invece, scelgo i beni di questo mondo, essi certamente mi permetteranno che io mi serva di Dio, purchè questo bene immenso resti un oggetto fuori del mio cuore e non coinvolga la mia affettività: il mio amore deve rimanere esclusivo per i beni della terra. Se percorro questo cammino sperimenterò ogni giorno che la sete dei beni di quaggiù è insaziabile ed essi pretendono tutto per essi stessi e non accetteranno che lasciamo un solo angolo del nostro cuore per qualcuno che si chiama Dio.

Potremmo scrivere interi libri sul significato dei beni che il buon Dio ha messo nelle nostre mani e di cui ci possiamo servire. Possiamo riflettere sul bene che possiamo fare se abbiamo a

disposizione tante ricchezze. Possiamo pensare a lungo che Dio stesso ha dichiarato tutti questi beni come cosa buona la sera stessa di ogni giorno della creazione ma, prima di tutte queste riflessioni, dobbiamo prendere una decisione: o Dio o le cose di Dio. Questa è l’alternativa che Gesù pone al giovane, ricco di molti beni: “Vendi tutto, staccati da tutto, svuota il tuo cuore di tutte queste meraviglie perchè c’è un altro tesoro da mettere dentro al tuo cuore».

Dà i tuoi beni ai poveri [5]

Teofilo interrogò ancora lo starez:

«È proprio necessario che tutti i cristiani diano i loro beni ai poveri? Quando Gesù dice che per un ricco è difficile entrare nel Regno di Dio, non sta esagerando o usando una metafora? Se i ricchi sono educati e gentili e sovente sono pronti ad aiutare i poveri facendo la carità, perchè allora essere così duri con loro? Sono infatti i ricchi che aprono la porta ai poveri e li ospitano nelle loro case. Sono generalmente i ricchi che, andando a scuola, possono approfondire le Sacre Scritture e, a loro volta, insegnare teologia a chi vuole conoscere di più i misteri di Dio. Sono spesso i ricchi che possono entrare nella vita religiosa, quindi dedicarsi anche ai poveri. Perchè, dunque, il Vangelo è così duro contro i ricchi?».

«Facciamo anche noi un passo per volta, come Gesù chiede al

giovane ricco. Lui lo invita a distaccarsi dai beni, gli dice di venderli, poi di darli ai poveri. In altre parole, lo incoraggia ad andare dai poveri e prima di tutto vederli, vedere che esistono, che sono fatti di carne ed ossa come i ricchi, con la sola differenza che sono poveri. Lo sprona ad occuparsi di loro. Lo incita, come primo passo, a fare la scelta dei poveri e a diventare loro amico. Se il giovane diventerà amico vero dei poveri, non potrà che diventare povero anche lui, uno di loro, nè potrà tenere i suoi beni chiusi in cassaforte, mentre i suoi amici mancano di medicine, di scuola, di lavoro. Gesù dice al giovane: “Diventa povero”. Solo allora diventerai beato, così potremo fare il terzo passo.

Molti dei succitati aspetti positivi dei ricchi potrebbero appartenere anche a chi ha iniziato il cammino di conversione. Vendere i beni non significa mettersi all’angolo di una strada e

svendere tutto oggi stesso. Certo, è possibile fare anche questo ma, se voglio costruire un ospedale o una scuola in un paese del terzo mondo, non posso farlo in un giorno. Ciò che mi viene chiesto è di innervosito di fronte all’espressione diventata comune dopo il Concilio Vaticano II: “L’opzione per i poveri”, “La Chiesa deve fare mettermi in quel processo che porterà, il più presto possibile, alla conversione chiesta da Gesù Cristo. Sovente mi sono letteralmente la scelta dei poveri”. Mi sono sempre detto che chi fa la scelta dei poveri sta ancora da questa parte dell’abisso tra ricchi e poveri, quello descritto tra Lazzaro ed Epulone per cui chi sta da una parte non riesce a passare dall’altra: è davvero tanto difficile quanto vedere

un cammello o una grande fune passare per la cruna di un ago.

Gesù non ha detto: “Beati coloro che fanno la scelta dei poveri”, ma: “Beati i poveri”. Perchè noi Chiesa continuiamo ad insistere sulla scelta dei poveri? Per me c’è una ragione: la Chiesa è umana e ci invita a fare un passo per volta, come Gesù ha invitato il giovane a fare un passo per volta. Se non faccio prima la scelta dei poveri (che non è il culmine della vita cristiana), se non mi lascio coinvolgere da loro, non arriverò mai a dividere i miei beni con loro e a diventare beato anch’io, cioè povero come loro».

«Ma è proprio vero che se uno è ricco non può entrare nel Regno? Se la ricchezza non è un male, perchè può diventare un impedimento sostanziale per entrare nel Regno?» insistette Teofilo.

«Forse la chiave della risposta sta in questo: chi vuole entrare nel Regno deve avvicinarsi a Gesù Cristo e, quando lo incontra, sia giovane (come il giovane ricco) o anziano, Gesù gli farà la stessa proposta: “Se vuoi essere di Gesù Cristo, cioè cristiano, vai, distaccati dai beni e incontra i poveri. Se non li vedi vai a cercarli, perchè i poveri li avrete sempre con voi. Quando li avrai incontrati, non potrai più continuare il cammino da buon cristiano-ricco, ma dovrai lasciarti coinvolgere. Se non sarai anche tu un buon samaritano per chi ha bisogno del tuo aiuto, a quel punto diventi colpevole. Quando aiuti l’altro nel bisogno, non credere di fare un’azione speciale, perchè fai solo ciò che devi e se non lo fai diventi criminale e un criminale-cristiano non è cristiano e non può entrare nel Regno, ovvero nella mentalità di Gesù”.

Il comandamento nuovo di Gesù, cioé l’invito di amare gli altri come ha amato Lui, non è un’opzione, ma un comando. Se non diventi povero, Gesù non dice che sarai meno beato, ma sarai maledetto: “Guai a voi ricchi!”. Condividere con i poveri e diventare come loro non è un cammino speciale, nè una vocazione di qualche privilegiato, ma la vocazione cristiana. Se voglio ubbidire al comandamento nuovo – amare gli altri – come posso amarli se li lascio nella sofferenza e proseguo?».

«Quindi Francesco d’Assisi, Madre Teresa e altri non sono stati eroi, ma cristiani, solo cristiani? Se Francesco, dopo aver incontrato i lebbrosi, e Madre Teresa, dopo aver incontrato i moribondi di Calcutta, li avessero lasciati dov’erano e non si fossero occupati di loro, non sarebbero stati meno santi, ma dei criminali?» Teofilo non nascose il suo stupore.

«Gesù invita a una scelta radicale. Lo fa con il giovane, quando gli chiede l’ultimo passo: “Quando ti sarai staccato dai beni, quando ti sarai coinvolto con i poveri e li avrai scelti, condividendo tutto con loro e diventando povero come loro, allora e solo allora, vieni e seguimi”. Il cristiano nasce in questo momento, quando inizia il cammino al seguito di Gesù. Il resto – tutto il lavoro fatto prima, per arrivare a seguire Gesù – è stato un catecumenato, una preparazione al battesimo. A questo punto possiamo farci una domanda: “Colui che, pur essendo ricco, ci sembra molto buono, educato ed onesto, quale cristiano è?” La risposta è semplice: “Non è ancora cristiano”. Forse ha già incontrato Gesù che gli ha fatto la grande proposta

rivolta al giovane ricco e, adesso, forse cerca di staccarsi dai beni, sta facendo il primo passo o sta già incontrando i poveri, quindi può essere al secondo passo, ma un ricco, chiunque sia, specialmente se veste gli abiti di un religioso/a, non è ancora cristiano.

Il giovane del Vangelo, nonostante abbia ricevuto la Grazia necessaria per fare questi passi, non c’è riuscito ed è rimasto profondamente triste. Quel giovane avrà certamente pensato:

“Cos’ho fatto a voler incontrare quell’uomo chiamato Gesù? Prima ero felice e mi sentivo buono, adesso mi sento colpevole”. E, di fatto, colpevole lo è diventato. Se fosse rimasto distante, se non avesse saputo, sarebbe rimasto in buona fede con un peccato in meno. Conoscere la verità e rifiutarla è un peccato in più. Incontrare i poveri e lasciarli nella loro miseria significa disubbidire al comandamento di Gesù e ci si carica del peccato più grave (perchè si disubbidisce al comando più grande).

Il giorno del Giudizio saremo giudicati su un comandamento solo. Non ci verrà chiesto se siamo musulmani, indù, cristiani o atei. Ci verrà chiesto se abbiamo amato chi ci stava accanto, semplicemente colui che abbiamo incontrato. Ci verrà chiesto se lo abbiamo amato sempre, sia quando eravamo felici o tristi, di buono o di cattivo umore, se lo abbiamo amato quando aveva fame, o sete o era nudo o in carcere. Amare il prossimo, il vicino nel bisogno, significa rimboccarsi le maniche per lui, altrimenti si rimane distanti dal comando di Gesù. Quindi il ricco che rimane ricco è un maledetto e scomunicato perchè non ha condiviso».

«Già. Se in passato qualcuno avrebbe potuto dire: “Io vivevo in un’isola felice e non sapevo che ci fosse tanta sofferenza sulla terra”, oggi il mondo è piccolo. Le più grandi ingiustizie, povertà e miserie non sono distanti da noi più di un’ora o dieci ore. Non abbiamo scuse. Resta forse una piccola scusa per qualche privilegiato: quella dell’ignoranza, quindi una buona coscienza erronea, ma sono pochi a potersi vantare di questo privilegio per essere giustificati. Non sono quindi riuscito a difendere questo ricco che c’è in me e in tanti di noi. La conclusione sarà che è impossibile entrare nel Regno?».

«No! Gesù non dice che è impossibile, è solo molto difficile: è almeno tanto difficile quanto per una fune entrare per la cruna di un ago. È possibile solo se la fune sicura, forte e potente accetta di sciogliersi e disfarsi di se stessa, della propria identità al punto di dividersi e condividersi con gli altri. Divisa in mille fili, condivisa con altrettanti che non ne hanno nemmeno uno, così anche la fune può diventare un unico filo spogliato di tutta la sua forza: solo allora potrà entrare nella cruna dell’ago.

Entrare nel Regno non equivale certo ad entrare in Paradiso, nella Vita Eterna: quest’ultimo dono Dio può darlo come regalo insieme al nostro desiderio di riceverlo, ma entrare nel Regno significa entrare nella mentalità di Gesù, nel suo progetto di salvezza, nella sua politica che abbatte la potenza del potente e innalza l’umiltà del piccolo (il potente e il piccolo che c’è in ciascuno di noi). Entrare nel Regno di Dio significa dunque entrare nel suo cuore.

Se poi qualcuno fosse superficiale nel fare questo passo e pensasse che vendere i beni è solo una questione di economia, è bene che sia informato su tutte le conseguenze che implica voler entrare nel Regno di Dio e quindi nella sua mentalità. All’inizio della sua predicazione, Gesù ha cominciato a parlare del Regno nuovo e ha cercato di far capire che quel Regno non è gestito come i regni e gli imperi che comunemente conosciamo. Non è gestito con la forza, con il potere, con la violenza: è tutt’altra cosa. Diamo uno sguardo ai due regni: quello del mondo e quello di Dio».

«Il regno degli uomini ha palazzi e fortezze che devono scoraggiare i nemici: in India, una fortezza ha ventisei chilometri di strada al suo interno. La Muraglia cinese é lunga 7.500 Km. Il muro di sabbia e mine che divide Marocco e Algeria è di 2.400 Km. Gli eserciti degli imperi hanno soldati che devono essere forti, violenti, senza scrupoli. Durante le guerre mettono a ferro e fuoco i nemici con tutto ciò che loro appartiene, distruggendo ogni cosa senza fare distinzione tra palazzi, case, ponti, uomini, donne e bambini». «Caro Teofilo, sai bene che il primo Palazzo-Fortezza del Regno di Dio è stata una grotta-capanna della massima fragilità, a Betlemme. L’esercito del Regno di Dio è composto di uomini e donne, di molti giovani che si sono lasciati torturare, impiccare, segare, bruciare come torce per illuminare i giardini dei regni di questo mondo, altri che si sono lasciati macinare dai denti di animali feroci, che sono finiti inchiodati o squartati per divertire coloro che desideravano vedere la fine del cristianesimo. Il loro Re, che invita alla battaglia in prima fila, è un uomo crocifisso, Gesù Cristo. Il Regno di Dio è tutto questo.

Gesù cerca di far capire – senza riuscirci sempre – che entrare nel suo Regno, cioè diventare cristiani, significa fare il suo stesso percorso e in mille modi spiega che passerà dal Calvario attraverso una passione cruenta, portando una croce: chi vuol seguirlo dovrà caricarsi della propria croce e andare dietro di Lui. La madre di Giacomo e Giovanni gli chiede un grande favore: che i suoi due figli possano sedere nel suo Regno, uno alla destra e l’altro alla sinistra (potremmo dire uno Primo Ministro e l’altro Segretario di Stato). Gesù, senza rimprovero, dice solo: “Ma vi rendete conto di quello che chiedete?”. Ricorda ancora che seguirLo in tutto significa essere disposti a dare la vita come Lui e i due fratelli, baldanzosamente – non per nulla erano chiamati figli del tuono – accettano, ma con molta probabilità sono disposti a combattere al fianco di Gesù in una sperata guerra che Gesù stesso avrebbe dovuto fare per diventare il Re del mondo. I due fratelli, quindi, assicurano che saranno disposti a combattere in prima fila, all’arma bianca e quindi anche a morire per un Regno di quel tipo. Gli altri dieci s’infuriarono con i due, perchè anch’essi si sentivano dei soldati altrettanto valorosi, ma Gesù voleva aiutarli a capire che il suo Regno era ben altro».

«Per spiegare il nuovo Regno di Dio, Gesù aveva parlato con

molte parabole » osservò Teofilo.

«Sì, aveva paragonato il Regno a un granello di senape – tanto piccolo che quasi non si vede – anche se dentro ha una forza straordinaria per diventare albero. Gesù aveva paragonato il suo regno a un poco di polvere di lievito; pare nulla, ma dentro ha la forza di dilatare una grande quantità di pasta. Un certo giorno Gesù mise un ragazzotto nel mezzo, quello che nella casa è il più giovane, il servo di tutti, comandato da tutti, considerato senza valore alcuno perchè ancora piccolo. Non ha ancora nessuna importanza, anche se

ha dentro una forza che lo farà diventare un uomo: Gesù spiega che il Regno di Dio è come quell’adolescente, anzi si identifica con lui. E una parabola in particolare deve aver catturato l’attenzione dei discepoli di Gesù: quella della perla preziosa, per cui chi la trova è disposto a vendere tutto per acquistarla».

«Ma gli apostoli continuavano a pensare a preziosità come oro, argento, denaro, potere, etc. E come avrebbe potuto Gesù far capire che la Perla preziosa per Lui era la morte in croce? Sì, è una morte che comporta anche la Resurrezione, ma come spiegare questo prima che gli apostoli avessero avuto la possibilità di farne esperienza? E come si spiega che quando preghiamo o rivolgiamo le preghiere e invocazioni anche durante la liturgia chiediamo sempre di star bene, chiediamo la salute per noi, per i nostri parenti ed amici, la soluzione di tutti i problemi che ci fanno soffrire, la serenità e ogni benessere? Chiediamo la pace che è però la pace del mondo e non la Pace di Dio. Questa preghiera come s’incastona nella predicazione del Regno di Gesù?» rifletteva ancora Teofilo.

«Vedi, quando Isaia descrive il “Servo sofferente”, se non legge in una bolla di cristallo, descrive la strada dell’uomo giusto, di ogni uomo giusto e di ogni vero servo del Signore che è un uomo maltrattato, flagellato, caricato di sputi e di insulti. È vero che, quando chiediamo al Signore di essere giusti, di seguire il cammino della sua volontà e chiediamo che venga il suo Regno, noi non ci rendiamo conto che domandiamo tutte le conseguenze di un “Servo del Signore”, un “Servo sofferente” (quando chiediamo di essere degno Tempio dello Spirito Santo, in realtà chiediamo anche la conseguenza di diventare “verme di Giacobbe”).

Gesù stesso leggendo questi testi di Isaia li applica a sè quando preannuncia la passione e la preannuncia perchè sarà così per tutti coloro che vogliono seguire il cammino della giustizia e della verità. Penso sia per questo che ci dice di prendere la nostra croce e di seguirLo. La croce sarà diversa per ciascuno, ma il grido umano sarà lo stesso».

«Non ci rendiamo conto di ciò che desideriamo quando chiediamo di entrare nel Regno di Dio: appena un mal di denti ci ferisce, urliamo di dolore e una prova più grande ci può far perdere la fede in Lui e gridare che è cattivo. In realtà Dio ci dà semplicemente ciò che chiediamo tante volte nel Padre nostro: “Venga il tuo Regno” e “Sia fatta la tua volontà”».

Poi vieni e seguimi

«Mi ricordo di un prete brasiliano, quarantenne, il quale aveva accolto l’invito che il Signore gli aveva fatto di lasciare nuovamente tutto e vivere con gli zingari Calòn brasiliani. La Grazia di Dio gli aveva dato tutta la forza necessaria per lasciare una prestigiosa parrocchia e tanti amici. Da bravo figlio di Francesco d’Assisi, volle partire senza portare con sè nè zaino nè altre cose. Mentre era sull’autobus dove aveva speso gli ultimi soldi per il biglietto, iniziando il viaggio in piedi, appeso con una mano alla barra di sostegno, a un certo punto si rese conto di avere in tasca ancora qualcosa: un paio di calze. Allora le buttò immediatamente dal finestrino, come se fossero incendiate e mi disse che iniziò a sentire una pace e gioia così profonde, che non aveva mai sperimentato nella vita, prima di quel giorno.

