Nella grotta di Elia

Don Renato Rosso
Edizioni Dehoniane Bologna (1995)

Dal retro di copertina:

Dal 1972 don Renato Rosso vive con i nomadi: per 12 anni in Italia, per 8 in Brasile e da 3 anni è in Bangladesh. La sua vita è molto simile a quella di un monaco. Un monaco "sui generi", se si tiene conto di come vive, ma pur sempre uno che sa per esperienza che cosa vuoi dire cercare Dio nella solitudine. "Mi trovo su una barca di Jajabor (zingari) nella parte sud del Bangladesh - scrive in una lettera del febbraio 1995 - In questo periodo ci spostiamo due-tre volte la settimana da un fiume grande a uno più piccolo, da un canale a un alto, da un incrocio di fiumi talmente grandi che non si vedono più le sponde a una piccola rientranza, dove la barca riesce a passare con fatica. Spesso bisogna remare. A volte il vento è favorevole e ci aiuta, a volte l'acqua mescolata al fango non permette più la normale navigazione. Allora si scende e si spinge la barca, come si farebbe con una macchina in panne. Sul fiume è sempre possibile passare da una barca all'alta, per scambiare qualche servizio. Si può andare a prendere un tè e poi ritornare per le normali occupazioni. Dopo alcuni giorni ci si dimentica che si vive su un fiume, tanto la vita diventa normale, come sulla terra ferma. La fatica maggiore è non poter condividere con la gente i miei momenti di preghiera. Nessuno di loro è cristiano e il mio permesso di permanenza in Bangladesh, paese islamico, è legato a una condizione precisa e rigorosa: nessuna attività religiosa verso i non cristiani, per evitare ogni rischio di proselitismo". La testimonianza del "monaco" Renato riportata in queste pagine va letta su questo sfondo. Una vita tra i Jajabor musulmani del Bangladesh, dove non è consentita alcuna evangelizzazione esplicita, e di Gesù Cristo si può parlare solo con la vita, senza risultati verificabili. Tutto all'insegna della più radicale gratuità.

IL TESTO COMPLETO DEL LIBRO:

Presentazione

Il testo che presentiamo è nato sotto le tende degli zingari. È dal 1972 che don Renato Rosso vive con i nomadi: 12 anni in Italia, 8 anni in Brasile e da 3 anni è in Bangladesh.La sua vita è molto simile a quella di un monaco. Un monaco sui generis, se si tiene conto di come vive, ma pur sempre uno che sa per esperienza che cosa vuol dire cercare Dio nella solitudine.

«Mi trovo su una barca di jajabor (zingari) nella parte sud del Bangladesh — scrive in una lettera del febbraio '95 —. In questo periodo ci spostiamo due-tre volte la settimana da un fiume grande a uno più piccolo, da un canale a un altro, da un incrocio di fiumi talmente grandi che non si vedono più le sponde a una piccola rientranza, dove la barca riesce a passare con fatica. Spesso bisogna remare. A volte il vento è favorevole e ci aiuta; a volte l'acqua mescolata al fango non permette più la normale navigazione. Allora si scende in acqua e si spinge la barca, come si farebbe con una macchina in panne.

Ieri abbiamo remato quasi dodici ore, con una piccola pausa nel po-meriggio, quando il vento ci ha fatto riposare un poco. Avevamo iniziato a viaggiare alle prime luci del giorno, nella nebbia densa che permetteva a malapena di vedere le altre barche quando erano vicine. Sul fiume è sempre possibile passare da una barca all'altra, per scambiare qualche servizio. Si può andare a prendere un tè e poi ritornare per le normali occupazioni. Dopo alcuni giorni ci si dimentica che si vive su un fiume, tanto la vita diventa normale, come sulla terra ferma.

La fatica maggiore è non poter condividere con la gente i miei mo-menti di preghiera. Nessuno di loro è cristiano e il mio permesso di permanenza in Bangladesh, paese islamico, è legato a una condizione precisa e rigorosa, nessuna attività religiosa verso i non cristiani, per evitare ogni rischio di proselitismo.Due o tre volte la settimana si arriva a un paese nuovo, e la vista di un oggetto così strano come uno straniero di pelle bianca scatena la curiosità. "Di dove vieni?", "Perché sei qui?", "La tua famiglia è con te?", "Che stipendio prendi?". Rispondo alle domande e la risposta passa di bocca in bocca, in uno show che si dilata sempre più. "È un italiano; è missionario; non si vergogna dei poveri; anzi, lavora per loro. Per Dio, non si è sposato!... i missionari cristiani non si sposano!". Stupore di molti, che risento anche al mercato, poco dopo: "Sì sì, non si è sposato, per Dio!", "Ha studiato..., ha certamente studiato molto..., ma non si è sposato, per Allah!"; "Sta con dei jajabor e non si vergogna...".Arriva la notte. Finalmente tutti dormono e io posso celebrare l'eucaristia e prolungare un poco la preghiera.Forse non ho mai predicato tanto come in questo tempo in cui non lo posso fare, e le celebrazioni in questa piccola catacomba non potrebbero essere più intense...».