Così una sorella in Italia mi disse che, prima di entrare in convento e vestire quell’altro abito che a lei non piaceva – ma rappresentava l’ubbidienza a una chiamata di Dio – raccolse i suoi vestiti più preziosi, preziosi al punto che nessuna donna povera avrebbe potuto vestirli, li guardò con gusto cercando di ricordare la gioia che le avevano dato, li accatastò e... fuoco! Mi disse che mentre bruciavano si sentiva alleggerire ed entrare in una dimensione che non si può spiegare a parole. Sia chiaro che le ultime due calze buttate dal finestrino e i vestiti bruciati non sono il nuovo Regno di Dio, ma dei sacramentali di esso».

«Padre, vorrei porre una domanda che può essere venuta in mente a molti: tanti cristiani, religiosi/e hanno beni per essere usati a favore dei poveri: sono anch’essi scomunicati?».

«In primo luogo, non sono così tanti e, se ci sono, devono aver fatto i tre passi proposti da Gesù al giovane ricco. In qualche momento di grazia devono aver bruciato tutto o venduto tutto o comunque consegnato tutto. Se poi, seguendo Gesù, Egli stesso chiede di provvedere pane e pesce per cinquemila uomini, donne e bambini, si può e si deve farlo. Non possiamo però dimenticare che la quantità di pane e pesce riferita dal Vangelo, pur essendo un grande bene anche economico, non è però una proprietà privata nelle mani dei discepoli ma, semplicemente, passa nelle loro mani senza fermarsi e va direttamente ai poveri: senza raffreddarsi, quei pani e pesci passano nei loro canestri. Anche San Paolo non condanna i beni, ma invita a usarli come non fossero nostri, come se non ci appartenessero. Quindi, se hai avuto la grazia di fare i passi richiesti al giovane ricco e adesso ti trovi ad amministrare dei beni, di tanto in tanto devi ripetere in modi diversi la consegna dei beni per non appiccicarti nuovamente ad essi».

«Come fare questi distacchi?».

«Dapprima accettando i distacchi forzati, che possiamo accettare perchè non abbiamo alternativa, oppure offrendoli con serena rassegnazione, o ringraziando per averli ricevuti. Per questo terzo tipo di offerta ci aiuta la testimonianza di un ragazzino giapponese di soli 11 anni, il più giovane in un gruppo di 26 crocifissi a Nagasaki il 5-2-1597: la liturgia lo ricorda il 6 febbraio con San Paolo Miki e compagni, martiri. Jap, il più giovane del gruppo, era figlio di una famiglia buddista. Un giorno era entrato in una chiesa cristiana dove sentì parlare di Gesù Cristo. Tornato a casa, chiese alla madre se gli permetteva di tornare in quella chiesa. La madre acconsentì e il giorno dopo, alla stessa ora, tornò là, dove incontrò Padre Paolo Miki, che predicava ai suoi compagni preparandoli al probabile martirio. Jap fu affascinato da questo Gesù che si era lasciato crocifiggere per darci una vita eterna e che anche noi avremmo

potuto dare la nostra vita a Lui in ringraziamento.

Il terzo giorno Jap tornò alla chiesa, ma la trovò chiusa con un militare alla porta che, quando seppe che voleva entrare, lo invitò a scappare in fretta. Jap insistette. Il militare gli spiegò che la chiesa era diventata una prigione per il gruppo di cristiani che sarebbero stati probabilmente uccisi. Non sappiamo con quali ragioni il bambino abbia potuto far valere il diritto di entrare in quella chiesa-prigione, il fatto è che riuscì a farsi introdurre, sapendo certamente il rischio che correva. Quel giorno e tutta la notte pregarono e cantarono. Jap ricevette il battesimo. Verso il mattino alcuni militari entrarono e fecero ancora la proposta di rinunciare alla loro fede in cambio della libertà, ma nessuno accettò. Ai 26 cristiani fu amputato un orecchio. Jap non diede alcun segno di dolore, per timore di non essere ammesso. Al mattino, con i militari, il gruppo fu condotto a Nagasaki. Le 26 croci erano già pronte. Quando Jap ne vide una più piccola delle altre, capì che era per lui. Appena furono slegati, Jap si staccò e corse verso la sua, l’abbracciò e la baciò prima di essere crocifisso e infine appeso alla croce. La sua gioia di essere associato alla passione di Gesù, con i suoi compagni, stupisce ancora oggi.

Questa testimonianza, come migliaia di altre nella storia della Chiesa, ci mostra come possiamo accogliere le sofferenze che vengono messe spesso sul nostro cammino dal buon Dio perchè non ci appiccichiamo troppo alla terra. Poi ci sono i distacchi volontari. Anche se vivi in una casa di altri (o una casa religiosa) troppo ricca, nessuno ti può ostacolare nel digiunare dai cibi o dal sonno per fare spazio alla preghiera nella notte. Non incolpare mai altri con la scusa che sono loro a impedirti di essere povero/a».

«Nessuno, a questo mondo, può quindi precluderci la povertà evangelica. Bisogna difendersi dagli alibi che spesso ci impediscono di vedere la realtà così com’è».

«Una sorella mi diceva: “Sono proprio fortunata: mi sento veramente povera. Non ho nulla, assolutamente nulla”. Ed era vero, nel senso che non aveva delle proprietà registrate a nome suo, ma cominciando dal mattino: dentifricio, sapone, shampoo, acqua calda per una doccia ristoratrice dopo un buon sonno fatto in un letto, vestiti puliti, etc., cibo abbondante (ovviamente per poter lavorare di più, ma è diverso dal non avere). Questa sorella, che diceva e credeva di essere povera, in realtà non sapeva minimamente cosa fosse la povertà. Ho un amico che ama far foto e dipingere. Egli mi ha confidato che offre la decima dei suoi beni – come facevano già gli ebrei – al Signore. Tra dieci foto ne sorteggia una e su dieci quadri

pure e li brucia. Mi spiegava che fa questo per non attaccarsi a nessuna di queste sue “creature” che ama tanto.

Uno zingaro diventato francescano, dopo alcuni anni di lavoro pastorale, incontrando anche molti poveri si è accorto che si stava affezionando troppo al frutto di un suo hobby: aveva infatti trentacinque volumi di francobolli, selezionati con cura e scrupolo filatelico e una raccolta numismatica molto preziosa, tra cui oltre quattrocento monete, tutte in oro e argento, di grande valore numismatico (in parte arrivate da una preziosa eredità). Si accorse che non era più libero di fronte a questo tesoro. Consegnò il tutto a un’istituzione caritativa e iniziò nuovamente la collezione».

«Il problema è dunque l’attaccamento alle cose» notò Teofilo.

«Ti racconto un fatto capitato proprio a me. Qualche anno fa arrivai all’aeroporto di Roma, ma rimasi senza bagaglio. Tra l’altro avevo messo per sbaglio in valigia un’agenda con oltre quattrocento indirizzi. Andai a compilare il modulo di denuncia per lo smarrimento e con me c’erano altre nove persone: alcune isteriche, altre visibilmente tese o molto nervose. Ad un certo punto, una signora mi chiese: “Ha perso anche lei il bagaglio, vero?”. Annuii e lei proseguì quasi aggredendomi: “E non le importa nulla di non averlo trovato?”. Con discreta calma, le risposi: “Vede, signora, fra qualche tempo arriveremo a un aeroporto e sarà l’ultimo, non ci sarà più nessun bagaglio; non dico un bagaglio da venti chili, ma quello della casa, dei campi, delle proprietà, il bagaglio dove c’è il libretto degli assegni e tutti i soldi in banca, ma anche il bagaglio di figli, amici e di tutte le cose più preziose. Non ne arriverà uno, non

arriverà nulla, assolutamente nulla. Vero che venti chili non sono una gran cosa?”. Ti assicuro che la signora mi ascoltò, anche se in un momento di caos, e si calmò. In questo modo ci rendiamo conto come tutti i distacchi, sia quelli scelti, sia quelli forzati ma accettati, ci accompagnano al nuovo Regno».

«Svuotare il cuore dei beni del mondo, significa quindi predisporlo a lasciarlo riempire di Dio stesso con tutto il cuore e con tutta l’anima e predisporlo ad amare come Gesù ha amato».

La grande povertà

«Padre, la povertà evangelica descrive il messaggio di Gesù come guarigione o redenzione dell’umanità. La storia del giovane ricco ci introduce a comprendere le beatitudini, “beati i poveri” e le altre, quindi offre un tassello in più per comprendere la povertà evangelica che, insieme alla castità e all’ubbidienza, ci prepara a guardare a Gesù crocifisso e a giungere al mistero della Resurrezione».

«Parlare oggi di povertà evangelica non consente di escludere la dimensione politica di Gesù e siamo forzati a guardare al nord e al sud del mondo, a coloro che vivono con una quantità eccessiva di risorse e con sempre più bisogni per soddisfare la loro vita e a coloro che vivono sotto la linea della povertà, senza il necessario per una vita dignitosamente umana. Gli uni e gli altri leggono lo stesso Vangelo, partecipano alla stessa Eucarestia e gli uni e gli altri li chiamiamo cristiani. Anche i meno sensibili, però, possono intendere che c’è una grande contraddizione».

«Quando Gesù dice: “Beati voi poveri” non vorrà significare: “Non credetevi così disgraziati come vi sembra e come sembra ai ricchi, ma sappiate che per me siete importanti, siete amici, siete miei figli. Carissimi, comincio col dirvi che la vostra dignità è la stessa dei santi, voi siete amati da me per questo, vi ripeto che non siete disgraziati ma beati”?».

«Questo discorso oggettivo spesso non è compreso nè dai poveri, nè dai ricchi. Solo la solidarietà autentica – e non l’elemosima – può curare il povero dalla miseria e dall’oppressione, aiutandolo a prendere coscienza di esistere come uomo o donna e capire più facilmente di essere amato da Dio, di cui è figlio».

«In questa convivenza di chiesa ricca e povera, chi avrà il coraggio di parlare di chiesa-popolo di Dio? Come facciamo a sentirci fratelli e sorelle, tutti figli e figlie dello stesso Padre e nostro Dio se gli uni siamo ricchi e gli altri sono poveri?» incalzò Teofilo.

«Ho parlato di solidarietà, ma non è sufficiente, anche se chi vuole raggiungere la povertà evangelica dovrebbe aver già praticato precedentemente la solidarietà. La povertà evangelica è ancora a un passo oltre la solidarietà. Sì, la solidarietà di un Camillo de Lellis, padre Damiano, Roul Follerau e sua moglie, madre Teresa e tanti religiosi, papà, mamme e giovani che anche noi conosciamo è stata dipinta dai loro biografi o comunque da chi ha scritto su di loro con toni epici. I biografi hanno raccontato di come si sono comportati questi santi quando hanno fatto ciò che il giovane ricco del Vangelo avrebbe dovuto fare come primo passo. Essi, infatti, in modi diversi, hanno venduto i propri beni e li hanno dati ai poveri, ma la vera

povertà evangelica si situa oltre il: “Poi vieni e seguimi”. Per questo gli scrittori di vite di santi spesso si sono limitati a lasciarla in secondo piano, scambiandola semplicemente con la solidarietà o addirittra dimenticandola».

«Padre, mentre vi ascolto, comprendo sempre più che essere poveri è una grande grazia, ma una delle tante, mentre essere ricchi è la peggiore delle disgrazie».

«Le beatitudini sembrano essere l’introduzione per prepararci a capire il grande grido: “Guai a voi ricchi!”. Il vero problema per Gesù è la ricchezza: chi si attacca ai beni, si allontana da Dio e dal prossimo, diventa cieco e sordo al grido di chi soffre. Chi è povero merita di entrare nella mentalità di Dio, cioè nel suo Regno, ma chi è ricco merita la peggiore delle condanne. Ci aiuta a capirlo la parabola del ricco Epulone, il quale merita la massima delle punizioni.

Un teologo sostiene che Francesco d’Assisi è semplicemente un cristiano che ha vissuto la povertà evangelica e si domanda: “Cos’avrebbe fatto se, avendo tanti soldi, non avesse trovato nessun povero a cui darli?” e risponde che li avrebbe buttati in qualche crepaccio della roccia nel bosco, ma non li avrebbe tenuti. Se Francesco lascia la ricca casa di suo padre e consegna al Vescovo gli stessi abiti che veste; se preferisce mendicare anzichè portare il cibo ai poveri e, ancora, se un giorno comincia a distruggere il tetto del convento, fa questo e altro non tanto per diventare povero, ma per evitare nel modo più assoluto di restare o diventare ricco».

«E, per metterci in guardia dalla ricchezza che ci incolla alle cose per staccarci da Dio, non c’è forse una grande tentazione, posta sul nostro cammino proprio perchè la vinciamo e diventiamo evangelici?» il volto del giovane monaco s’illuminò all’improvviso.

«Certo, caro Teofilo. Si tratta di un rischio strano, ma reale: l’attaccamento alle nostre povertà. Le tentazioni in questo settore sono molto sottili: comincio col rispondere all’invito di essere solidale con gli altri e lo divento con uno, con tanti, poi posso coinvolgere uno, due, tanti ad essere solidali come me. Possiamo diventare un’istituzione di solidarietà e cominciamo a fare dei veri e propri miracoli. Impieghiamo alcuni mesi per far alzare e camminare un paralitico, alcune settimane per far vedere un cieco, ma con la buona volontà questi “miracoli” cominciamo a farli anche noi. La buona volontà ci entusiasma e noi entusiasmiamo gli altri. I vicini, il mondo e coloro che vanno sempre a caccia di notizie sensazionali si accorgono di noi, scrivono di noi, ci fotografano, parlano bene di noi in fin di bene, proprio perchè il bene che facciamo si estenda a tanti: questo è il tranello.

In certi casi, la solidarietà può diventare la peggior nemica della povertà evangelica. L’orgoglio e semplicemente la gioia di fare del bene possono farci dimenticare che non siamo noi gli operatori di bene, ma la grazia di Dio in noi. Non siamo noi che convertiamo, è lo Spirito Santo che cambia l’anima degli altri, ma possiamo illuderci di essere noi con la nostra intelligenza, creatività, forza e buona volontà che compiamo azioni di solidarietà e quindi di fatto diventiamo apparentemente poveri, ma attaccati a queste povertà che ci allontanano dalla povertà evangelica, se il nostro cuore non è puro.

Del resto, fare grandi opere di bene, di solidarietà con umiltà, restando poveri nello spirito, è quasi umanamente impossibile; diventa possibile solo con una grande grazia di Dio. È più vicino al Vangelo chi dà un bicchiere d’acqua a un fratello con umiltà di chi manda cento aerei carichi di cibo con orgoglio».

«Fare, costruire, produrre è relativamente facile se si hanno materia prima, forza e denaro, ma come fare a non fare?».

«Sì, anche le missioni sono piene di questa produzione, ma è difficile, molto difficile buttarti tra la gente nudo, senza nulla, solo con il tuo tempo da regalare, la tua amicizia gratuita, la tua attenzione alle lacrime degli altri e, ancora di più, al loro sorriso. Spogliato, chiederai vestiti per andare insieme a vestire chi ha freddo. Nella carestia chiederai l’elemosina per portare il pane a chi è povero come te. Assetato, scaverai il pozzo con gli amici perché l’acqua non manchi almeno ai bambini».

«Adesso mi rendo conto che possiamo solo chiedere grazia su grazia per ottenere il dono della povertà evangelica, cioè quella di Gesù» e Teofilo si raccolse in preghiera.

Castità e obbedienza

Dopo alcuni giorni di raccoglimento nell’eremo ormai deserto, alla fine dell’estate, Teofilo tornò dallo starez per approfondire le sue riflessioni sulle virtù indicate da Gesù nel Vangelo.

«La povertà evangelica si completa con due altre grandi virtù: la castità e l’obbedienza, che la integrano e sostanzialmente la arricchiscono. La castità non è rinuncia alla famiglia, ai figli, all’affettività, ma è semmai l’affettività e l’amore coltivati per una famiglia estesa, se siamo dei consacrati o è l’affettività e l’amore vissuti come sposi o genitori o figli, chiedendo sempre grazia su grazia per non vivere esclusivamente per noi stessi, per non coltivare i nostri egoismi che sono le principali tentazioni contro la castità. Ecco quindi che la povertà evangelica è casta, non si appartiene, è sostanzialmente la virtù dell’amore, la virtù che ci indica tutte le strade per legarci a Dio e agli altri senza possesso e senza frustrazioni, ma con una libertà sincera. È la virtù del tutto-per-te e non del tutto-per-me».

«Ma, Padre, quando si parla di castità generalmente si parla pure di sessualità, dell’impulso biologico e affettivo per legarci all’altro/a, da vivere nella gioia di poter donare specialmente la vita».

«La sessualità nella vita consacrata è anche offerta e, se vogliamo usare l’espressione “sacrificare la sessualità” per Dio o per il prossimo, dobbiamo tradurre sacrificare con “rendere sacra” quindi rendere sacra la sessualità per offrirla a Dio e ai fratelli. Anche gli sposi che vogliono vivere la castità devono “rendere sacra” la sessualità per offrirla a Dio e allo sposo/a. La castità ci aiuta quindi a scoprire che, anche quando amo Dio, posso usare la parola amore come eros, termine greco che traduce tutta l’energia di corpo e anima impiegata per amare. Quando poi ci troviamo di fronte al celibato o alla verginità, dobbiamo riconoscere che l’uomo o la donna che hanno fatto tale scelta testimoniano che Dio non è un fantasma, ma un vivente: non ci si innamora di un fantasma o di un’astrazione».

«Quindi l’amore, da umano, diventa divino e viceversa?».

«Quando tutti gli impulsi dell’eros affluiscono nell’umano, chi ha Dio come amante testimonia che Lui è un vivente. Ma c’è ancora una ragione. Mons. Luciano Mendez, presidente della Conferenza Episcopale brasiliana, parlò della ragionevolezza del proprio celibato a un gruppo di preti: “Da sposato non potrei lavorare così tanto nella parrocchia, avendo come primato la responsabilità di una famiglia? No, perchè saremmo addirittura in due a dividerci gli impegni. Da sposato potrei pregare di meno? Non c’è ragione per affermare questo! L’esercizio della sessualità nel matrimonio aperto alla vita, portatore di gioia e piacere, non energetizza la coppia dando una forza in più, una gioia in più, un coraggio in più nell’affrontare le difficoltà? Penso che nessuno possa negarlo. Dovrei concludere che la vita coniugale è più ricca di quella del celibe.

Rimane un vantaggio nella mia vita di celibe, concluse Mons. Mendez. Se incontro un giovane che desidererebbe immensamente sposarsi ma non può – per malattia, per un’impotenza sessuale, perchè fratelli e sorelle di maggiore età hanno un certo diritto in più, perchè è povero e non riesce ad affrontare la responsabilità di mantenere una famiglia e per altre cause ancora – posso dirgli: anch’io sono come te. Vedi che la vita non ha un solo modo di esprimersi, ne ha molti. Vedi come vivo io? Potresti vivere anche tu in modo simile, occupandoti seriamente nel volontariato e bruciare la vita lavorando per i più poveri, per chi non ha più forza, per chi non ha più coraggio. Ecco: il mio celibato é ragionevole, specialmente per la mia solidarietà con chi è celibe non per scelta”.

In conclusione, il celibato o la verginità non sono una ricchezza in più. In questo stato di vita non ci sono vantaggi particolari, ma semmai una povertà in più dal punto di vista sociale, umano, dal punto di vista di una minor energia: proprio perchè non si esercita la sessualità nella gioia della famiglia è però una povertà che mi avvicina con le mie mani vuote alla povertà evangelica, alle mani di Gesù vuote che stringono soltanto più i chiodi”».

«Padre, ditemi una parola sull’ubbidienza, che è pure una grande povertà, certo una delle maggiori. Perchè ubbidire a un uomo o a una donna? Il religioso-a ubbidisce al suo superiore, il prete al Vescovo e, nella coppia di sposi, l’uomo e la donna si ubbidiscono a vicenda».

«Quando un consacrato fa il voto o la promessa di ubbidienza a una persona che riconosce come suo/a superiore/a, in quel momento Dio s’impegna a far sì che, quando questo figlio/a ubbidisce anche a un comando non comprensibile o non del tutto ragionevole, quell’ubbidienza diventi un percorso sicuro che porta al Regno. La ragione di questa affermazione è in Gesù stesso.

Gesù è un ebreo, e come tale ha dei superiori. Il gran Sacerdote è il suo superiore come lo è il Sinedrio. A un certo momento della vita, Lui può dire: “I miei superiori non mi capiscono, i miei superiori mi vogliono condannare, mi stanno mandando in croce”. Eppure Gesù, come ebreo santo, ubbidisce. Spesso diciamo che Gesù ha fatto la volontà del Padre, ed è giusto, ma non per ciò che si riferisce all’oggetto dell’ubbidienza. Gesù ha ubbidito a uomini in carne e ossa con intelligenza e bontà limitata. Gesù ubbidisce sulla terra. La volontà del Padre non è che il Figlio vada sulla croce, ma che il Figlio sia ubbidiente, ubbidiente ai suoi superiori sino alla fine, sino alla morte in croce. In certi casi, forse in molti, l’ubbidienza può apparire peccato di irresponsabilità e pigrizia nel gestire invece una delle più grandi responsabilità umane, che è la propria libertà di fare il bene. Ma, se vissuta coscientemente ad imitazione del Cristo, può diventare la massima povertà, in grado di svuotare le mani di una delle più belle preziosità che fa di noi degli uomini e delle donne: ecco la grande povertà che ci accompagna alla povertà evangelica».

La confessione di Teofilo

La pioggia di fine autunno flagellava da tempo le solide mura

dell’eremo quando Teofilo, al riparo nella sua cella, quella sera prese

a scrivere sul suo taccuino:

Signore, nella vita io continuo a offrirti delle monete e tu continui a rifiutarle e me le ributti in faccia, dicendomi che non t’interessano. Continuo a chiederti di aiutarmi a superare le tentazioni, specialmente le piccole, quelle di tutti i giorni, quelle nelle quali inciampo ogni momento. Ecco i peccati che credo di avere e di cui ti prego di liberarmi: i peccati contro la povertà, la castità e l’ubbidienza alla tua volontà. Mi lamento dei miei attaccamenti a piccole cose e spesso non riesco nemmeno ad aiutare chi chiede soccorso con la scusa di non sapere che tipo di soccorso domanda veramente o se finge di chiedere un’elemosina per poi assaltarmi del tutto; è il peccato del soprappiù che incontro nella mia vita che a volte mi pesa e mi fa sentire incoerente.

Ecco alcune monete che vorrei saperti dare, Signore, e quando riesco a dartene qualcuna, Tu me le ributti in faccia e mi dici che non vuoi delle monete da me, ma il mio tesoro. Ed io non capisco. Ti chiedo poi, come San Paolo: “Perché faccio il male che non voglio e non faccio il bene che voglio?”. E ti chiedo di liberarmi dalle tentazioni contro la castità: ecco i miei pensieri stupidi, i desideri e le tentazioni dei commercianti del mondo che mi spingono sempre a curiosare tra le sue immagini, le sue proposte, i suoi colori, le sue musiche, i suoi spettacoli. Sempre mi tentano di curiosare se incontro qualcosa per farmi felice, perché ho bisogno di felicità, il tempo passa e corre in fretta e in me diventa sempre più forte la

malinconia di non essermi divertito, la paura di non sapermi divertire più, di perdere le feste che i commercianti del mondo mi propongono.

Eppure io ho promesso a te, Signore, che non volevo vivere di queste cose, ma solo per Te; questo grido mondano nella mia carne mi divide e vorrei superarlo. E vorrei poterti offrire ogni giorno le mie consegne con coerenza, essere vincitore su tutte queste tentazioni, e quando ci riesco mi pare di avere finalmente qualcosa da offrirti. Ecco altri peccati che credo di avere: quelli contro l’ubbidienza alla tua volontà. Io conosco le cose che mi chiedi e sono pigro, mi ribello, contratto con te i tempi della preghiera.

Spesso ho cose da fare, ho molte cose da fare, importanti e urgenti, che mi scusano di celebrare in fretta i tempi che avevo promesso a te. Saranno così importanti le cose che credo di dover fare? Se per milioni di anni io non le ho fatte e tra milioni di anni io non ci sarò più a farle, saranno tanto indispensabili da non poter essere dilazionate? E spesso mi sento frustrato, perché vorrei avere più monete da darti, essere più generoso, più attento, più vero, e quando riesco a fare in parte questo e a darti qualcuna di queste monete, tu me le tiri in faccia e mi dici che vuoi il mio tesoro, perché là c’è il mio cuore. Ed io continuo a non capirti...

Ma forse oggi, dopo la mia confessione, mi dirai qualche parola nuova: “Figlio, i tuoi peccati contro la povertà non sono quelli: fin quando ti occuperai dei poveri o ti preoccuperai di non occupartene, o fin quando piangerai per non riuscire a fare una coerente scelta per essi, e fino a quando tu pregherai per i poveri, tu starai ancora cercando monete da darmi, che io rifiuterò. Tu sarai ancora al di là della barricata e non farai parte dei beati. Quando, invece, non avrai più nulla e sarai tu a chiedere l’elemosina; quando qualcuno ti hiederà il pane e tu, a tua volta, chiederai ad altri se hanno qualcosa da darti; e quando, ricevendo cinque pani e due pesci, li darai ancora agli altri, allora io compirò miracoli e tu sarai beato.

Figlio, chiedi pure di essere liberato dalle tentazioni contro la castità. Assomigli a certuni che fanno lunghi esercizi per dimenticare il corpo e la materialità di loro stessi. Ti lamenti di non essere totalmente insensibile ai richiami dei commercianti del mondo, ma questa è soltanto un’eco lontana, quasi impercettibile, che tu credi ancora di sentire. Il tuo vero peccato contro la castità è che la tua carne è morta, il tuo corpo è diventato insensibile al grande grido urlato del mondo. Tu non reagisci più, non senti più che gli altri esistono davvero e nella tua ascesi, con la pretesa di avvicinarti a me che sono il tuo Dio, ti sei solo allontanato da essi, dai tuoi fratelli, sorelle, figli e figlie. Sei diventato infecondo e impotente, senza più la forza di trasmettere la vita al mondo che grida aiuto, immerso nel grande terremoto sociale.

Il tuo peccato è che hai rinunciato alla paternità, ad avere dei figli e sentirti responsabile per essi, specialmente per gli indifesi; e tu non li senti più, non li vedi più: ti passano davanti solo sullo schermo della televisione o sfogliando il giornale, ma non t’interpellano più di tanto. Sono “altri” da te, e non vuoi assumerti la tua paternità responsabile; ti dimentichi che sono carne della tua carne. Figlio, la castità è una virtù attiva e non passiva, è la virtù dei vivi e non dei morti. Non è una virtù di anestetizzati, di ipnotizzati, ma dei lottatori e dei rivoluzionari, che hanno la forza di mettersi in prima linea di fronte al pericolo per difendere gli altri.

Quando, davanti alla condanna a morte, un giovane pianse per la moglie e i figli, e un prete si fece avanti dicendo all’aguzzino: “Lascia libero lui, vado io a morire al suo posto”, in quel momento il celibe si è assunto la responsabilità di quei figli e di quella moglie: non ha rinunciato alla vera paternità, li ha fatti suoi e, per difenderli, ha mandato a casa il loro papà e marito. Il celibe non ha rinunciato ad essere fecondo, per questo è morto per loro. Adesso capisci perché non m’interessano le tue monetine, né quando le spendi male, né quando riesci con mille sforzi a risparmiarle per darmele: io voglio il tuo tesoro, perché la c’è il tuo cuore. Figlio, tu mi vuoi pure dare le monete dell’ubbidienza; dici di

conoscere i miei desideri e invece ti senti negoziante del tempo per me, quando il tempo non ti appartiene. Ebbene va’, butta via l’orologio, il breviario; getta all’aria il messale, il pane, il vino, tutto quello che hai nella sacrestia, i libri di devozione, se ne hai: tutto; poi vieni qui disarmato, vieni qui a sederti un poco accanto a me, che sono il tuo Dio. Smetti di celebrare la Messa, smetti tutto e considerati sospeso a divinis, perché sei diventato un agitato del tempo; occupati solo di venire, senza preoccupazione di orari, vieni da solo, senza libri, che ti suggeriscono le cose da dirmi – ti immagini un fidanzato che legge su un libro le parole dolci e adatte da dire a lei? – senza oggetti sacri, senza incenso, senza parole. Vieni tu, da solo, porta solo il tuo cuore. Ho qualcosa da dirti o, meglio, da darti. Ho del fuoco da mettere nel tuo cuore, e se questo riuscirà ancora a bruciare e incendiarsi tu sarai salvo.

Se, tornando nella tua vita quotidiana, invece di dire: “Mancano ancora cinque minuti prima di finire l’ora di adorazione”, riuscirai a rallegrarti: “Signore, che bello! Ho ancora cinque minuti per stare qui”; e se, terminato il tuo tempo di preghiera, qualche volta comincerai a ripetere: “Signore, mi permetti di stare ancora cinque minuti qui? Lo so che mi fai pressione per il servizio, ma concedimi ancora cinque minuti, poi vedrai che recupererò e non lascerò mancare nulla al lavoro che mi chiedi per i miei figli”, ecco, quando comincerai a pensare così col cuore, allora potrai nuovamente prendere il breviario, ricollocare i segni al giorno, alla settimana, agli inni, alle memorie dei santi. Poi riprenderai il messale, raccoglierai il pane e il vino da dove li avevi buttati; li riprenderai con rispetto e li collocherai sulla tovaglia dell’altare tra le candele, l’incenso, le luci, la musica e i canti. E sarai riammesso ad alzare il

calice della salvezza e a invocare il nome del Signore, perché non ti preoccuperai più delle monete, in quanto il tuo tesoro, che é il tuo cuore, sta già bruciando”. Amen.

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[5]

Lc 18,18-23; Mt 19,16-22; Mc 10,17-22.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo X

IL COMANDO NUOVO

pag. 154-171

Non sono venuto per i sani

«Caro Teofilo, come ben sai, nell’amore cristiano c’è una dimensione radicalmente nuova, predicata da Gesù e specialmente vissuta da Lui. Alcuni testi possono disporci a comprendere questo nuovo comando. Quando Gesù disse che non era venuto per i sani, ma per i malati, la seconda affermazione: “Non sono venuto per i giusti ma per i peccatori” diventò più comprensibile. E a chi gli chiese quante volte occorre perdonare, rispose che bisognava perdonare sempre (settanta volte sette). Perdonare non vuole soltanto dire perdonare un’offesa, ma continuare ad amare nonostante le offese ricevute. Volendo descrivere l’amore cristiano, San Francesco scrisse queste parole in una lettera a un confratello:

E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo e tuo servo, se ti comporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo il quale, avendo peccato quanto è possibile peccare, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non lo chiedesse, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: perchè è peccatore, perchè è sbagliato dalla testa ai piedi. Proprio perchè è peccatore ha bisogno di amore. Non devi amarlo nonostante sia peccatore, ma proprio per quella ragione, perchè è tutto ferito dagli sbagli e peccati fatti. Tu dirai che è una disgrazia ed è vero, ma è anche una grande grazia che lo Spirito Santo ha posto vicino a te per allenare il tuo cuore a diventare cristiano, perchè se ami solo quelli che ti amano, questo non viene considerato, ma solo se amerai chi non è capace a voler bene o non ti ama nel modo in cui ti aspetti. Ti aspetti questo gesto e te ne arriva un altro, ti aspetti una parola e ne arriva un’altra. In questo modo tu attirerai il fratello al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.

Il primo impatto con questo testo ci può lasciare un momento sconcertati. Francesco dice esattamente ciò che dice il Vangelo, semplicenente con un linguaggio diverso e forse più vicino a noi. Se uno ha peccato quanto è possibile peccare merita ancora il tuo perdono. Se quindi uno ti ha offeso: ha parlato mille volte male di te, ti ha diffamato dicendo il falso contro di te, buttandoti nell’umiliazione e nella vergogna di fronte a tutti, se uno quindi ha tentato mille e più volte di farti del male perchè ti ha odiato e ha desiderato la tua morte o ha attentato alla tua vita o ha fatto fallire tutti i tuoi progetti a causa di invidia e gelosia, se sei cristiano devi continuare a perdonare questa persona. E perdonare significa che devi continuare ad amarla».

«Ma Padre, se questo prossimo è tua moglie o tuo marito, che non ti rispetta più, che ti ha tradito/a, che ha preferito un’altra persona a te, che ha distrutto l’onore della tua famiglia e con i suoi vizi ne ha provocato il fallimento economico e morale; e, inoltre, se a causa sua hai perso i tuoi figli e poi ancora... se sei cristiano/a devi continuare ad amare?».

«Sì, se sei cristiano/a non hai alternative, devi continuare ad amare. Francesco sottolinea soltanto la ragione, già chiara in Gesù: “Devi amarlo/a proprio per questo”. Proprio perchè è sbagliato dalla testa ai piedi, proprio perchè è diventato criminale incallito, proprio per questo devi amarlo e non per altre ragioni. Nemmeno perchè sei buono o puoi trovare attenuanti nella malvagità di questo tuo prossimo: devi amarlo perchè lui è malato. Dirò subito che amare non significa sempre accarezzare o dire parole dolci (c’è sia il consiglio, sia la punizione, ma solo perchè l’altro guarisca).

Immagina una madre con tre figli: uno sano, un altro malaticcio e un terzo gravemente malato. Il terzo è a letto, ha dolori fortissimi con febbre e rischia di morire a ogni istante. La madre ama tutti e tre i figli, ma il secondo ha certo più bisogno di attenzione del primo e il terzo ha più bisogno di cure e affetto di tutti e tre. La madre deve

passare lunghe ore seduta accanto al letto del terzo figlio malato. Deve confortarlo e animarlo più di ogni altro. Se il primo figlio è intelligente, non si sentirà escluso anche se vede sua madre dedicare tanto tempo, cure, carezze, baci e affetto al fratello malato. Perchè la madre deve ‘amarlo’ di più? Solo per una ragione: perchè è malato.