La testimonianza del «monaco» Renato riportata in queste pagine va letta su questo sfondo. Una vita tra i jajabor musulmani del Bangladesh, dove non è consentita alcuna evangelizzazione esplicita, e di Gesù Cristo si può parlare solo con la vita, senza risultati verificabili. Tutto all'insegna della più radicale gratuità. Si sta qui — ripete don Renato — perché lui ha detto di andare in tutto il mondo, a tutte le genti, non solo là dove si può parlare esplicitamente di lui.

«A me basta condividere la loro vita, fare il loro stesso lavoro, poterli amare e accogliere la loro amicizia, testimoniare che Dio li ama, e ancora pregare per loro e a nome loro. È la vita del monaco, che qui conoscono abbastanza. In più, c'è il fatto che i nomadi in Bangladesh vivono in una situazione di emergenza. Non hanno scuola, né assistenza sanitaria, e spesso mancano del necessario per la sopravvivenza. Mi sono così interessato della scuola. Non faccio questo lavoro direttamente. Ci pensano alcune piccole organizzazioni sociali, che, insieme ai nomadi, abbiamo interessato al caso. Sono nate così diverse scuole, in barca o in tenda, come semplice segno di amicizia. Di tanto in tanto le visito, senza che questo mi impedisca di fare la mia vita normale. Tutto questo si può chiamare evangelizzazione o pastorale ? È certamente una pastorale incompleta, ma è l'unica che si possa fare qui».

Dunque vita di monaco. Cercatore di Dio in vita nomade, senza nessuno con cui poter condividere la propria fede.

In queste condizioni è molto difficile scrivere un libro. Quando nel 1983 don Renato pubblicò L'uomo nostra seconda eucaristia (EDB), mi precisò che quel testo era stato il suo «taccuino di viaggio»; adesso dice che Nella grotta di Elia non è nemmeno questo. Sono solo «fogli sparsi», grida di sofferenza e di entusiasmo, riflessioni sulla preghiera, l'eucaristia e la comunione con l'intero universo.

Queste pagine dice di averle scritte per sé e per gli amici, per coloro cioè che sanno fare lo sforzo di leggere oltre le righe, in ciò che non è stato scritto o è rimasto incompleto. Gli amici da una pagina sanno recuperare anche i fogli andati perduti, e sanno intravedere il senso di quelle righe che dopo un temporale sono diventate illeggibili.In ogni caso, questo scritto resta un pezzo della sua vita monastica. Egli dice che l'accampamento di nomadi in cui vive è il suo monastero, mentre la tenda e la barca sono la cella. Lì non si sente per nulla soffocare, ma riesce a respirare in sintonia con il mondo in tutte le sue dimensioni.La «grotta di Elia», dunque, è il monastero, il luogo dove Dio si rivela e insieme si nasconde; per analogia è il cuore del monaco e di ogni credente. In questo cuore umano si possono scatenare le tempeste, i dubbi, le angosce, le paure. Ma in esso vince sempre il Dio che si rivela. Di tutto questo si parla nelle pagine che seguono. Per allusioni più che in modo diffuso. Ma in una narrazione avvincente, che fa intravedere qualcosa della ricerca, della gioia, della fatica di un cercatore di Dio — il Dio di Gesù Cristo — in un paese musulmano.Il testo è composto di due parti: una storia di monastero e un diario postumo del «monaco Francesco».I monaci Bruno e Francesco sono i protagonisti di questa avventura umana. Nella loro storia la dimensione della preghiera va purificandosi fino a raggiungere la gratuità. E l'eucaristia, che è la grande preghiera di Gesù, rivela la comunione dell'uomo con Dio e con gli altri. Quando poi l'uomo prende coscienza di essere un corpo solo con tutta l'umanità e ne assume coerentemente tutte le conseguenze, in questa comunione universale sperimenterà la morte e la risurrezione. LUIGI GUCCINI

Introduzione

Il monastero, più che ogni altro luogo, continua a interrogarci sul senso della preghiera. Nel mondo moderno, dove la sensibilità alle realtà sociali è più accentuata, la preghiera del monastero viene a gridare dentro di noi se abbia senso non solo un simile tipo di preghiera, ma qualsiasi tipo di preghiera.

È chiaro che non voglio parlare delle orazioni del mattino e della sera, della preghiera prima e dopo i pasti, del segno di croce e l'«Ave Maria» quando, dopo aver allacciato le cinture di sicurezza, l'aereo si alza in volo lasciandoti in un senso di pericolo e di abbandono.