Fai ora un secondo passo, che anche un adolescente sveglio può capire. C’è una madre con tre figli: il primo è molto buono: è diligente a scuola, fa i lavori prima che la madre glieli comandi. Ogni mattina va in chiesa, aiuta gli altri, forse è anche in seminario: è un figlio proprio fortunato. C’è poi un secondo figlio. Questi non è nè un santo, nè un criminale. Di tanto in tanto fa le sue scappatelle. Non è proprio un bravo ragazzo, ma poi si recupera. E c’è il terzo figlio: un vero criminale. Comincia a ubriacarsi, poi il fumo, la droga pesante, amicizie sbagliate, prostituzione, poi rapine, omicidi, etc. Oggi è un giovane che tutti additano per parlarne male. Chi di questi tre figli ha più bisogno di amore da sua madre?».

«Certo, tutti e tre hanno bisogno di essere amati, quello molto buono, quello buono per metà e quello criminale, ma se ce n’è uno che ha più bisogno degli altri di affetto, di attenzione, in una parola, di amore, questi è certamente il terzo».

«E perchè il terzo figlio ha più bisogno di essere amato? Solo perchè è cattivo. Questa è la ragione sufficiente, non per il fatto di meritare più amore, ma per avere più bisogno di amore. Se questa madre vuole seguire le orme di Gesù, amerà più di tutti questo figlio

e la ragione è solo una: è un cattivo, un malato, è come il figlio del Vangelo che pascola i porci, è la pecora perduta, la moneta smarrita. A poco a poco si spiega così il testo francescano: “Se questo tuo fratello peccherà mille volte davanti ai tuoi occhi, devi amarlo proprio per questo”. Perchè ha peccato? Sì, proprio per questo. Gesù l’ha detto chiaramente: “Se amate solo coloro che vi amano e fate del bene a coloro che vi fanno del bene... che merito ne avete? Anche i pagani (i non cristiani) sono capaci di far questo... ma voi amate i vostri nemici”, ossia coloro che non vi sanno amare o vi amano in modo sbagliato».

«Per questo a Gesù – che riduce tutti i comandamenti a due: amare Dio e il prossimo – viene chiesto: “Ma chi è il prossimo che devo amare?”».

«Nella domanda entra in gioco la comprensione della novità di Gesù e della sua predicazione. Per gli ebrei, infatti, non era così scontato chi fosse il prossimo da amare. Per quelli di stretta osservanza, il prossimo era solo chi era fedele alla Torà, a tutte le leggi – anche le più piccole – che scaturivano dalla Grande Legge di Mosè, mentre per gli altri il prossimo era costituito dagli ebrei, almeno dai circoncisi, non certamente dai nemici, che si dovevano invece combattere. Per Gesù, il vicino è ogni persona che io posso raggiungere e che mi può raggiungere. Alla domanda: “Chi è il mio prossimo?”, Gesù risponde parzialmente, in modo che possa capire anche un bambino, raccontando la parabola del buon samaritano, che in altre parole dice: “Se qualcuno fa un incidente e tu lo soccorri portandolo all’ospedale, ti comporti da prossimo, o meglio da buon prossimo”. Ma, in maniera piena, risponde quando è sul Calvario. Proprio là Gesù dice chi è il suo prossimo. Mentre lo inchiodano e preparano la sua morte, Gesù non solo non inveisce contro i crocifissori, ma li difende di fronte al Padre: “Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”. Gesù sta dando la vita per quei giovani che lo crocifiggono. Gesù li ama più di tutti, perchè sono coloro che su quel monte compiono l’azione più criminale di tutta la storia. Saranno additati per tutti i tempi come i peggiori: per questa ragione Gesù li ama e insegna a noi come e chi dobbiamo amare».

Ama Dio e il tuo prossimo

«Padre, allora noi dobbiamo amare Dio nel nostro prossimo, che è il nostro vicino e proprio perchè è il più vicino a noi?».

«Gesù arriva alla sintesi. Ad alcune grandi sintesi. Di tutte le disquisizioni teologiche ebraiche, Gesù giunge all’essenziale: “Chi vede me, vede il Padre”. Delle grandi e lunghe preghiere, Gesù propone il nocciolo: “Pregate così: Padre nostro...”. E tutta la morale, la Legge è ridotta alla sintesi: “Ama Dio e il tuo prossimo”.

Chi è più prossimo a me? Più vicino a me di uno che mi pianta i chiodi nelle mani? Quell’uomo non è solo vicino a me, ma entra dentro di me, dentro la mia carne: questo è il mio prossimo più di ogni altro ed io debbo amarlo. Se uno mi diffama dicendo ogni sorta di falsità contro di me, non riesco neppure più a dormire, tanto sono turbato e scosso. Chi è più vicino a me di uno che non solo mi sta fisicamente vicino, ma è entrato nel profondo dei miei pensieri al punto da scuoterli e non lasciarmi più dormire? Questi non è solo vicino a me, ma dentro di me: ebbene, in questo momento è il più prossimo a me, che devo amare».

«Padre, non c’è una contraddizione in termini nel dover amare?»

«Nessuna religione ha il coraggio di chiederlo ai suoi fedeli, ma la religione cristiana sì. Questo è il comando nuovo di Gesù e da questo i cristiani si distingueranno dagli altri, dal modo di amare. “Da questo capiranno che siete miei discepoli”, dice infatti Gesù.

Mentre ero in India, chiesi a un amico di gestire alcune scuolette e a un certo punto mi accorsi che per cinque anni aveva dato solo metà salario a un insegnante. Questi era stato minacciato: non doveva dirmi la verità, altrimenti avrebbe perso il lavoro. Io mi ero fidato di quella persona perchè era anche segretario in Parrocchia e quindi ben conosciuto dal parroco stesso. L’uomo che gestiva le scuole aveva un figlio solo, mentre il maestro derubato aveva sei figli e per cinque anni dovette limitarsi molte volte a mangiare una volta al giorno. Così lui e la moglie si ammalarono di tubercolosi: una vera e propria tragedia, consumata tra due battezzati. Appena appresa la notizia, mi sarei precipitato da quel direttore per stritolargli le ossa, se ne fossi stato capace, ma mi fermai, perchè non ero emozionalmente pronto ad affrontarlo. Quando venne il momento, parlai con lui di giustizia, di restituzione e altro ancora.

Qualche tempo dopo mi chiesi: “Come devo amare questa persona?”. E la risposta fu: “Quando mi presenterò al giudizio finale, il Signore non mi chiederà quanto ho amato mia madre, mio fratello, gli zingari, tutte le persone che hanno contraccambiato la mia amicizia al cento per uno, ma quanto ho amato quel direttore ladro e criminale”. Sì, mi chiederà quanto gli ho voluto bene. Da quanto riesco ad amare chi più di ogni altro mi ha offeso (anche se indirettamente), posso mostrare al Signore quanto vale il mio amore per gli altri: da quanto riuscirò ad amare questo mio prossimo che è entrato così dentro di me, potrò io stesso capire se l’amore che uso nelle mie relazioni è oro, argento, ferro, terracotta o plastica».

«Mi pare di risentire le parole: “Non sono venuto per i sani, ma per i malati”; “Non sono venuto per i buoni, ma per i cattivi”; “Ama il prossimo quanto devi amare Dio stesso”; “Se il tuo prossimo ha peccato settanta volte sette tu perdonalo e amalo”; “Se ami solo coloro che ti amano, che merito ne hai?”; “Da questo tipo di amore capiranno quanto siete miei discepoli”. E sembra impensabile che in

una società cristiana con una predicazione così pura ci sia stato posto per guerre, violenza, vendette e prevaricazione contro questo nostro prossimo che avrebbe dovuto essere sempre oggetto di misericordia».

«Ecco perchè Francesco d’Assisi scrisse: Se tuo fratello peccherà mille volte davanti ai tuoi occhi, devi amarlo proprio per questo. Proprio perchè ha peccato, ha sbagliato ed è sbagliato dalla testa ai piedi devi amarlo; proprio perchè ha offeso te, Gesù, la Chiesa, devi amarlo; proprio perchè ha disonorato la creazione...».

«E se questo prossimo non solo ha fatto violenza e reso schiavo un uomo, una donna, un bambino, ma adesso è diventato organizzatore di schiavitù e crea una catena per moltiplicare il crimine; se questo prossimo, oltre a consumare droghe e quindi suicidarsi, le spaccia perchè siano in tanti a sbagliare, dovrei amarlo? Se questo prossimo ha violentato un bambino innocente che probabilmente porterà per tutta la vita le conseguenze di queste azioni e se organizza aerei di quattrocento uomini per fare turismo sessuale con bambini in Thailandia, nelle Filippine, in India e da mille altre parti, dove la povertà delle vittime crea un terreno fertile perchè tale peccato si moltiplichi, dovrei ancora amare questo vicino? Ha venduto bambini per il commercio dei loro organi e organizzato una catena tra commercianti e ospedali dove i bambini rubati e venduti sono considerati non più di un coniglio, un topo, una gallina. E dovrei amarlo?».

«Caro Teofilo, potresti dirmi: “Posso arrivare a dimenticarlo, semmai con una grazia speciale a perdonarlo, ma amarlo?”. Mi dirai che ad amarlo non ce la fai, vero? E perchè da quest’ultima pagina ti sei sentito scuotere e invece, con molta superficialità, hai letto nel Vangelo che Gesù è venuto non per i giusti, ma per i peccatori? Perchè non hai strappato il foglio su cui era scritto: “Se ami solo coloro che ti amano che merito ne hai? Amate i vostri nemici”. Pensavi forse che peccatori e nemici fossero un’entità astratta, semmai di disturbo, persone non così corrette? No, i peccatori sono questi e possono essere tuoi vicini di casa».

Amare i peccatori

«Il peccatore non è un birichino che merita un po’ di comprensione. Se poi il peccatore non è solo un omicida, ma ha cercato di uccidere te; se poi non è solo uno che qualche volta

tradisce la moglie, ma è entrato nella tua vita privata e ti ha rubato la tua, considerandola sua, e l’ha fatto ripetute volte; se il peccatore non è solo un maniaco, ma ha violentato il tuo bambino, allora capisco che tu ti senta turbato e non comprenda più il Vangelo tradotto da Francesco, un uomo molto simile a noi: Se tuo fratello peccherà mille volte davanti ai tuoi occhi … devi amarlo proprio per quello».

«Se almeno avesse detto ‘nonostante quello’, se avesse detto ‘nonostante tuo fratello sia peccatore, devi amarlo’, forse lo capirei di più. Ma ha detto: Devi amarlo proprio perchè è peccatore».

«Sì, proprio per quella ragione tanto ripugnante (che nell’esempio ho cercato di ‘portarti in casa’). Gesù non ci ha amati nonostante fossimo peccatori, ma proprio perchè eravamo tali, perchè eravamo una pecora persa, perchè lo inchiodavamo sulla croce. E se ti accorgi

che il peccatore è in casa tua, se chi commette i crimini che ho chiamato per nome è tuo figlio, tuo padre, tua madre, tua sorella, è il tuo compagno di scuola, di lavoro, dovresti perdonarlo e amarlo?».

«Dopo che ha dissipato tutti i miei beni, che mi ha diffamato di fronte a tutti, senza lasciarmi il tempo materiale per riparare il disonore e sapendo che sulla terra il mio nome resterà macchiato per sempre... dovrei amarlo lo stesso? E proprio perchè ha commesso quei crimini?» Teofilo era stupito.

«Perchè, allora, leggendo le beatitudini, non hai telefonato al Papa per chiedere se era vero? E nel leggere: “Quando avranno detto ogni sorta di male contro di te… rallegrati!”, perchè non hai strappato almeno quella pagina? E dovresti pure rallegrarti? Allora sai chi è il peccatore reale, quello fatto di corpo e anima che incontri tu, quello che da bambino era bellissimo come tutti i bambini e adesso è diventato un mostro? Sai chi è? È colui che non riesci ad amare nonostante ti chiami cristiano, è colui che fatichi senza fine ad amare. Teofilo, fermati un istante a pensare alle tue relazioni familiari e sociali. Quali persone ami di più? Probabilmente quelle che più ti vogliono bene, vero? E coloro che pensi non ti amino? Li odi? Li sopporti? Cerchi di dimenticarli? Riesci a perdonarli? Riesci ad amarli?».

«Padre, da queste poche domande ci rendiamo conto quanto siamo pagani, quanto siamo poco cristiani. Che Gesù sia venuto a predicarci il comandamento nuovo o che non sia venuto affatto, per la maggior parte di noi non cambia assolutamente nulla. E invece, chi erano gli amici di Gesù? Dell’affetto verso i suoi familiari, non una parola: non ce n’era bisogno. Gesù ama gli apostoli e dal comportamento finale si può capire di che stoffa fossero e quanto sia stato difficile amare gente come Pietro, Giuda e quei due fratelli che, senza voler togliere nessun merito, erano più interessati a un posto come vicerè o primi ministri di un regno nuovo che non aveva nulla in comune con quello predicato dallo stesso Gesù Cristo».

«Gesù ama dei peccatori: uomini e donne, peccatori pubblici e privati. Non li ama per le loro virtù, ma perchè sono peccatori. Per l’epoca una donna adultera o pluridivorziata o prostituta non merita nessuna considerazione. Esattori di imposte che schiacciano la testa dei poveri, ricchi che si sono guadagnati quei soldi sulle spalle della povera gente: uomini che non hanno nulla di ammirevole in questi peccati. Sono quindi dei peccatori e Gesù li ama e si occupa di loro proprio perchè sono peccatori. Io non ho nessun potere di convertirti, mi preme solo chiarire che il Vangelo non è uno dei tanti libri che riempiono le biblioteche, ma il più difficile di tutti i libri, il più pretenzioso. E che, tra i ‘fondatori di religione’, Gesù è il più disobbedito. Egli infatti ha preteso ciò che nessuno ha osato pretendere: chiedere di amare chi ‘non si può amare’».

«Padre, voi mi insegnate che forse l’uomo non può amare il nemico con le sole forze umane, ma il cristiano non è fatto solo di carne e ossa: è lui-più-Gesù-Cristo. Così il cristiano-Gesù può vivere il comando nuovo: amare chi lo inchioda. Quando poi il santo zelo accende in me la rabbia contro le ingiustizie, i soprusi, le prevaricazioni, devo allora lottare, urlare e gridare non solo contro il peccato, ma anche contro il peccatore, perchè il peccato non sta nell’aria scollato dal mondo, ma è sempre frutto dell’azione di un uomo. Può essere che debba manifestare contro il peccato di mio fratello, può essere che lo debba denunciare e chiedere che venga rinchiuso in carcere, se non è più capace di vivere civilmente nella società. Ma come possono restare nello stesso cuore umano, insieme all’amore, il furore, la rabbia contro di lui, e la condanna, richiesta, pretesa e imposta? Posso essere furioso contro il mio fratello, condannarlo e tuttavia amarlo con lo stesso cuore?».

«Gesù dice di sì, altrimenti dobbiamo strappare tutto il Vangelo. Senza il comando nuovo, le altre pagine del Vangelo perderebbero l’anima. Un giorno Gesù va al Tempio, intreccia delle corde, ne fa delle fruste che usa contro i mercanti e ribalta tutte le loro mercanzie con rabbia, con furore, con grida. Eppure non possiamo pensare che Gesù abbia amato un poco meno uno solo di loro. Non possiamo pensare che li abbia amati meno di quei bambini che chiamava vicino a sè per benedirli. I bambini avevano bisogno di abbracci e baci e Gesù glieli ha dati perchè li amava. I venditori del Tempio avevano bisogno di frustate e gliele ha date perchè li amava. Gesù voleva educare i mercanti, i sacerdoti, i fedeli e usò quel linguaggio, ma il suo cuore di amante non rimase scalfito.

Il cuore di Gesù, che ama in questo modo, è la nuova alleanza, il nuovo testamento. Gesù è il santo dei santi non perchè è stato crocifisso o è morto su quella croce. Noi due potremmo essere flagellati, incoronati di spine e crocifissi in meno di una giornata. È sufficiente un tribunale criminale che ci condanni, il tempo necessario per trovare chiodi, martello e legno e in meno di una giornata saremmo crocifissi anche noi. Gesù è Gesù non perchè è stato crocifisso, ma perchè ha amato chi lo crocifiggeva. Questo è il Nuovo Testamento».

«Pare che nella rivoluzione degli schiavi di Roma, guidati da Spartaco, circa seimila di loro siano stati crocifissi lungo la via Appia e molti libri se ne siano dimenticati, ma non di Gesù Cristo, che ha addirittura diviso la storia in due parti, prima e dopo di Lui».

«Se credo a questo Gesù e al suo comandamento nuovo, potrò capire che non è solo la sintesi di tutta la morale cristiana, ma che mi fa luce su tutta la teologia, mostrandomi chi è Dio Padre, cioè un Dio che ama sempre tutti, buoni e cattivi. Quando, nel profondo della mia coscienza, troverò l’amarezza del peccato, non mi sentirò escluso da questo Padre-Madre, ma abbracciato da Lui, incoraggiato a non peccare più. E se dovessi rifare la stessa esperienza o se il vizio mi avesse reso schiavo, saprei di certo che questo Dio continuerebbe ad amarmi e ad amarmi di più, perchè sarei un malato grave. Che cosa potrebbe aiutarmi di più a risorgere dal mio peccato? La minaccia di un castigo o il caloroso abbraccio paterno-materno di Dio? Nel Vangelo, quindi, c’è questa bomba atomica, che maneggiamo come fosse un petardo di carnevale».

Non giudicare

«Padre, com’è difficile il cammino per diventare cristiani!».

«Per allenare il cuore a questo arduo lavoro, possiamo tentare di guardare il nostro prossimo senza giudizi di malvagità. Gesù ci ha aiutati con un ordine che ci alleggerisce: “Non giudicare” il tuo prossimo, perchè potrebbe essere innocente! Non pensare mai che il tuo vicino sia un peccatore, perchè non è dato a nessuno di noi leggere nella coscienza altrui.

Anche il prete che confessa deve giudicare le azioni del penitente come azioni storiche e umane. Di fronte ad esse deve porre consigli, espiazioni, penitenze o castighi, ma non potrà mai entrare nella coscienza di un solo penitente per affermare che questi ha commesso un peccato. In duemila anni di storia non possiamo dare il giudizio di un solo peccato veniale nei confronti di una persona. Nella coscienza umana solo Dio può leggere e pronunciare il giudizio finale. Strettamente parlando, non abbiamo nemmeno il diritto di giudicare in modo definitivo la nostra stessa coscienza.

Un prete che ha confessato tutti i giorni per quarant’anni non potrà mai sapere se ha perdonato cento, dieci, uno o nessun peccato. Solo a Dio appartiene questo giudizio. Pur trovandomi di fronte a uno sterminatore di popoli che ha massacrato milioni di persone, non saprò mai se abbia commesso dei peccati gravi o veniali o nulla di tutto questo. Le schizofrenie gravi o parziali o qualunque tipo di perturbamento psicotico anche leggero possono essere causa di una coscienza ferita e, quindi, non tanto responsabile come appare ai

nostri occhi. Ciò che Dio permette attraverso il comportamento criminoso del prossimo potrebbe essere semplicemente un mezzo per allenare il nostro cuore pagano a perdonare e a diventare cristiano.

Un giornale riportava un fatto terribile: “Madre lega i cinque figli e li butta nel fiume”. Accanto a me un uomo, che si era avvicinato per vedere la pagina, scoppiò in un grido istintivo: “Che criminale!”, al che io risposi: “Chissà quante ferite, quanto dolore e disperazione per arrivare a buttare i propri cinque figli nel fiume! Povera Madre!”. E, senza guardarmi attorno, misi il giornale per terra e m’inginocchiai di fronte alla foto di quella madre annegata».

«Perciò, Padre, la persona considerata in apparenza criminale potrebbe essere innocente».

«Se lavassimo lo sguardo con questa riflessione, la nostra visione della vita potrebbe cambiare radicalmente: indipendentemente dalle loro azioni, coloro che ci passano accanto potrebbero essere dei santi. Così, la fatica di amare un prossimo malvagio diventa persino ragionevole, in quanto possiamo trovarci di fronte non a un criminale, ma a un malato.

Se ciò che ho cercato di ripetere, ritradotto dal Vangelo, fosse il pensiero di un filosofo, di un teologo o di uno spiritualista, o ancora di un moralista o del fondatore di una grande religione, ci si potrebbe rifiutare di crederlo, ma l’ha detto Gesù Cristo. E la testimonianza che è tutto vero è data dalla sua stessa Resurrezione, con cui Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, ha sottoscritto che il comando nuovo di Gesù agli uomini è vero e che è veramente comando di Dio e Parola di Dio, anzi è la Parola di Dio che è diventata carne, è diventata Gesù Cristo, il quale ha predicato e vissuto tutto questo».

Misericordia

«Ma che significa, Padre, avere misericordia?».

«Avere misericordia dell’altro, caro Teofilo, non vuol dire solo perdonarlo, ma anche avere pietà di lui, curare le sue ferite, caricarselo a spalle e aiutarlo a guarire, affinché sia capace di

riprendere il cammino. E, dopo aver sentito dal Vangelo che dobbiamo amare il prossimo, quello che è vicino a noi, ci occorre fare un ulteriore passo: prendere in consideazione non solo il vicino, ma anche il “prossimo” lontano da noi geograficamente, quello che é venuto, per così dire, ad abitare proprio vicino a noi.

I mezzi di comunicazione hanno portato in casa nostra il mondo lontano, il mondo che prima non si poteva vedere. Quel mondo chiamato “terzo o quarto mondo” lo raggiungevano solo i missionari zelanti per far conoscere il Vangelo in terre lontane a costo di disagi, persecuzioni e morte. Raggiungevano ancora quel mondo gli eserciti dei politici per colonizzare, rubare e schiavizzare».

«Oggi le dinamiche sono diverse, ma il Sud del mondo é entrato in casa nostra e tutti noi, senza eccezioni, abbiamo assistito alla devastazione e a un vero e proprio genocidio – indiretto ma globale – frutto d’ingiustizia, di sfruttamento o, per lo meno, di abbandono».

«Invece d’impegnarsi nella solidarietà internazionale, l’uomo del Nord del mondo preferisce voltare pagina, chiudere gli occhi, dimenticare, per poter continuare a vivere il più tranquillo possibile. La crisi economica iniziata nel 2008 (è sempre quella a cui ci si riferisce negli ultimi anni) non è sufficiente ad alleggerire la nostra coscienza. Papa Francesco chiede che si agisca per alleviare le sofferenze dei poveri, per ridurre la disparità tra ricchi e poveri e per sormontare tutti quei modelli di esclusione che sono causa di tanti conflittti e violenze.

Non neghiamo la solidarietà degli ultimi decenni, con cui tutta una serie di interventi da parte di governi e istituzioni religiose o a sfondo filantropico hanno fatto registrare una riduzione significativa dei tassi d’indigenza nel mondo, passando così da un tasso del 44% a quello attuale (2015-16) del 12,7%. Tutto questo fa crescere in noi un poco di speranza. Riconosciamo però che, se ci fosse solo più un bambino che muore di fame, sarebbe ancora troppo e, con vergogna, dobbiamo accettare la triste realtà che ancora 800 milioni di bambini muoiono a causa della denutrizione; che metà della popolazione mondiale non dispone di alcun patrimonio e due miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno ma che, tra queste ultime, in

Paesi come il Bangladesh, gran parte della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno per famiglia».

«Già il Concilio Vaticano II (G.S. 69) ricordava che “I beni creati devono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità”. In ogni caso ci siamo abituati a sentire di tutto, ma anche a voltare pagina in fretta, prima che la coscienza venga disturbata. Dopo quanto abbiamo detto, Padre, il rischio è di non riuscire nemmeno a chiedere perdono: se non intravediamo strade nuove, piste di speranza e concrete prospettive di conversione, tanto vale restare come siamo, nella contraddizione di un nostro mondo inguaribile. Ma io voglio gridare che il nostro mondo è guaribile e noi non siamo i primi a curarne le ferite».

«Una strada nuova è stata aperta duemila anni fa, la strada della consegna, e oggi stesso non mancano testimoni di questa rivoluzione di amore. Nessuno potrà sostenere che davanti a migliaia di bambini che ogni giorno muoiono di fame non ci sia niente da fare e che l’unica soluzione sia rimanere muti o semplicemente spaventati e angosciati. Massimiliano Kolbe, come ti ho già detto, non si accontentò di commuoversi. Alla fine del luglio 1941 nel blocco 14 di Auschwitz mancò un prigioniero. Per ogni fuggitivo venivano condannati venti internati. Quella volta ne furono scelti solo dieci. Quando il Lagerfuhrer li scelse per mandarli nel bunker a morire di fame, una di loro si lasciò sfuggire un gemito soffocato: “Mia moglie e i miei bambini: non li vedrò mai più!”. Massimiliano Kolbe, numero 16670 degli internati, lo udì e si offrì al suo posto. Si avviava a concludere così la sua Eucarestia, adempiendo alla parola di Gesù:

“Fatelo anche voi in memoria di me!”. Giovanni Paolo Il lo ha detto nell’omelia della canonizzazione: “Padre Massimiliano non è morto, ma ha consegnato la vita per il fratello”».

«E di fronte alle scelte sbagliate, alle politiche di oppressione, alla logica di guerra resteremo impotenti e inoffensivi?».

«Gandhi non è rimasto inattivo. Piccolo fragile uomo di fronte al potente esercito di un grande impero: che cosa poteva fare? Egli consegna se stesso. Studia, riflette, prega, entra nella politica del suo paese, entra ed esce dalla prigione più e più volte. La sua grande arma è combattere la violenza con la non-violenza, ma una non-violenza attiva. Egli lavora come ogni indù e insegna a fare altrettanto. Vive le cose semplici e i momenti straordinari con la stessa dignità e semplicità. Non accetta il compromesso. Cerca la coerenza della pace, non la violenza della guerra. A tutti i costi, con tutte le forze, rimettendoci in salute, con prolungati digiuni, perfino col voto di castità, consegnando tutte le forze della sua grande anima

per la causa della pace. E non si può certo dire che non abbia ottenuto niente».

«Di fronte alle difficoltà di dire “Padre nostro”, resteremo con il fiato mozzo e basta?».

«Un profeta del nostro tempo, Raoul Follereau, ha smesso di aver paura della morte, si è appassionato alla vita degli altri, consegnando tutto il suo tempo, la sua intelligenza, le sue energie per vincere non solo la lebbra della carne, ma anche e più ancora la lebbra dello spirito. Ha fatto oltre quaranta volte il giro del mondo, ma non da turista o come gli astronauti, guardandolo dall’alto. È passato di villaggio in villaggio per stare vicino a chi moriva, per incoraggiare a vivere, facendosi tutto a tutti. E, quel che è più, migliaia lo hanno seguito, stimolati dal suo esempio».

«Di fronte al ladro che è in ciascuno di noi, di fronte alle ingiustizie della nostra società nei confronti dei più poveri resteremo solo emozionati?».

«Marcello Candia vende la fabbrica e va a costruire un ospedale alla foce del Rio delle Amazzoni. Consegna denaro, tempo e salute per la salute dei fratelli: forse uno dei tanti gesti di semplice riparazione? Qualcuno gli obietta: “Così si rischia di fare dell’assistenzialismo, mentre occorre la rivoluzione”. “È vero – risponde Marcello – penso che abbiate ragione; ma io non la so fare e intanto che voi vi preparate, io faccio questo”. La Didaché dice che quando uno fa tutto ciò che sa di bene, questo è il bene. Madre Teresa di Calcutta affianca i moribondi perché non siano soli nel momento in cui non valgono più nulla per nessuno. E a chi, di fronte alla povertà e alla miseria di Calcutta, le fa notare: “Madre, questo che voi fate, per quanto grande, non è che una goccia nel mare”, risponde: “Sì, questa è la nostra goccia”. E non è certo la sola».

«Allora, Padre, di fronte alle minoranze etniche marginalizzate, di fronte agli schiavi di tutto il mondo, non si rischia semplicemente di dire che questi sono problemi troppo grandi, che ci superano?».

«Martin Luther King non ha accettato passivamente il razzismo. Ha lottato con tutte le forze contro di esso, dicendo: “Un giorno i miei figli neri siederanno a tavola con i bianchi, nella pace”. Lottò con tanta energia da spaventare i razzisti, che uccisero lui, ma non il suo ideale».

«E di fronte al potere delle multinazionali che dilapidano il terzo mondo, di fronte ai diritti umani più elementari ogni giorno conculcati, di fronte alla disappropriazione di casa, campi e della stessa sopravvivenza di intere famiglie resteremo a guardare?».

«Margherita, una giovane donna del Nord-est brasiliano, informata da un mio amico che la sua vita era finita se non smetteva immediatamente la sua lotta in difesa della terra, disse: “Dalla lotta non esco: meglio morire lottando che morire e veder morire di fame”. Due ore dopo veniva uccisa. Al funerale il corteo di contadini si trasformò in una manifestazione nazionale in difesa dei diritti dei lavoratori; nella foresta di scritte uno striscione di cento metri diceva:

“Avete sradicato una margherita, ma ne sono già nate altre mille”. La lotta contro l’ingiustizia cresce ogni giorno. Una statistica del settembre 1986 dice che in Brasile in quell’anno moriva una persona ogni 36 ore in difesa dei diritti umani. E quelli che venivano uccisi erano sindacalisti, leaders politici, religiosi e preti, contadini, etc. All’inizio del 2016 é stato dato un allarme via internet: in Africa c’é bisogno di 5 mila volontari per combattere l’ebola, che – si sa – mette ad altissimo rischio la vita. E in meno di 10 giorni oltre 3 mila giovani hanno dato la loro disoponibilità a partire».

«Sono migliaia i giovani professionisti e non professionisti che si affiancano ai fratelli nella lotta per recuperare i loro diritti fondamentali: lottano e rischiano insieme, facendosi maestri e

insieme discepoli gli uni degli altri per un mondo migliore».

«Certo, caro Teofilo, esistono decine di persone che fanno esattamente ciò che hanno fatto Kolbe, Gandhi, Follereau, Marcello Candia, Luther King, Margherita. In modo diverso vivono le stesse cose, consegnandosi ogni giorno per arrivare a consegnare tutto. Perché non dev’essere possibile anche per noi?».

Speranza

«È dunque chiaro, Padre, che non dobbiamo cedere al pessimismo. Se oggi Caino cammina ancora sofferente e disperato nel nostro mondo, se si continua a costruire la torre di Babele e il diluvio continua a inondare la terra, possiamo comunque cogliere segnali di speranza».

«Sulla fronte di Caino c’é un segno di misericordia e di speranza; e gli uomini cercano di aggregarsi nonostante le differenze di lingua, ideologia e religione: sotto le nuvole appare anche oggi l’arcobaleno, segno di pace. E ancora, i faraoni d’Egitto non sono morti, né i loro aguzzini, né il popolo oppresso: in mezzo a tutto ciò c’è una storia di liberazione. Mosè e Aronne continuano a gridare e stimolare il popolo affinché non si perda d’animo nel deserto, ma lotti per la terra promessa. Pure noi cantiamo l’Alleluia come Maria, ogni volta che attraversiamo il Mar Rosso con i nostri fratelli; ma anche quando Dio ci dà la forza di attraversare un fiume o un ruscello, celebriamo la vita. Così tutti dovremmo portare il vino quando andiamo a nozze a

Cana o in un altro paese, perché la festa sia più piena. E uccidere il vitello grasso, quando un fratello o un figlio torna a casa e non importa se gli altri si scandalizzano.

Spezziamo pure noi il vaso di alabastro pieno di profumo che costa una fortuna, e versiamolo sulla testa del fratello, anche se gli altri non capiscono e si scandalizzano e parlano sempre dei poveri, pur di arricchirsi. Ma se passiamo vicino a 5 mila uomini affamati con le mogli e i loro bambini, non andiamo oltre senza dar loro da mangiare. Diamo loro il pane, se l’abbiamo, altrimenti andiamo a comprarlo; e se siamo senza soldi, facciamo dei miracoli; ma non dobbiamo passare oltre come un levita o un fariseo, altrimenti come faremo a dire: “Padre nostro che sei nei cieli”? O come potremo, il giorno dopo, parlare a questi fratelli dell’Eucarestia?».

L’ultima scusa

«Padre, per anni ho cercato una scusa, una qualche motivazione, per dirmi che andava bene anche così, e non l’ho trovata. Avrei voluto collocare quella risposta da qualche parte, per tranquillizzare la coscienza mia e dei miei amici, ma non l’ho trovata. Nessuna riga in tutto il Vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle Lettere e nemmeno nell’Apocalisse, che mi potesse dar ragione. Volevo trovare una parola che mi dicesse all’incirca così: “Anche se mangio tre volte al giorno e ho una certa sicurezza, mentre altri mangiano tre volte la settimana, in fondo non è poi così grave”: è questa la parola che ho cercato e non ho trovato».

«Nelle parole di Gesù, caro Teofilo, non ci sono attenuanti: l’ingiustizia, la discriminazione, tutto questo è peccato. E adesso voglio dire una parola che brucia la pelle: mi sono lasciato

scandalizzare da televisori a colori in case religiose a pochi metri da chi vive la miseria. Mi sono lasciato scandalizzare da una casa con 164 stanze, tutte libere, tutte vuote, accostate alla strada dove dormivano dei bambini sul marciapiede, coperti da giornali.

Mi sono lasciato scandalizzare da queste cose, pensando che io avrei fatto diversamente, avrei fatto meglio; invece io, come molti di noi, non ce l’ho fatta. E per di più, in molte comunità ho sentito un grande desiderio di essere più povere, senza riuscirci. Mi dicevano di voler essere più coerenti col Vangelo, di voler essere dei testimoni viventi della Parola, di voler dividere tutto con chi soffriva più di loro, senza riuscirci».

«Padre, ho sentito anch’io il grido d’impotenza: “Perché faccio il male che non voglio e perché non faccio il bene che vorrei?”».

«Tutti questi amici, con molta buona volontà, non ci sono riusciti (eccetto pochi), come io non ci sono riuscito. Non ce l’ho fatta. Mi costa confessare pubblicamente questo peccato, come mi costerebbe dire pubblicamente che ho ucciso, che ho rubato, che sono stato adultero o che ho bestemmiato Dio. Con la stessa vergogna e umiltà dico: non ci sono riuscito. Ma il fatto che altri non ci siano riusciti, che io non ci sia riuscito, non giustifica nessuno a dire: “Allora, anch’io posso continuare come prima”.

Se Dio ti chiede di più di quello che ti ha chiesto ieri, ti dà anche la sua forza per dire di sì e camminare in avanti. Non chiudere il cuore a Dio, se lui stesso cerca di aprirtelo. E se Dio, in questo momento, ti dà una luce che non ha dato a nessuno? E se Dio, in questo momento, ti chiede ciò che non ha chiesto a nessuno? E se Dio, in questo momento, ti dà una forza che non ha mai dato a nessuno? Guai a non rispondere! Guai a tornare indietro! Resteresti eternamente triste».

Fraternamente

«Padre, non sono stati gli Apostoli con la comunità, superando l’elemosina e l’assistenzialismo, a fare la rivoluzione, una grande rivoluzione sociale cristiana?».