Pregare perché?
Perché chiedere a Dio tante cose quando egli stesso sa ciò di cui abbiamo bisogno molto prima che glielo chiediamo?
Perché offrire a Dio nella preghiera tante cose, compresa la nostra vita, quando già tutto è suo da sempre?
Perché ricordare a Dio questa o quell'altra intenzione dicendo: «Ricordati, Signore, di...; non dimenticarti di ...»; quando in realtà siamo noi che ci dimentichiamo, ma Dio non ha mai dimenticato una sola cosa?
Dobbiamo chiedere molte volte perdono, se crediamo che egli è infinita misericordia?

E se la nostra lode, adorazione e ringraziamenti non aggiungono nulla a Dio, e se tutte le preghiere dell'umanità non servono a rendere un poco più felice Dio di quanto sia già, perché dedicare tempo a questo?

Ma allora perché pregare?Il mondo oggi fa fatica a intendere. E i monaci ci danno ancora un pugno allo stomaco perché, oltre a piegare qualche volta, consacrano la vita intera a questo. Ma ha senso?

Perché Gesù dedicò tanto tempo alla preghiera da solo, quando era in continua comunione con il Padre? Che bisogno ne aveva?

Gesù chiese agli apostoli e a "tutti di pregare, ma come mai nei Vangeli non incontriamo quasi mai gli apostoli riuniti con Gesù a pregare per tempi lunghi, al punto che nell'orto degli Ulivi, essi dovevano essere così poco abituati a pregare che dormirono tutto il tempo e meritarono il rimprovero di Gesù: «Non avete saputo vegliare nemmeno un'ora»?

Quando terminai di fare tutte queste e altre domande sulla preghiera al monaco Francesco, egli mi disse: «Adesso abbiamo già fatto tardi e io devo andare a pregare... Se vuoi venire anche tu...».

È ovvio che andai. Ero là già da alcuni giorni proprio per questo, per capire meglio il senso e il perché dell'inginocchiarsi, quando esistono tanti servizi ai fratelli che ci chiedono tutto il tempo e mi sembra proprio che il tempo dedicato alla preghiera sia rubato ai fratelli bisognosi. Così Francesco non rispose a nessuna delle mie domande, o forse rispose a tutte, ma in ogni caso mi lasciò interdetto. Mentre stavo in fondo alla chiesa, sotto un poco di luce, ripresi in mano due lettere scritte qualche tempo prima a due amici novizi di un monastero francese.

Iniziai a leggere la prima.

«Carissimo Roberto, sono contento di come è andata la tua avventura con Dio. Hai cominciato a uscire con Dio; lui ti ha portato nel deserto e si è rivelato al tuo cuore. Tu sai che quando Dio si rivela è più difficile rifiutarlo che sceglierlo.Viene poi la fatica della fedeltà, quando non vedi più nulla, quando non ricordi più la trasfigurazione del Tabor, quando cammini per la Gerusalemme capace di uccidere, quando nell'orto degli Ulivi sudi sangue, quando ti flagellano, quando sali per il Calvario, caro amico, e senti la croce troppo pesante o i chiodi che fanno troppo male; e mentre stai per morire, gli altri, la gente, i pensieri, le tentazioni dentro di te gridano: "Scendi dalla croce!" e tu hai tutta la possibilità di farlo fino all'ultimo momento. Carissimo, io ti auguro di farcela, di morire nella sua volontà. Mi ri-cordo di alcune tue preoccupazioni pastorali. Da parte mia avevo cercato di dirti che ciò che contava era la tua conversione. Forse ci spaventa morire da soli.Se cerchi la tua vita la perdi, vai fuori strada. Se ti fa impressione vedere un chicco di grano che crepa sotto terra, non piangere troppo: è la vita. Il chicco di grano che non ha avuto paura di consegnarsi ha la vita in abbondanza. In sintesi, questa consegna porta alle tre beatitudini, ai tuoi tre voti:

— voto di povertà: beati i poveri;
— voto di castità: beati i puri;
— voto di obbedienza: beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica.

Più vai sottoterra, meno cerchi di riemergere e liberarti dalla terra che ti soffoca, più ti sfasci in fretta e più in fretta perdi la figura dell'uomo vecchio, tanto più in fretta entri nel cuore di Dio. Se a una farfalla chiedi che cos'è il fuoco di una piccola candela che brilla, ti dirà: "È calore". Ma se tu chiederai ancora: "Che cosa è veramente il fuoco?", ti potrà dire: "È luce". Se ti ostini a chiedere ancora: "Spiegami meglio che cos'è il fuoco", la farfalla probabilmente andrà vicino alla fiamma per scoprire il segreto di quel cuore luminoso e tornerà a dirti: "È una luce che brucia e rischia di distruggerti".

Se poi ripeterai la stessa domanda e se la farfalla vorrà veramente sapere cos'è il fuoco e dovrà farne l'esperienza per capire davvero, vedrai una fiammata.