«Con la prima comunità cristiana, gli Apostoli vollero fare ciò che aveva comandato il Signore Gesù, in quella notte, prima della morte, quando aveva spezzato il pane e si era consegnato, per i fratelli, nelle mani del Padre. Gesù infatti aveva chiesto ai suoi di fare altrettanto. Respirando la genuinità e la freschezza di quel bambino appena nato che era la nuova storia, si riunirono per celebrare l’Eucarestia. Ma l’Eucarestia non fu per essi ripetere un rito: con un cuor solo e un’anima sola nessuno reputò proprio ciò che gli era appartenuto, ma

ogni cosa fu tra loro comune. Con grande forza gli Apostoli resero testimonianza della Resurrezione del Signore Gesù».

«E nessuno tra loro fu bisognoso, perché quanti avevano posseduto campi o case li avevano venduti deponendo l’importo ricavato ai piedi degli Apostoli; poi era stato distribuito a ciascuno secondo il bisogno».

«Sì, e spezzarono il pane come aveva detto Gesù. Mentre uscirono dalla riunione, sentirono forgiare i chiodi nella bottega del fabbro e inchiodare legni incrociati. Sentirono ancora i ruggiti dei leoni nei sotterranei dell’arena e il rumore di una pioggia di pietre che si scagliava contro di essi. Ma, in mezzo a tutto questo, contemplarono i Cieli aperti sopra di loro e il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio. Queste parole ci ripetono che non abbiamo ancora pagato fino al sangue, ma che ogni giorno dobbiamo fare la nostra piccola, grande consegna, per entrare a far parte dei “beati” del Vangelo: perdere tutto per il Regno, al fine di non avere più nulla da perdere nel momento in cui Dio ci chiederà tutto».

«Padre, dopo queste riflessioni forse domani non dovrei più venire a Messa e a far la Comunione. O forse andrò un’ora prima, per prepararmi con un atto penitenziale vero. Forse domani mattina, allo spezzar del pane, riconoscerò i suoi occhi e deciderò di consegnare tutto e di consegnarmi, anche se non cambierà nulla nel mondo».

«In ogni caso, la Comunione ti attende. Gesù ha preso il pane e il vino e ha detto: “Questa è la mia vita che io consegno per voi: fate anche voi questo”. Se non ci consegneremo, tutte le volte che celebriamo l’Eucarestia faremo solo una drammatizzazione piena di grazia, pur bella e ricca di genio, ma non faremo ciò che lui ci ha comandato: la nostra consegna»[6]

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[6]

Cfr. R.Rosso (1987), La consegna, EDB.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo XI

I MONACI ATEI

pag. 172-185

Figli fedeli della più antica tradizione monastica

All’inizio di dicembre, le visite all’eremo si erano ormai diradate e la neve aveva cominciato a scendere, isolando sempre più quelle due creature, figli fedeli della più antica tradizione monastica ed eremitica. Ma, in certi momenti, una comunità così piccola rischia di sentirsi soffocare. Per questo lo starez, forse un poco disanimato, forse pensando alla sua comunità o a san Francesco, su un pezzo di carta che puzzava di formaggio vecchio, scrisse: Ho la tentazione di pensare che tutte le cose radicalmente evangeliche siano piccole. Ahimè! Temo di aver pensato una stupidaggine, ma preferisco chiedere scusa per averla scritta che cancellarla. E dimenticò quel pezzetto di carta tra le pagine della Bibbia.

Di fatto, pensando alle comunità di qualunque tipo, è difficile immaginare interi eserciti di santi, di martiri, di monaci. Gli apostoli di Gesù erano dodici, i discepoli di Francesco d’Assisi la metà e i monaci di Santo Benedetto sono rimasti in due. Eppure Teofilo e lo starez hanno continuato a proporre quello stile di vita a tanti giovani, per essere in tanti nella comunità. Quindi quel pensiero del vecchio monaco era forse una tentazione per non sentirsi frustrato di vivere una comunità tanto piccola.

Un alveare di preghiera e di lavoro

Comunque, anche quando l’inverno rinchiude i due eremiti nella loro prigione monastica, l’attività non diminuisce: semplicemente muta; ma la casa santa continua a essere un alveare di preghiera e di lavoro.

Teofilo travasa il miele, accudisce le api; poi prende badile e cazzuola, sabbia, cemento e calce e riforma i muri più vecchi; con chiodi e martello ripara il tetto, riassesta i pavimenti; e, come se non bastasse, lavora nella falegnameria e nel laboratorio di artigianato. L’anziano dipinge icone. Prepara la tinta di fondo, poi, con tecnica non comune, passa la prima mano sulla tavola di legno ben levigato. Cominciato l’abbozzo, già vede l’immagine, ma non ha fretta: prepara le tempere, il tuorlo d’uovo con l’aceto bianco, i pennelli, le vernici naturali con molta religiosità: sa che dipinge un’immagine santa In quel periodo prolunga il tempo della preghiera in chiesa e parla di meno proprio per meglio accogliere l’anima dell’Invisibile.

Signore, mostrami il tuo volto

Mentre dipinge, prega: “Signore, mostrami il tuo volto. Signore, mostrami il tuo volto”. E continua a passare le tinte più chiare su quelle scure, lasciando emergere la luminosità dell’espressione. “Signore, non nascondermi il tuo volto”: lo ripete tante volte quante sono le infinite pennellate. Poi l’oro, poi la cornice e da ultimo porta l’icona a Teofilo perché la benedica; così nuovamente s’inginocchia e contempla l’anima del Volto. È un poeta e un mistico e, se non fosse che il giovane ha i piedi per terra, morirebbe di fame e di freddo come un passero abbandonato d’inverno. Ma la sua comunità lo fa vivere e lui fa vivere la sua comunità.

Natale, poi l’Epifania

Era arrivato il Natale, poi l’Epifania e la neve non era riuscita a ostruire proprio tutti i passaggi; di tanto in tanto un po’ di sole ne scioglieva una parte e l’inverno risultava più mite. Per Natale i due monaci avevano fatto tutte le celebrazioni solenni e, talvolta, qualche famiglia di contadini relativamente vicina era pure apparsa per

condividere momenti tanto sacri.

Tutto si svolgeva normalmente: Teofilo continuò a preparare un paio di tavoli da cucina per gli ospiti e passò alcuni giorni a rivedere il trattore di un mezzadro non distante da loro (era anche meccanico); poi ci fu da travasare il miele e sempre da accudire quei benedetti alveari. Lo starez, intanto, dipingeva le icone per le comunità che le avevano richieste, mentre la preghiera ritmava i vari tempi della vita in monastero e tutto il lavoro era dedicato al servizio.

Inaspettato e terribile

Ma un certo giorno, verso la fine di gennaio, dopo le preghiere del mattino, capitò qualcosa di inaspettato e terribile in Santo Benedetto. Lo starez se ne accorse per primo; in silenzio, si alzò dal suo sgabello e andò a guardare a un palmo di distanza l’icona di Gesù Maestro posta sull’ambone. La osservò bene e, con sorpresa, gli sembrò priva della consueta luce che emanava dal volto. Gli occhi non erano più penetranti, anzi sembravano spenti; l’icona pareva senz’anima, anzi sembrava morta, proprio morta.

Mentre tentava di spiegare l’accaduto, vide Teofilo che, senza dire una parola, corse ad accendere i due fari che illuminavano l’immagine dipinta sul catino absidale della chiesa. Sperava di fare in tempo, con più luce, a rianimare quel volto, che era già spento. Quindi accese tutte le candele che c’erano in chiesa, perché la fiamma è molto più calda, più viva, ma nulla valse a ridare vita alle icone: anche quelle dei santi a lato erano spente. E pure il volto della Madonna della tenerezza, che lo starez aveva provato a toccare, era rimasto senz’anima.

Il pane

Mentre il vecchio monaco passava uno a uno i quadri della Via crucis, Teofilo andò in sacrestia a prendere la chiave del tabernacolo e tornò visibilmente agitato, al punto che non riusciva nemmeno più ad aprire la porticina. Si accese la lampada dell’ostensorio e questo, tutto dorato, mostrò tra i riflessi dei raggi tutta la sua bellezza e solennità. Sì, anche questa volta si presentava solenne come sempre.

Ma quando Teofilo guardò bene l’ostia che stava nel mezzo, là dove incontrava sempre il cuore del mondo – la presenza di Cristo – vide solo un pezzo di pane bianco. Avvicinò la mano, lo toccò: era proprio solo pane. Allora accostò la porta senza più chiuderla e si avvicinò allo starez, che si era messo a leggere la Bibbia ad alta voce.

Le parole

Teofilo si sedette e lo starez declamò ad alta voce l’intera lettura del giorno, con la speranza di sentire almeno la parola di Chi era assente; ma, quando arrivò alla fine, non trovò in sé la forza per dire almeno sottovoce: “Parola di Dio”: gli parve il romanzo che leggeva per ammazzare il tempo, prima di entrare in monastero. Gli sarebbe bastato che nella Bibbia fossero rimaste almeno le parole di Dio, ma c’erano solo parole. I due monaci non si erano più parlati l’un l’altro.

Per un turista non era cambiato nulla

Un signore che dava l’impressione di essere un turista entrò in chiesa dalla porta cigolante, fece mezzo segno di croce e la genuflessione, guardò con stupore le luci e le candele, poi si rivolse allo starez:

«Mi hanno detto che avete del miele da vendere, vero?».

«Sì – rispose il vecchio – ma per il miele è con lui che deve parlare» e indicò il confratello a cui subito lo sconosciuto si rivolse.

Teofilo andò a prendere il miele, lo portò in portineria, prese quei due soldi con molta semplicità e si congedò con il passante, che non si era reso conto di nulla. Il colore delle icone era lo stesso, il tabernacolo, i quadri della Via crucis, la Bibbia esposta: tutto sembrava uguale. Ma per i due monaci, abituati a contemplare l’Invisibile, tutto era cambiato, perché l’Invisibile non c’era più.

Lo starez andò a mescolare un po’ di granoturco e biada per le galline, poi munse la mucca, scaldò il latte, fece il caffè e collocò sul tavolo un formaggio, le tazze, cucchiai, coltello, bicchieri, acqua.

Convivere con l’assurdo

Suonò il campanello per la colazione, ma Teofilo rimase nel laboratorio. Lui pure non si sedette, lasciò raffreddare il latte, il caffè, dopo di che ritirò tutto dal tavolo, e cominciò a lavare posate, tazze e bicchieri. Nel frattempo Teofilo passò in cucina e si stupì:

«Com’è che lavi quella roba pulita?».

«Eh! Bisogna abituarsi a vivere in un altro modo: vivere come se... come se esistesse ciò che non vediamo e come se non esistesse ciò che crediamo di vedere... Oh, sta’ tranquillo che non sono diventato filosofo, so appena lavare i piatti sporchi e puliti».

«Vuoi dire che bisogna cominciare a convivere con l’assurdo!».

«Eh! Eh!».

Che ora era?

Prima che uscisse dalla cucina, il vecchio gli domandò:

«Teofilo, che ora era?».

E lui, intendendo bene, ancora mezzo confuso rispose:

«Avevamo appena terminato i Salmi delle lodi, quindi dovevano essere circa le sette e un quarto», poi uscì.

La domanda dello starez e la risposta di Teofilo si riferivano all’ora in cui Dio stesso, la Madonna, i santi, tutti, proprio tutti, avevano abbandonato il monastero Santo Benedetto, lasciando i due poveri monaci atei e soli.

Appena si riebbe un poco e sentì il cervello più libero, l’anziano prese la scala e una lattina di tinta per cancellare la scritta “Santo Benedetto” sulla porta del monastero, perché non c’era più il Santo e il luogo non era più benedetto.

La notte più buia

Nel Vangelo si parla di un signore che, partendo per un lungo viaggio, lasciò i propri beni ai suoi servi perché li amministrassero. Si racconta pure delle vergini prudenti che aspettarono con le lampade accese, con la certezza che lo sposo sarebbe arrivato; che Gesù stesso sulla croce gridò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”; e che, dopo la sua morte, anche gli apostoli rimasero atterriti e delusi al punto che qualcuno aveva già ripreso la strada di ritorno a casa – verso Emmaus – sapendo che quella storia di liberazione non si sarebbe mai più realizzata.

Questi, all’incirca, furono i pensieri che i due monaci si comunicarono la sera, prima di ritirarsi nelle proprie stanze. Teofilo e lo starez sapevano bene che tutti i mistici sono passati per queste notti terribili, ma adesso la loro notte era la più buia di tutte.

Tutto come se…

Decisero allora di fare tutto come prima: l’adorazione in chiesa proprio come se Dio ci fosse, recitare i Salmi e leggere la Bibbia esattamente come se fosse la parola di Dio, celebrare la Messa come se Cristo ritornasse presente come tutte le altre volte e contemplare le icone come se fossero vive, anche se erano morte.

L’unica differenza fu che prolungarono i tempi di questa assurda preghiera, fatta di dialogo intimo e personale con nessuno, e pure il tempo di lavoro. Digiunarono due giorni la settimana e tentarono di moltiplicare i gesti di carità nella loro piccola comunità. Ma, di tanto in tanto, uno dei due andava in crisi:

«Perché continuare a fare tutto questo?», ossia tutto quel sacrificio quando non c’era nemmeno Dio che dicesse loro grazie.

Lo starez, un giorno, si domandò:

«Prima che Dio se ne andasse, facevamo forse queste cose per far piacere a Lui? Perché ci dicesse grazie? Non sarà che bisogna passare per questo assurdo buio per arrivare alla gratuità?».

«Eh! La gratuità... la gratuità» bisbigliò Teofilo.

La gloria di Dio

Poco dopo tornò in cucina con una decina di pezzi passati al tornio, traforati e scalpellati con infinita pazienza.

«Al fuoco al fuoco – gridava, mentre li faceva a pezzi piccoli – Li ho fatti perché piacessero a chi me li ha comandati e li ho aggraziati per la gloria di Dio! Ah! Ah... Per la gloria di Dio! Devo rifare tutto... tutto da capo! Te lo immagini Dio che riceve gloria dai miei legni scolpiti, dalle mie orazioni, dai miei digiuni? Ma Dio non ha bisogno di questo! Al fuoco, al fuoco!». E continuava a mettere quelle opere d’arte nella stufa.

Anche lo starez, quando se ne rese conto, corse al piano superiore dove dipingeva e prese le ultime tre icone. È vero: non avevano il volto, ma i vestiti, quelle infinite pieghe, il dorato di fondo, le cornici... Alzò l’accetta e le fece in tanti pezzi. Non le aveva ancora viste nessuno, proprio nessuno, né Teofilo, né Dio stesso, che aveva già lasciato il monastero quando le aveva cominciate. E scese anche lui per aumentare il fuoco.

Poi i due monaci cominciarono a ridere, ridere, ridere, come chi ha perso il controllo dei nervi: «Sì, sì, questo diventa un manicomio... ma è più bello un manicomio dove si ride che un monastero dove si piange». E continuarono a ridere come due ubriachi, fino a perdere le forze. Sembrava quasi che Dio fosse tornato al monastero, ma no... era stata solo una breve parentesi.

Preghiera e digiuno

E la vita riprese normale: lo starez dipingeva, Teofilo lavorava nella sua bottega. Preghiera, digiuno, tutto come poteva desiderare la regola più severa.

«Teofilo, mi dici perché continuiamo a digiunare?».

«Non so perché digiuni tu, da parte mia digiuno perché non ho più nessun motivo per farlo... né per Dio, né per me, né per gli altri... Mi alleno alla gratuità».

«E allora anch’io mi alleno alla gratuità».

Ma il momento più difficile era la celebrazione della Messa. Come celebrare la grande comunione con Dio, quando proprio lui non c’era? Come celebrare la sua presenza in mezzo a loro, mentre era assente? Ma i nostri monaci non lasciarono mai di vivere tutto come sempre, facendo le stesse cose, proprio come se Dio stesse abitando là. Quando non digiunavano, la sera cenavano con castagne e polenta o latte, e intanto raccontavano, ripetevano, ricordavano tutte le cose che si dicono gli intellettuali e i mistici, ma anche la gente più rozza e rude del campo.

Dio solo

Una sera lo starez esclamò:

«Teofilo, quella parola scritta su tante porte dei nostri monasteri: “Dio solo”, “Dio solo basta”, spesso viene intesa in un modo grottesco. Molti pensano che noi monaci non abbiamo bisogno di molte cose nella vita, che ci accontentiamo di poco, al punto che per noi Dio è sufficiente. Così come si pensa che a quel mendicante basti un pezzo di pane e acqua per vivere e a quell’altro una camicia anche d’inverno, ai monaci può bastare Dio solo, quasi fossero persone che si accontentano di tanto poco.

Penso che bisognerebbe correggere questo modo di pensare: “Dio solo” significa che noi siamo i più pretenziosi che esistono al mondo. È come dire a qualcuno: “A te possono bastare tutti i dollari degli Stati Uniti, i castelli della Loira e le fazendas del Brasile, ma a un monaco questo non basta; al monaco basta solo Dio, soltanto Dio può riempire il cuore di un monaco”. Non è così?».

«Anch’io penso che bisogna correggere l’idea distorta che al monaco basti poco, che gli sia sufficiente Dio. Il peggio è che questo pensiero non è solo di gente profana, ma spesso lo coltiviamo come zizzania delle nostre case... Ma, Padre, cosa capita a un monaco insaziabile, insaziabile al punto che gli basta soltanto più Dio?».