Solo in quel momento la piccola bestiola avrà capito che cosa è il fuoco, ma non lo dirà a nessuno, se non al fuoco stesso. Penso che questa sia anche la tua esperienza dei primi mesi a Saint Honorat.Ti auguro di avvicinarti sempre più al fuoco; forse non andrai a spiegare a nessuno che cos'è, ma la tua missione sarà una fiammata nella misteriosa storia della salvezza.

Diventare cristiani vuol dire celebrare l'eucaristia, diventare mercenari, diventare monaci, diventare martiri, lasciarci afferrare dalla grazia di Dio che ci prende tra due dita paterne e ci sotterra, affinché da quel chicco che siamo, nasca la vita».

Poi con lo sguardo cominciai a scorrere anche l'altro foglio.

«Carissimo Michel, grazie per la lettera e per le due foto e ancora più del tuo ricordo. Mi hai comunicato la data della tua professione religiosa, uno dei primi passi del lungo cammino. Forse speravi di vedermi. È sempre bello rivedere un amico e ti ringrazio perché mi consideri tale.

Quel giorno non sono venuto a Saint Honorat perché abbiamo benedetto una nuova fraternità nomade.Prendo l'occasione per dirti che, oltre il fatto di non essere venuto ora, non verrò mai più da te. Adesso ti spiego.

Quando un giovane entra nella clausura, lascia tutto e in qualche modo tutti, per incamminarsi nel deserto dove c'è Dio solo, e Dio solo basta. Nessuno dei tuoi amici tornerà da te. Sì, è vero, potremo venire all'isola; anch'io spero di venire tante volte, senza però raggiungere il tuo cuore, perché ormai esso è con lui, con Dio solo, e nessuno dei tuoi amici potrà raggiungere questo silenzio.

Anche se verrò all'isola, anche se verrò nella clausura, ti passerò solo accanto, senza raggiungerti, perché tu vivrai altrove. Anche i tuoi fratelli che condividono la vita con te, ti accompagneranno solo alla soglia del grande deserto. Tu lo sai: quando uno muore e lascia questo mondo, gli amici e i familiari lo accompagnano fino alla soglia della vita; ma quando questi dovrà passare oltre, lo si lascia solo e solo egli s'incontrerà con Dio. Così penso per la vita monastica: tutti i tuoi amici fino alla soglia e poi il grande silenzio: tu e Dio» 1

Conclusi: che strano! Ho già incontrato tante risposte, ma chissà perché torno a ripetere queste domande?!

Forse perché non esistono risposte come quelle che si incontrano sul catechismo, che sembrano diabolicamente chiare e invece sono cariche di mistero almeno quanto è mistero Dio stesso. E rimasi là, nella chiesa, con la testa fra le mani e mi dicevo: «Se i tempi di preghiera prolungati nella mia vita di tanto in tanto entrano in crisi, quanto mai deve entrare in crisi questa vita, vita di monaci che è fatta particolarmente del senso della preghiera?».

E pensai che se per caso qualche monaco mi avesse raccontato qualcosa della sua notte, della notte dei sensi e, pertanto, del senso della preghiera stessa, avrei potuto intravedere proprio in quel buio un po' di luce per aiutarmi a capire il senso di ciò che stavo cercando.

1 Da R. Rosso, La Consegna. Fate questo in memoria di me, EDB, Bologna 1987.

Capitolo primo

LA GROTTA DI ELIA

Nell'estate erano arrivate centinaia di persone al piccolo monastero di Santo Benedetto e, dopo aver respirato un po' di quell'aria e contemplato la valle, avevano esclamato in modi diversi: «Che bello!», «Che luogo santo e benedetto!».

Questo è appunto il nome del monastero: «Santo» perché là vi abita il Santo, e benedetto perché è piaciuto a Dio, e quando Dio dice che una certa cosa gli piace noi diciamo che è bene-detta da lui. I bambini avevano giocato sul prato a lato della casa santa e vicino al ruscello avevano corso e saltato giornate intere rincorrendosi, salendo sugli alberi, cacciando gli insetti o qualche nido di uccelli; avevano dato sfogo a tutte le energie infantili da farsi venire la febbre e da concludere: «Che bello stare qui!».

Gli adulti si erano dedicati di più a pregare, riflettere, studiare insieme, lavorare nell'orto e fare cucina. Le famiglie diventate amiche del monastero cercavano là la forza per vivere il Vangelo con sempre più coerenza e offrivano ai monaci la loro amicizia, le loro energie giovani; lavorando insieme, dando così vita al monastero.

Una delle tante case del popolo

Il monastero ha tanti secoli; anzi: ne ha troppi per sapere quanti, e persino l'incisione su pietra più antica si è dimenticata la data di quando è stata posta: si intravedono pochi segni che dovevano esse re dei numeri, ma il tempo li ha cancellati.