«Ho capito, ho capito... Cosa fa questo monaco insaziabile quando resta senza Dio?».

Né Dio, né polenta, né castagne

«A noi non sono rimasti dollari, né castelli, né fazendas, ma i pochi soldi del miele, una casa vecchia e un orto coperto di neve e Lui se n’è andato».

Lo starez mangiò le quattro castagne che gli restavano in mano, poi uscì a prendere altra legna, segno evidente che il discorso doveva prolungarsi fino a tardi, e rientrò già commentando:

«Eh! noi, i monaci insaziabili!» e continuò facendo fuoco.

Teofilo guardò nella pentola e osservò:

«Noi, i monaci insaziabili, non abbiamo nemmeno più castagne!».

«Cuociamo un altro po’ di castagne, Teofilo, tanto andremo per le lunghe e domani è giorno di digiuno».

«Ah già, domani per gli insaziabili anche il giorno di digiuno: né Dio, né polenta, né castagne».

L’anziano prese il sale, un po’ d’erba dolce e quattro manciate di castagne e mise tutto nell’acqua che stava già bollendo. E subito il monaco Teofilo riprese:

«Allora? Cosa capita a un monaco diventato insaziabile al punto che gli basta soltanto più Dio, quando... quando... quando gli capita ciò che è capitato a noi?» e si grattava la testa sembrando nervoso, ma subito tornò calmo.

Restarono a lungo in silenzio. Lo starez appoggiò la testa sul tavolo e Teofilo pensò che stesse dormendo, così passò abbastanza tempo.

La gratuità

Le castagne si cucinarono, il fuoco si affievolì al punto che Teofilo andò a prendere un giaccone più pesante e non pensò che fosse necessario mettere altra legna: credeva che la serata fosse finita e che le castagne restassero da mangiare. Ma lo starez alzò la testa e, come continuando un discorso già avviato, concluse:

«Dunque, se riteniamo che le nostre preghiere e i digiuni facciano contento Dio, se pensiamo che con i nostri atti di carità lo rendiamo glorioso, se presumiamo che con la nostra santità (come se fosse nostra!) facciamo Dio più felice, penso che egli stesso non abbia altra alternativa che lasciarci soli, se vuole educarci».

«Gratuità... Gratuità…» concluse Teofilo.

«Può essere proprio così».

Terminarono di mangiare le castagne e la cucina si stava ormai raffreddando. Ammucchiarono le bucce, ritirarono la pentola dal fuoco e s’incamminarono verso la chiesa per l’ultima preghiera della notte. Prima di entrare in cappella, lo starez disse ancora a Teofilo:

«Quindi nella notte dei sensi il monaco deve vivere come se Dio esistesse».

«Sì, come se Dio esistesse, perché nella notte il monaco sa che Dio non esiste più... se Lui stesso non torna».

Tensioni

Giorni e notti si susseguirono in quella scuola di gratuità: ma il grande vuoto, il digiuno, il lavoro intenso e il sonno molto ridotto causarono grandi tensioni: in certi momenti i due monaci non si capivano più, ogni gesto di carità che uno faceva si trasformava in offesa per l’altro. Si odiavano, si chiedevano scusa, si perdonavano e

tornavano a offendersi come se fosse diventata un’esigenza chimica della convivenza. Poi tornava la calma e, in seguito, nuovamente la burrasca. Ma ciascuno desiderava tanto il bene dell’altro e ciascuno era così dimentico di se stesso che non si adattavano a vivere quei momenti di tensione che poi si diradavano.

Il tempo della Trasfigurazione

L’inverno era arrivato al culmine, le strade erano bloccate per la neve, che continuava a scendere come se volesse coprire tutte le cose interamente e seppellirle. Quel mattino, Teofilo attese abbastanza il confratello che stava ritardando come non aveva mai fatto, poi lo chiamò, fuori da ogni consuetudine, e salì per vedere se avesse bisogno di qualcosa. Entrando nella stanza, lo vide inginocchiato e accasciato sul banco di lavoro, dove troneggiava una grande icona. Questa volta lo starez aveva deciso di dipingere il volto: era l’icona della Trasfigurazione. Quando Teofilo la guardò e si rese conto che non era più vivo, si domandò:

«Sarà passato Dio, almeno per un momento? Almeno il tempo della trasfigurazione?».

Era possibile pensarlo, anzi era probabile, ma nessun segno del divino poteva garantire che fosse davvero accaduto. Ormai il volto del Cristo trasfigurato non era più trasfigurato e il vecchio monaco era morto.

Padre nostro e Ave Maria

Teofilo, allora, corse nella cappella e s’inginocchiò come se fosse davanti a Dio; si rivolse a Lui come se il Signore stesso lo stesse ascoltando, Gli offrì la vita del confratello come se la stesse accogliendo. Recitò il Padre nostro proprio come se il Padre fosse lì, anche se sapeva che non c’era. Recitò l’Ave Maria come se la Madonna potesse intercedere, anche se lui, Teofilo, sapeva che non c’era più. E adesso non c’era nemmeno più il suo starez. Poi tornò dal corpo morto del monaco.

Rimasto solo, non poteva nemmeno chiamare nessun vicino, perché la neve lo aveva quasi seppellito. Allora, dopo la chiesa andò nella cantina, là al buio, chiuse la porta perché nessuno potesse sentirlo e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni:

«Teofilooooooo! Teofilooooooo!» per sentire egli stesso la propria voce; per rendersi conto se c’era ancora, se era ancora vivo, adesso che, dopo tutti gli altri monaci, era morto anche lo starez.

«Teofilooooooo!» gridò ancora una volta, forse per spaventare la morte e dire con forza a se stesso che probabilmente era ancora vivo.

Uscì dalla cantina con calma e salì la scala come in processione, poi entrò nuovamente nella stanza che era stata dello starez, ne distese il corpo per terra perché non indurisse in quella posizione, poi ridiscese, preparò acqua e tovaglia e salì per lavarlo e rivestirlo con ciò che c’era di più bello in casa. Pettinò i capelli e la barba di

quell’ultima icona morta. Fece il segno della croce sulla fronte, sulle mani, sui piedi, poi lo lasciò e scese.

La veglia

Teofilo tentò di camminare molto lentamente e con calma, perché sapeva che solo così poteva superare quella notte dentro la notte. Andò in cucina, si sedette e preparò un po’ di caffè che bevve a sorsi lunghi e stanchi, poi si diresse alla falegnameria: nessuno poteva aiutarlo. Solo lui, proprio solo lui, poteva cercare gli assi, inchiodarli,

levigarli per fare la bara. Ci lavorò l’intero giorno. Avrebbe voluto stare un mese in quella bottega e scolpire ogni centimetro della bara, ma bisognava fare in fretta.

Quando scese la notte, portò quattro grandi candele vicino al corpo dello starez, le accese, collocò l’icona della Trasfigurazione davanti a quel corpo morto e passò la notte facendo la veglia. Pregò la notte intera, una preghiera gelata come la neve, come il volto di quel Cristo non-trasfigurato e come il corpo del vecchio monaco.

La celebrazione

Al mattino Teofilo tornò in chiesa, preparò l’altare e ogni angolo come per le più grandi solennità: Natale, Pasqua, Pentecoste. Accese tutte le luci e le candele. Solo non c’erano fiori, perché la neve aveva congelato tutto. Portò la bara al centro della chiesa, poi salì, caricò il corpo come si porta un bambino e lo depose là, attorniato da tutte quelle luci e dal terribile silenzio. Poi si preparò e celebrò con solennità, come in una grande basilica gremita di popolo di Dio.

«Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen! Il Signore sia con voi...». Silenzio. Per la prima volta in quella chiesa nessuno aveva risposto: “E con il tuo spirito”, ma Teofilo continuò fino alle esequie, tutto col massimo rigore.

Dopo la benedizione finale e l’ultimo canto, tolse i paramenti e trascinò la bara passando nella portineria, poi nella bottega di falegnameria fino alla sala degli ospiti e, da ultimo, aprendo e chiudendo porte, alla cucina. Là si fermò nuovamente, andò a prendere piccone, pala e zappa e tornò per togliere dapprima la neve e poi preparare la fossa. Il tutto gli richiese diverse ore di lavoro pesante, finché fece scendere la bara; la coprì e, con un fil di ferro, legò provvisoriamente due legni incrociati sopra, poi rientrò. Scaldò un po’ di latte e andò a dormire con una febbre altissima.

Ecco che cosa può diventare la vita di un monaco: è un uomo che deve avere una fede tanto grande, al punto da riuscire a vivere anche quando non la sente più.

Parecchio tempo dopo

Parecchio tempo dopo questi fatti, un monaco straniero si avviò all’eremo, spinto dalla necessità di ristorare la propria anima nel silenzio e nella preghiera. Anche lui, come Teofilo, aveva l’abitudine di affidare le proprie riflessioni a un fedele taccuino:

Mi trovai nella necessità di fermarmi un poco, per risentire più chiare le parole del mio Signore che mi accompagna ogni giorno e rivedere con più luce il suo Volto. So che il Signore è sempre con me e spesso è proprio Lui a portarmi a spalle, ma ci sono momenti in cui non lo vedo più, non lo sento più; allora divento triste e ho bisogno di fermarmi (è meglio prevenire questi momenti, ma a volte la mia pigrizia me lo impedisce). Allora faccio qualche giorno di ritiro spirituale, vado in una casa di preghiera, presso qualche chiesa o in un deserto e sempre un angelo cucina per me del pane – quel santo pane di Elia – che mi ridà la forza di riprendere il cammino.

Quel giorno avevo deciso: “Devo reincontrarmi con il Signore, devo rivederlo un poco. Sto camminando troppo al buio, e temo di sbagliare persino strada. Ho bisogno che egli si riveli nuovamente. Andrò al monastero di Santo Benedetto”. Ma quando iniziai a scendere la valle, un terribile temporale mi costrinse a entrare nella prima casa vicina. Per un momento pensai che fosse il monastero, ma non era così. Restai un poco con i contadini, le donne e i bambini, poi ripartii. Pensavo che fosse finito, invece era solo l’inizio; ma non mi rendevo conto di nulla: volevo solo arrivare, arrivare e incontrare.

Fui improvvisamente sorpreso da lampi, mi parve di essere in mezzo al fuoco e al terremoto, e mi rifugiai nuovamente in una casa. Pensai proprio che ero arrivato e che Lo stavo incontrando, ma non era il monastero. Era una cara famiglia, che mi accolse con tanta bontà. Ormai ero bagnato e preferii ripartire, poco dopo, in mezzo al temporale; a un certo punto, per il mio sforzo di camminare e la paura, quasi non ci vedevo più e non capivo dov’ero, quando tra piante e pietre vidi un’apertura. A una certa distanza mi sembrò una grotta, ed entrai. Mi fermai all’ingresso. Non avevo mai sentito un grido della natura tanto forte. Qualche tempo dopo, il cielo si rasserenò e solo in lontananza vedevo il chiarore degli ultimi fuochi tra le nubi. Allora arrivò un vento leggero, un vento che mi diede una pace profonda e restai ad assaporarla su quell’ingresso: pensai proprio di essere entrato nella “grotta di Elia”, là dove il Signore si rivela, e quando mi guardai attorno, con sorpresa, mi resi conto che era davvero la chiesetta del monastero, proprio dove volevo andare.

Per un istante, in quel vento leggero, sentii un profumo di pane che arrivava dalla cucina e, a poca distanza, sulla porta del monastero, su una scala vidi il monaco Teofilo che, con lattina e pennello, stava scrivendo qualche parola in precedenza cancellata. Non sapevo nulla di ciò che era capitato durante quel lungo periodo. Solo a tarda notte il monaco mi raccontò ogni cosa. Poi mi disse: “Dopo la morte dello starez ho ricevuto tante lettere di giovani che chiedevano di venire qui, in comunità, nel monastero, per vivere insieme a dei fratelli e molto vicini a Dio. A tutti risposi: Certo, verrete, ma non in questo momento: sto facendo un periodo di preghiera, digiuno e deserto; appena sarà finito vi chiamerò”. E soggiunse: “Come avrei potuto spiegare che qui Dio non c’era, mentre loro volevano proprio incontrarsi con Lui?”.

Era ormai molto tardi, ma andammo ancora in chiesa a ringraziare di essere nella grotta di Elia, su cui si possono abbattere temporali, terremoti, fuochi, ma dove arriva pure il vento leggero. In quel momento ero molto stanco e, forse per qualche secondo, mi sono addormentato o forse ho avuto una visione, non so: ma certo vidi quella chiesetta piena di giovani monaci che, insieme a Teofilo, cantavano il Gloria di Pasqua davanti all’icona della Trasfigurazione. E non fu una fantasia, visto che conservo ancora il rotolo della Regola che ciascuno di loro teneva in mano.

IL DIALOGO DEI MONACI

Capitolo XII

LA REGOLA

pag. 186-195

Preghiera introduttiva alla regola cristiana

Il rotolo si apriva con questa preghiera:


Sal 132, 1

Signore, com’è bello per noi vivere insieme, come fratelli.

Sal 132, 3

Su di noi c’è la tua benedizione e noi, giorno e notte, impareremo i Tuoi comandi.

Sal 118, 167

Quando l’anima mia mette in pratica i tuoi insegnamenti e li ama con cuore di fuoco

Sal 118, 171

Dalle mie stesse labbra esploderà un canto di ringraziamento perché mi hai insegnato i Tuoi comandi.

Sal 118, 125

Signore, noi siamo Tuoi servi, donaci intelligenza per comprendere i Tuoi insegnamenti.

Sal 118, 136

Troppe volte non abbiamo osservato i Tuoi comandi, per questo ho pianto da morire.

Sal 118, 115

Ora voglio impegnare tutte le mie energie per studiare e amare i Tuoi comandi.

Sal 118, 104

Signore, facendomi conoscere i Tuoi comandi istintivamente lascerò la strada del male.

Sal 118, 111

Come una eredità ho ricevuto tutti i Tuoi insegnamenti ed essi sono la gioia del mio cuore.

Sal 118, 18

Togli il velo dai miei occhi perché possa contemplare le meraviglie delle tue leggi.

Sal 118, 33

Imponimi come norma di vita la Tua volontà e io la seguirò per sempre.

Sal 118, 9

Come potrò essere buono, disciplinato, intelligente e puro? Solo se osservo i Tuoi comandi,

Sal 118, 8

Perciò faccio voto di osservare la Tua volontà

Amen.

Sul retro, con caratteri più minuti, Teofilo aveva scritto:

Ed ora, ubbidienti al comando del Salvatore Gesù Cristo, osiamo dire come Lui ci ha insegnato: Padre nostro che sei nei Cieli, sia santificato, lodato, glorificato e amato il tuo nome. Venga il tuo Regno sempre. Sia fatta la tua volontà in Cielo e in terra. Dacci oggi il nostro pane eucaristico e l’alimento del corpo. Perdona a noi i nostri peccati, come anche noi dobbiamo perdonare quelli che ci hanno offeso e non lasciarci cadere nella tentazione, ma liberaci dal male. Amen.

E, di seguito, aveva elencato una lunga sequenza di intenzioni da pronunciare risolutamente, per concludere con l’invocazione a Maria.

Regola per diventare cristiani

Crediamo in un Dio che è Padre e Creatore di ogni cosa. Crediamo in Gesù Cristo vero Figlio di Dio e prediletto del Padre, Gesù figlio di Maria divenuto uomo in Lei per opera dello Spirito Santo. Egli ha dato la vita per noi morendo sulla croce e chiede anche a noi di dare la vita per gli altri. Crediamo nello Spirito Santo che dà la vita e la rinnova. Crediamo che la Chiesa, comunità di tutti i cristiani, insieme a tutte le comunità del mondo, tende verso l’unità, la santità, la cattolicità che ci verranno date in pienezza nei Cieli nuovi e Terra

nuova. Crediamo nel Battesimo, segno del perdono e dell’identità

cristiana e crediamo nella vita eterna.

Desideriamo seguire la spiritualità del cammino per cercare il Signore Gesù come hanno fatto i Magi che, da terre lontane e pagane, hanno ubbidito all’invito di una luce che veniva dal cielo. Essi si lasciarono guidare e continuarono a camminare fino ad incontrare il Signore Gesù (Mt 2). Desideriamo fare il cammino interiore per conoscere il Signore, come ha fatto Maria che, anche quando non capiva, raccoglieva la storia di Gesù meditandola nel suo cuore e come gli Apostoli, che per tre anni hanno camminato a fianco di Gesù per capire Lui e il suo messaggio. Desideriamo fare il cammino interiore che ci porta ad amare Gesù come ha fatto Maria sua madre, Giuseppe il giusto, Maria Maddalena, Giovanni, i Santi Apostoli e tutti i Santi e i martiri della Chiesa. Desideriamo fare il cammino del servizio come Maria, che il primo giorno in cui portò Gesù su questa terra si mise in cammino per andare a servire, per diventare serva nella casa di Elisabetta e ancora desideriamo servire come Gesù, che lavò i piedi degli Apostoli e volle diventare loro servo prima ancora di diventare il “Servo sofferente”.

Desideriamo fare il cammino della missione e predicare il Vangelo a tutti, come ha fatto Gesù che “andava attorno per tutta la Galilea, insegnando in quelle sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno”(Mt 4, 23), e come Lui stesso ha chiesto agli Apostoli, prima di salire al cielo: “Andate dunque ad ammaestrare tutte le genti, battezzandole in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando ad osservare tutte le cose che vi ho comandate” (Mt 28, 19-20) e come hanno poi fatto gli stessi Apostoli, secondo quello che leggiamo negli Atti degli Apostoli.