A scanso di equivoci la chiesa del monastero è molto più simile alle antiche cappelle dei campi che alle basiliche romane o alle cattedrali gotiche. Là è tutto molto semplice.

Anche la casa dei monaci e degli ospiti è molto simile alle altre antiche case dei contadini. Tutte le pietre in quella valle sono poste allo stesso modo e con la stessa armonia, per cui il monastero stesso è una delle tante case del popolo. E i monaci, bisogna pur dirlo, non sono tanti.

Pensando a questo monastero, mi ricordo di un altro che all'epoca dei saraceni aveva raccolto nelle sue mura quasi quattrocento monaci per scampare alla persecuzione turca, ma proprio là, in quest'isola così sconosciuta, arrivarono i fedeli della «guerra santa» e lì li trafissero tutti: tutti morti, anzi: due si erano nascosti, ma alla fine uno dei due si consegnò dicendo: «Io non sono diverso dagli altri». E sopravvisse così un unico monaco.

Il nostro monastero «Santo Benedetto» secoli fa era una comunità assai numerosa, poi con gli anni morirono i monaci; morirono, morirono, fino a rimanere in due: i monaci Bruno e Francesco.

Figli fedeli della più antica tradizione monastica

Era l'inizio di dicembre. Le famiglie avevano diradato le visite alla casa santa e la neve aveva cominciato a scendere, isolando sempre più quelle due creature, figli fedeli della più antica tradizione monastica. Ma una comunità così piccola in certi momenti rischia di sentirsi soffocare.

È per questo che in quell'inizio di dicembre il monaco Francesco, forse un poco disanimato, forse pensando alla sua comunità, forse pensando a san Francesco di cui portava il nome, scrisse su un pezzo di carta che puzzava di formaggio vecchio: «Ho la tentazione di pensare che tutte le cose radicalmente evangeliche sono piccole. Ahimè! Temo di aver pensato una stupidaggine, ma preferisco chiedere scusa per averla scritta che cancellarla» e dimenticò quel pezzetto di carta tra le pagine della Bibbia.

Di fatto, pensando alle comunità di qualunque tipo, è difficile immaginare degli interi eserciti di santi, di martiri, di monaci.

Gli apostoli di Gesù erano dodici, i discepoli di Francesco di Assisi erano la metà e i monaci di Santo Benedetto sono rimasti in due. Eppure Bruno e Francesco hanno sempre fatto la proposta a tanti giovani per essere in tanti nella comunità.Quindi quel pensiero di Francesco è stato forse una tentazione per non sentirsi frustrato, essendo in una comunità tanto piccola.

Un alveare di preghiera e di lavoro

Comunque, anche quando l'inverno rinchiude i due eremiti nella loro prigione monastica, l'attività non diminuisce: semplicemente muta; ma la casa santa continua a essere un alveare di preghiera e di lavoro.

Bruno travasa il miele, accudisce le api; poi prende badile e cazzuola, sabbia, cemento e calce e riforma i muri più vecchi; poi con chiodi e martello ripara il tetto, riassesta i pavimenti; poi, come se non bastasse, lavora nella sua falegnameria e nel laboratorio di artigianato. Francesco dipinge icone. Prepara la tinta di fondo, poi con tecnica non comune, passa la prima mano sulla tavola di legno ben levigato. Cominciato l'abbozzo, egli già vede l'immagine, ma non ha fretta: prepara le sue tempere, il tuorlo d'uovo con l'aceto bianco, i pennelli, le vernici naturali; tutto con molta religiosità, perché sa che dipinge un'immagine santa. Francesco, quando dipinge le icone, prolunga il tempo della preghiera in chiesa, parla di meno, proprio per accogliere l'anima dell'Invisibile.

Signore, mostrami il tuo volto

Mentre dipinge prega: «Signore, mostrami il tuo volto. Signore, mostrami il tuo volto». Continua a passare le tinte più chiare su quelle scure lasciando emergere la luminosità del volto.

Francesco continua pregando: «Signore, non nascondermi il tuo volto» e lo ripete tante volte quante sono le infinite pennellate. Poi l'oro, poi la cornice e da ultimo porta l'icona al monaco Bruno perché la benedica; così nuovamente Francesco si inginocchia e contempla l'anima del volto. Francesco è un poeta e un mistico, e se non fosse che il monaco Bruno ha i piedi per terra, morirebbe di fame e di freddo come un passero abbandonato d'inverno. Ma la sua comunità lo fa vivere e lui fa vivere la sua comunità.

Natale, poi l'Epifania

Era arrivato il Natale, poi l'Epifania e la neve non era arrivata a ostruire proprio tutti i passaggi; di tanto in tanto un po' di sole ne scioglieva una parte e l'inverno risultava mite.