Noi che desideriamo diventare cristiani ci impegniamo, con l’aiuto di Dio, a vivere una vita povera, che non offenda mai il nostro prossimo. Chiediamo al Signore il dono di non avere tra inostri vicini nessuno più povero di noi. Come un sano consiglio popolare dice di insegnare a pescare più che dare il pesce, riteniamo che sia insegnare a pescare, sia dare del pesce, se lo abbiamo, siano virtù evangeliche (Mc 6, 41-42; Lc 9, 16). Ci impegniamo a non accumulare tesori per noi (Mt 6, 19), sia perché conosciamo la vanità delle cose del mondo, sia perché tutto ciò che mettiamo da parte per noi può diventare furto a chi è più povero di noi.

In una vita semplice, ci impegniamo a moltiplicare i talenti ricevuti, non per arricchire, ma per poter servire di più (Lc 12, 16-21). Se il Signore Gesù ci farà la Grazia di una povertà eroica, saremo contenti di condividerla con Lui (Mt 8, 20). Ci impegniamo, con l’aiuto di Dio, ad essere puri di cuore per avere la grazia di poter vedere il Suo volto.

Ci impegniamo, con l’aiuto di Dio, ad ubbidire sempre a quello che la coscienza ci dice essere la volontà di Dio. Se ci siamo affidati alla volontà di un fratello-sorella come nostro fratello-sorella maggiore, crediamo che Dio si impegna a guidarci alla santità in quell’ubbidienza.

Promettiamo, con l’aiuto di Dio, di dedicarci a Lui e amarLo con

la mente, il cuore e tutte le nostre forze e riconoscerLo come unico Signore della nostra vita e di tutta la storia e, infine, osiamo chiedere il dono di amare come Gesù ci ha amati.

Promettiamo, con l’aiuto di Dio, di amare il nostro prossimo e anche chi non ci ama, chi ci perseguita e ci disonora con ogni sorta di malvagità. Lo ameremo perché sappiamo che quello è il nostro prossimo che più ha bisogno di amore.

Desideriamo condividere con Gesù il ministero del perdono, che è chiesto a tutti i cristiani; pertanto, con l’aiuto di Dio, facciamo voto di perdonare tutto a tutti e sempre.

Ci impegniamo a lottare contro tutto ciò che riconosciamo come peccato, abbassando così le montagne di egoismo, superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia e ci impegniamo a riempire tutti i vuoti della nostra vita con le virtù di fede, speranza, carità, sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio, per preparare la strada al Signore, come ci insegna Giovanni Battista. In questo modo daremo buon esempio al prossimo, diventando sale della terra e luce del mondo.

Ci impegniamo ad essere mansueti e umili di cuore per assomigliare al Signore Gesù. Accoglieremo le prove e ogni sofferenza come grazia dalle mani di Dio e non vogliamo che il nostro pianto sia macchiato dall’insofferenza del giogo offertoci dal Signore Gesù per fare la volontà del Padre.

Ci impegniamo a costruire la pace, non la pace del mondo che è quiete, benessere, ricchezza, tranquillità, desiderio di evitare ogni problema e ricerca di soddisfazione in tutto, ma vogliamo essere costruttori della pace di Dio, che è sfida, lotta contro l’ingiustizia simile alla spada e al fuoco, fatica di affrontare tutti i problemi che possiamo risolvere con le nostre forze e l’aiuto di Dio. Costruire la pace di Dio significa compiere quelle azioni senza le quali non saremmo in pace con la nostra coscienza, né con Dio stesso.

Riconosciamo come nostro dovere cristiano incontrare con profonda amicizia le persone, le famiglie, le comunità, dicendo nell’intimo del nostro cuore: “La Pace di Cristo venga a voi!”. Sappiamo che questo è un comando del Signore Gesù.

Chi di noi è sposato s’impegnerà ad amare con tutte le forze la propria moglie o il marito e i figli, perché la famiglia è il grande dono di Dio al mondo. Per quel che riguarda la morale familiare, faremo di tutto per seguire gli insegnamenti della Chiesa e i consigli di un padre/madre spirituale che ci aiuti a discernere la sincerità della nostra coscienza. Quando l’ubbidienza a una morale sana della famiglia diventasse troppo pesante, non dimenticheremo che molti nostri fratelli e sorelle vivono la vita di celibato per scelta o a causa di malattia, povertà o ancora di lavori che tengono i coniugi separati per lunga parte dell’anno o addirittura per anni consecutivi.

Riteniamo comunque che lo stesso digiuno e penitenza, unito alla preghiera, possa essere un mezzo privilegiato per vincere la tentazione e ogni male. Ci impegneremo, con l’aiuto di Dio, ad essere trasparenti e sinceri di fronte a noi stessi, alla comunità, agli altri (Mt 5, 37).

Cercheremo di dare il pane, se lo abbiamo, a chi ci chiede il pane e il pesce a chi ci chiede il pesce, senza cercare le mille scusanti che impediscono la solidarietà con i fratelli e sorelle del mondo; noi sappiamo che, se daremo i nostri cinque pani e due pesci, il Signore farà il resto (Mt 14, 13-21). Gesù non ha mai detto a nessuno: “Abbi pazienza! Non posso fare nulla per te”. Di fronte ai malati, ai sofferenti, agli affamati, ai morti, ai peccatori, Gesù ha sempre dato una risposta al grido – espresso o tacito – dei fratelli o sorelle che si affidavano a Lui. È uno stile di vita che fa dire: “Quello è Gesù Cristo, è il Figlio di Dio” e se noi seguiamo lo stesso stile farà dire a chi ci vede: “Quello è un cristiano”.

Gesù, la sera della Resurrezione, si aggrega a due discepoli che vanno verso Emmaus, tristi. Cerca di spiegare loro le Scritture per capire la Resurrezione, ma essi faticano a comprendere, anche se chi spiegava era il miglior catechista del mondo. Solo quando spezzò il pane per loro lo riconobbero: quello era lo stile di Gesù, il suo modo di fare. Gesù non solo ama, ma fa anche capire all’amato/a che gli vuol bene. Gesù ha dato un altro segno per far capire chi è Lui: la lavanda dei piedi. Tre evangelisti, per ricordare l’ultima cena e quindi l’istituzione dell’Eucaristia, ricordano il pane spezzato dato ai discepoli, mentre Giovanni ricorda la lavanda dei piedi per dire la stessa realtà, per dire chi è Gesù e cos’è l’Eucaristia. Se vogliamo capire un poco l’Eucaristia, la strada è questa.

Quando spezza il pane per noi, Gesù ci dice: “Questo è ciò che dovete fare anche voi; quando vorrete ricordarvi di me spezzate il pane per gli altri, quando vorrete far memoria di me, spezzate il pane per gli altri, quando vorrete celebrare la mia memoria, spezzate il pane per gli altri. Vi dirò di più: questo ‘spezzare il pane’ sono io stesso. Questo spezzare il pane per gli altri, questo lavare i piedi agli altri: questo sono io. Se qualcuno vi chiederà chi è il vostro amico che si chiama Gesù, direte che é il pane spezzato per gli altri”. In modi diversi Gesù dice: ricordate, io sono pane spezzato, sono lavanda dei piedi, fate anche voi questo in mia memoria. Se farete questo, quando gli altri prenderanno tra le mani il pane che avete loro donato, in quel momento si apriranno i loro occhi della fede e mi riconosceranno in questo segno.

Ci impegniamo, con l’aiuto di Dio, a testimoniare una sincera fede nella Provvidenza di Dio. Crediamo che ci darà tutto ciò di cui abbiamo bisogno, Lui che provvede a rivestire i fiori e a nutrire gli uccelli, molto di più penserà a noi (Mt 6, 26). Con la preghiera, poi, chiederemo i suoi doni, affinché possiamo sperimentare la sua Provvidenza e renderci conto non solo di quanto ci accompagna, ma del fatto che è dentro di noi più di quanto noi siamo in noi stessi.

E quando poi il Signore ci offrirà il dono della sofferenza, sapremo che è proporzionata alle nostre forze, è pedagogia di Dio, è per il bene nostro e del mondo e ci fa il dono di associarci alla Croce di Gesù Cristo e quindi alla sua Resurrezione. Nel silenzio della preghiera chiederemo a Gesù che ci battezzi col fuoco e lo Spirito Santo: il fuoco brucerà i peccati e i dubbi della nostra fede e lo Spirito Santo testimonierà che Gesù è il Figlio di Dio prediletto dal Padre (Mt 3, 13). Nello sforzo di perdonare gli altri cercheremo anche di vedere quanto sono grandi i nostri difetti che pure devono essere perdonati (Mt 7, 3).

Chiederemo al Signore di produrre sempre sull’albero della nostra vita abbondanti frutti di bene per non meritare di essere considerati inutili, tagliati e buttati nel fuoco a bruciare, foss’anche solo per un momento (Mt 7, 20).

Ci impegniamo a costruire la nostra casa sulla solida roccia della fede, della speranza e della carità e non sulla sabbia dei dubbi (Mt 7, 24). Riconosciamo l’importanza della preghiera e del digiuno perché solo con questi si vincono la pigrizia di fare il bene e ogni tentazione. Come il buon Samaritano, ci impegneremo a curare il prossimo, infondergli vita, offrirgli la gioia del perdono se ne ha bisogno e liberarlo dai mali, secondo le forze che abbiamo.

Sappiamo di aver ricevuto molto e per questo molto dobbiamo dare.

Ringrazieremo il Signore Gesù se saremo perseguitati per causa sua e, quando dovremo testimoniare per Lui, non ci preoccuperemo di cosa dire, perché lo Spirito del Padre parlerà in noi: questo crediamo (Mt 10, 18 ss). Da parte nostra ci impegneremo ad essere semplici come colombe, ma non ingenui e ci lasceremo anche guidare dalla prudenza dei serpenti (Mt 10, 16 b).

Ci impegneremo a predicare, con tutte le nostre forze, tutta la verità che conosciamo: la proclameremo sia con le parole, sia con la nostra vita, a seconda delle circostanze (Mt 10, 27). Ci sforzeremo di invocare tante volte il Signore ripetendo il suo nome in viaggio o sul letto della sofferenza o durante il lavoro o ancora nel tempo specificatamente dedicato alla preghiera.

Ci serviremo di classiche espressioni di fede come: Gesù, abbi pietà di noi; Gesù Figlio di Dio, abbi pietà di noi; Gesù Figlio di Dio e di Maria, abbi pietà di noi; o ancora, Gesù santo, immortale Figlio di Dio, abbi pietà di noi, o altre espressioni come queste. Questo lo ripeteremo, non per assomigliare agli ipocriti che credono di essere esauditi solo per le moltiplicate parole nella preghiera, o a chi crede che sia sufficiente pronunciare il nome del Signore tante volte; no, ci impegneremo a ripetere le parole della preghiera per ottenere il dono e la forza di fare la volontà di Dio sempre, fino alla fine della vita (Mt 7, 21).

Ci proponiamo di diventare discepoli di Gesù ascoltando la sua

Parola nella Sacra Scrittura e preparandoci ad entrare nel nuovo

Regno di Dio, impegnandoci così a diventare Cristiani.

Ci impegneremo ad accogliere in casa nostra il giusto, che ci insegnerà ad essere giusti, il profeta che ci indicherà nuove vie per alimentare il nostro spirito, ma accoglieremo allo stesso modo il povero, il pellegrino e chi, in qualche modo, è nel bisogno; sappiamo infatti che chi accoglie un fratello o una sorella accoglie Gesù Cristo e chi accoglie Gesù accoglie il Padre (Mt 10, 40).

Non solo ci impegneremo ad accogliere gli altri, ma anche a raggiungerli, specialmente nel momento del bisogno, come ha fatto Maria che corse ad aiutare la cugina e come siamo invitati ancora da Gesù a raggiungere tutti i poveri, cioè i nudi, gli spogliati di ogni bene e, oltre agli affamati e assetati, anche i malati, i carcerati e tutte le persone che vivono sulla strada, tutti i nomadi, i pellegrini del mondo. Gesù garantisce che è presente in ciascuno di essi e, anzi, che la Trinità stessa ha preso dimora nei loro cuori. Ci impegneremo ad essere mansueti e umili di cuore, perché così era Gesù e ci chiese espressamente di imparare da Lui per diventare tali (Mt 11, 29).

Ci impegniamo ad ascoltare la Parola di Dio non distrattamente, non superficialmente, perché non ci capiti che, dopo aver messo le prime radici, la vediamo seccare sotto i nostri occhi, ma la coltiveremo con tutte le nostre forze perché porti il frutto atteso nel terreno che il Signore stesso ci ha donato (Mt 13, 18-23). La grande pazienza di Dio nell’attendere che zizzania e grano buono crescano insieme ci aiuterà ad essere umili di fronte al mistero del male in mezzo a noi.

Ci proponiamo di diventare discepoli di Gesù ascoltando la sua Parola nella Sacra Scrittura e preparandoci ad entrare nel nuovo Regno di Dio, cioé impegnandoci a diventare Cristiani. Dedicheremo tutte le nostre forze a costruire il Regno di Dio. Il Regno è il luogo reale dove si compie la volontà di Dio e Dio stesso diventa nostro Re.

Gesù parla dei regni del mondo come macchine di forza, distruzione e potere. Ben diverso è il Regno di Dio: il suo Re nasce in una grotta a Betlemme. Il suo esercito è composto di uomini e donne che si sono lasciati torturare, bruciare, masticare dalle belve feroci, impiccare, mentre il loro Condottiero è un uomo inchiodato su una croce. Quando il Signore ci mostrerà ciò che vuole da noi, vorremmo essere pronti a lasciare tutto per fare solo più ciò che ci viene richiesto: come chi ha scoperto la perla preziosa rinuncia a tutto il resto per quella sola, così vorremo fare noi quando Dio ci manifesterà la Sua volontà.

Ci impegneremo a buttare via dalla nostra vita tutti i residui di male, come il pescatore separa i pesci non buoni da quelli buoni. Crediamo ancora che non sia importante fare grandi cose, ma solo ciò che Lui vuole. Anche le piccole cose, le piccole “volontà di Dio” di tutti i giorni sono come un seme di senape nelle mani di Dio e un po’ di lievito che pare nulla ma che, se messo nel tempo e luogo giusto (nella pasta), diventa grande cosa (Mt 13).

Lavoreremo attivamente nella Chiesa, comunità di tutti i nostri fratelli e sorelle, nell’unica fede di Cristo Risorto, in pellegrinaggio verso la pienezza del Regno di Dio (Mt 16, 18-20) e parimenti lavoreremo attivamente, con lo stesso entusiasmo, con l’intera comunità umana che si allaccia a tutte le culture e fedi diverse. Ci proponiamo di essere presenza di Chiesa tra loro. Anche dove non ci vorranno, cercheremo di restare e intensificare le azioni della carità cristiana perché, attraverso il nostro spezzare il pane con loro, essi riconoscano Cristo. Con fratelli e sorelle di religioni diverse da quella cristiana predicheremo la conversione del cuore.

Ci impegneremo con tutte le forze per diventare umili e piccoli come bambini (Mt 18, 1-4; Mt 19, 13-15). Coltivando l’umiltà cercheremo di non voler dominare sugli altri e scegliere per noi gli ultimi posti (Mt 20, 20-28). Ci impegneremo a onorare i luoghi sacri, in particolare il corpo umano nostro e dei nostri fratelli e sorelle, perché è casa dove abita la Trinità. E, se ne avremo la possibilità e la forza, grideremo e agiremo contro ogni tipo di profanazione, specialmente quando ne è vittima il nostro prossimo e specialmente i bambini (Mc 9, 41; Mt 21, 12-13).

Ci impegneremo alla costruzione di una società più giusta, considerando ogni dimensione sociale e culturale come campo di lavoro dal quale non intendiamo astenerci (Mt 22, 15-22; Mc 12, 13-17). Con l’aiuto di Dio aumenteremo sempre più i tempi di silenzio e di preghiera, per meritare di vedere il suo Volto e testimoniarlo agli altri (Mc 9, 1-12). Crediamo poi che nella preghiera diamo a Dio la possibilità di manifestare la sua costante Provvidenza per noi e ancora nella preghiera troveremo la grazia della misericordia e del perdono per noi e per gli altri (Mc 11, 20-26).

Coltiveremo in noi i frutti dello Spirito Santo: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5, 22). Accoglieremo, come impegno primario, l’annuncio del Vangelo a tutte le genti. Le persone che non potremo raggiungere saranno sostenute dalle nostre preghiere e dalla condivisione di beni anche economici, impegnandoci a coinvolgere anche altri (Mc 16, 15-16; Mt 28, 18-20).

Spirito del Signore, scendi anche su di noi e consacraci per annunciare ai poveri il Vangelo, mandaci a guarire i cuori spezzati; ad annunciare la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi; mandaci a rimettere in libertà gli oppressi e a predicare la misericordia e l’amore.

Preghiera a Maria

Ci rivolgiamo a Te, o Madre del Verbo, perchè non disattendi nessuno, specialmente se peccatore. Ti chiediamo la Grazia di fare la volontà di Dio, il suo desiderio e di realizzare il suo progetto sopra la nostra vita, anche contro la nostra volontà, a costo di qualunque cosa: gioia, sofferenza, salute, malattia, vita o morte. Ti chiediamo ancora di amare sempre di più la Trinità: il Dio tuo Padre, tuo Figlio, il tuo Sposo e amare sempre di più Te, Maria, il prossimo e vivere senza peccato. Tu, Maria, intercedi la Vita Eterna per noi. Amen.