Per Natale avevano fatto tutte le celebrazioni solenni e qualche volta era pure apparsa qualche famiglia di contadini relativamente vicini per condividere momenti tanto sacri.

Tutto continuava normalmente: Bruno continuò a preparare un paio di tavoli da cucina per i contadini, poi passò alcuni giorni a rivedere un trattore di una famiglia vicina (è sottinteso che Bruno è anche meccanico) ; poi ci fu il lavoro di travasare il miele e sempre da accudire quei benedetti alveari. Francesco dipingeva le icone per diverse comunità che le avevano richieste, intanto la preghiera ritmava i vari tempi della vita in monastero e tutto il lavoro era dedicato al servizio.

Inaspettato e terribile

Ma un certo giorno, verso la fine di gennaio, dopo aver fatto le preghiere del mattino, capitò qualcosa di inaspettato e terribile in Santo Benedetto. Francesco se ne accorse per primo; si alzò dal suo sgabello senza dire parola e andò a guardare a un palmo di distanza l'icona di Gesù Maestro posta sull'ambone. La osservò bene e, con sorpresa, gli sembrò senza quella luce consueta che emanava dal volto. Gli occhi non erano più penetranti, anzi sembravano spenti; quell'icona sembrava senz'anima, anzi sembrava morta, proprio morta.

Mentre Francesco tentava di non rendersi conto dell'accaduto, il monaco Bruno, accorgendosi dello stesso fatto, anch'egli senza dire una parola, corse ad accendere i due fari sull'immagine dipinta sul catino absidale della chiesa.

Dico che Bruno è corso per vedere se faceva in tempo, con più luce, a rianimare quel volto, ma il volto era già spento. Allora accese tutte le candele che c'erano nella chiesa, perché la fiamma di fuoco è molto più calda, più viva, ma nulla valse a ridare vita a quei volti.Almeno le icone dei santi a lato... No, anche quelle si erano spente.

Intanto Francesco era andato a passare la mano sull'icona della Madonna della tenerezza, ma, con sorpresa, anche il volto di lei era rimasto senz'anima.

Il pane

Mentre Francesco passava uno a uno i quadri della via crucis, Bruno andò nella sagrestia a prendere la chiave del tabernacolo e tornò subito visibilmente agitato, al punto che non riusciva nemmeno più ad aprire la piccola porta del tabernacolo stesso.

Si accese la lampada dell'ostensorio e questo, tutto dorato, mostrò tra i riflessi dei raggi tutta la sua bellezza e solennità. Sì, anche questa volta si presentò solenne come sempre. Ma quando Bruno guardò bene l'ostia che stava nel mezzo, là dove incontrava sempre il cuore del mondo, la presenza di Cristo, vide solo un pezzo di pane bianco. Avvicinò la mano, lo toccò: era proprio solo pane.

Accostò la porta senza più chiuderla e si avvicinò a Francesco che si era messo a leggere a voce alta la Bibbia.

Le parole

Bruno si sedette e Francesco declamò a voce alta l'intera lettura del giorno, con la speranza di sentire almeno la parola di chi era assente; ma quando arrivò alla fine non incontrò in sé la forza per dire almeno sottovoce: «Parola di Dio». Si era reso conto che era una delle tante parole simili a quelle pagine di romanzo che leggeva prima di entrare in monastero per ammazzare il tempo.

Se nella Bibbia fossero rimaste almeno le parole di Dio sarebbe stato sufficiente, ma rimasero solo le parole. Bruno e Francesco non si erano ancora detta una sola parola l'un l'altro.

Per un turista non era cambiato nulla

La porta della chiesa cigolò ed entrò un signore che dava l'impressione di essere un turista; fece mezzo segno di croce e la genuflessione, guardò con stupore tutte quelle luci accese e le candele, poi si rivolse a Francesco: «Mi hanno detto che voi avete del miele da vendere, vero?». «Sì — disse Francesco — ma per il miele è con lui che deve parlare», disse indicando il confratello a cui subito si rivolse lo sconosciuto.

Bruno andò a prendere il miele, lo portò nella portineria, prese quei due soldi con molta semplicità e si congedò con il passante che non si era reso conto di nulla.

Certo che per un turista non era cambiato nulla: il colore delle icone era lo stesso, il tabernacolo, i quadri della via crucis, la Bibbia esposta: tutto sembrava uguale. Ma per i due monaci, abituati a contemplare l'Invisibile, tutto era cambiato, perché l'Invisibile non c'era più.

Francesco andò a mescolare un po' di granoturco e biada per le galline, poi munse la mucca, scaldò il latte, fece il caffè e collocò sul tavolo un formaggio, le tazze, cucchiai, coltello, bicchieri, acqua.

Convivere con l'assurdo

Suonò il campanello per la colazione, ma Bruno non venne e rimase nel laboratorio. Francesco pure non si sedette, lasciò raffreddare il latte, il caffè, dopo di che ritirò tutto dal tavolo, e cominciò a lavare posate, tazze e bicchieri.

Nel frattempo Bruno passò in cucina e disse: «Com'è Francesco che lavi quella roba che è pulita?».

«Eh!... Bisogna abituarsi a vivere in un altro modo: vivere come se... come se esistesse ciò che non vediamo e come se non esistesse ciò che crediamo di vedere... Oh, sta' tranquillo che io non sono diventato filosofo, io so appena lavare i piatti sporchi e puliti».«Vuoi dire che bisogna cominciare a convivere con l'assurdo!». «Eh!... Eh!».

Che ora era?

Prima che Bruno uscisse dalla cucina, Francesco domandò : «Bruno, che ora era?». E Bruno, intendendo bene, disse ancora mezzo confuso: «Avevamo appena terminato i salmi delle lodi, quindi dovevano essere circa le sette e un quarto»; poi uscì.

La domanda di Francesco e la risposta di Bruno si riferivano all'ora in cui Dio stesso, la Madonna, i santi, tutti, proprio tutti, avevano lasciato il monastero Santo Benedetto ed erano andati via, lasciando i due poveri monaci atei e soli.

Francesco intanto, appena si riebbe un poco e sentì il cervello più libero, prese una lattina di tinta e con la scala andò a cancellare la scritta sulla porta del monastero «Santo Benedetto», perché non c'era più il Santo e il luogo non era più benedetto.

La notte più buia

Nel Vangelo si parla di un signore che partì per un lungo viaggio e diede in amministrazione ai suoi servi i propri beni.

Si parla pure delle vergini prudenti che aspettarono con le lampade accese con la certezza che lo sposo sarebbe arrivato. E Gesù stesso sulla croce gridò: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

E dopo la morte di lui, anche gli apostoli rimasero atterriti e delusi al punto che qualcuno aveva già ripreso la strada di ritorno a casa (verso Emmaus), sapendo che quella storia di liberazione non si sarebbe mai più realizzata.

Questi all'incirca furono i pensieri che i due monaci si comunicarono alla sera prima di ritirarsi nelle proprie stanze. Bruno e Francesco sapevano bene che tutti i mistici sono passati per queste notti terribili, ma adesso la loro notte era la più buia di tutte.

Tutto come se...

Decisero di fare tutto come prima, di fare l'adorazione in chiesa proprio come se Dio ci fosse, recitare i salmi e leggere la Bibbia esattamente come se fosse la parola di Dio, celebrare la messa come se Cristo ritornasse presente come tutte le altre volte e contemplare le icone come se fossero vive anche se erano morte. L'unica differenza fu che prolungarono i tempi di questa assurda preghiera fatta di dialogo intimo e personale con nessuno e prolungarono anche il tempo di lavoro.

Digiunarono due giorni la settimana e tentarono di moltiplicare i gesti di carità nella loro piccola comunità. Ma, di tanto in tanto, uno andava in crisi: «Perché continuare a fare tutto questo?». Tutto questo sacrificio quando non c'era nemmeno Dio che dicesse loro grazie.

Francesco un giorno disse: «Quando noi facevamo queste cose, prima che Dio se ne andasse, le facevamo forse per far piacere a lui? Forse perché ci dicesse grazie? Sarà che bisogna passare per questo assurdo buio per arrivare alla gratuità?».

«Eh! La gratuità... la gratuità» bisbigliò Bruno.

La gloria di Dio

Poco dopo tornò in cucina con una decina di pezzi passati al tornio, traforati e scalpellati con infinita pazienza. «Al fuoco al fuoco...» gridava, mentre li faceva a pezzi piccoli. «Li ho fatti perché piacessero a chi me li ha comandati e li ho aggraziati per la gloria di Dio! Ah! Ah... Per la gloria di Dio! Devo rifare tutto... tutto da capo! Te lo immagini Dio che riceve gloria dai miei legni scolpiti, dalle mie orazioni, dai miei digiuni? Ma Dio non ha bisogno di questo! Al fuoco, al fuoco!...». E continuava a mettere quelle opere d'arte nella stufa.

Francesco, quando si rese conto, corse al piano di sopra, dove dipingeva, e prese le ultime tre icone. È vero: non avevano il volto, ma i vestiti, quelle infinite pieghe, il dorato di fondo, le cornici... Alzò l'accetta e le fece in tanti pezzi. Non le aveva ancora viste nessuno, proprio nessuno, né il monaco Bruno né Dio stesso, perché egli aveva già lasciato il monastero quando Francesco le aveva cominciate. E scese anche lui per aumentare il fuoco.

Poi i due monaci cominciarono a ridere, ridere, ridere, come chi ha perso il controllo dei nervi: « Sì, sì, questo diventa un manicomio... ma è più bello un manicomio dove si ride che un monastero dove si piange».

E continuarono a ridere proprio come due ubriachi fino a perdere le forze. Sembrava quasi che Dio fosse tornato al monastero, ma no... era stata solo una breve parentesi.

Preghiera e digiuno

E la vita riprese normale: Francesco dipingeva, Bruno lavorava nella sua bottega. Preghiera, digiuno, tutto come poteva desiderare la regola più severa.

«Bruno, mi dici perché continuiamo a digiunare?».«Non so perché digiuni tu, da parte mia digiuno perché non ho più nessun motivo per farlo... né per Dio, né per me, né per gli altri... Mi alleno alla gratuità».

«E allora anche io mi alleno alla gratuità».

Ma il momento più difficile era la celebrazione della messa. Come celebrare la grande comunione con Dio quando proprio lui non c'è? Come celebrare la sua presenza in mezzo a noi mentre è assente?

Ma i nostri monaci non lasciarono mai di vivere tutto come sempre, facendo le stesse cose, proprio come se Dio stesse abitando là. Quando non digiunavano, la sera cenavano con castagne e polenta o latte, e intanto si raccontavano, ripetevano, ricordavano tutte le cose che si dicono gli intellettuali, i mistici e la gente più rozza e rude del campo.

«Dio solo»

Una sera Francesco esclamò: «Bruno, quella parola scritta su tante porte dei nostri monasteri : "Dio solo", "Dio solo basta", spesso è intesa in un modo grottesco. Molti pensano che noi monaci non abbiamo bisogno di molte cose nella vita. Molti pensano che ci accontentiamo di poche cose al punto che per noi Dio è sufficiente. Così come si pensa che a quel mendicante basti un pezzo di pane e acqua per vivere, a quell'altro basti una camicia anche d'inverno e ai monaci basti Dio solo, quasi fossero persone che si accontentano di tanto poco. Penso che bisognerebbe correggere questo modo di pensare, perché questa parola significa che noi siamo i più pretenziosi che esistono al mondo. Noi possiamo dire a qualcuno: "A te possono bastare tutti i dollari degli Stati Uniti, i castelli della Loira e le fazendas del Brasile, ma a un monaco questo non basta; al monaco basta solo Dio, soltanto più Dio può riempire il cuore di un monaco". Non è così?».

«Anch'io penso che bisogna correggere questa idea distorta che al monaco basti poco, che gli sia sufficiente Dio. Il peggio è che questo pensiero non è solo di gente profana, ma spesso lo coltiviamo come zizzania delle nostre case... Ma Francesco, che cosa capita a un monaco insaziabile, insaziabile al punto che gli basta soltanto più Dio?».

«Ho capito, ho capito... Che cosa fa questo monaco insaziabile quando resta senza Dio?...».

Né Dio, né polenta, né castagne

«A noi non sono rimasti dollari, né castelli, né fazendas, ma i pochi soldi del miele, una casa vecchia e un orto coperto di neve ed egli se ne è andato».

Francesco mangiò le quattro castagne che gli restavano in mano, poi uscì a prendere altra legna, segno evidente che il discorso doveva prolungarsi fino a tardi, e rientrò già commentando: «Eh! noi, i monaci insaziabili!» e continuò facendo fuoco.

Bruno guardò nella pentola e commentò: «Noi, i monaci insaziabili, non abbiamo nemmeno più castagne!».

«Cuociamo un altro po' di castagne, Bruno, tanto andremo per le lunghe e domani è giorno di digiuno».

«Ah già, domani per gli insaziabili anche il giorno di digiuno: né Dio, né polenta, né castagne».

Francesco prese il sale, un po' d'erba dolce e quattro manciate di castagne e mise tutto nell'acqua che stava già bollendo.

E subito il monaco Bruno riprese: «Allora? Che cosa capita a un monaco diventato insaziabile al punto che gli basta soltanto più Dio, quando... quando... quando gli capita ciò che è capitato a noi?...». E si grattava la testa sembrando nervoso, ma subito tornò calmo.

Restarono a lungo in silenzio. Francesco appoggiò la testa sul tavolo e Bruno pensò che stesse dormendo, così passò abbastanza tempo.

La gratuità

Le castagne si cucinarono, il fuoco si affievolì al punto che Bruno andò a prendersi un altro giaccone più pesante e non pensò che fosse necessario mettere altra legna, in quanto credeva che la serata fosse finita dopo quelle castagne che restavano da mangiare. Francesco alzò la testa e, come se stesse continuando un discorso già avviato, concluse: «Dunque, se noi pensiamo che le nostre preghiere e digiuni facciano contento Dio, se pensiamo che con i nostri atti di carità lo rendiamo glorioso, se pensiamo che con la nostra santità (come se fosse nostra!) facciamo Dio più felice, penso che egli stesso non abbia altra alternativa che lasciarci soli, se vuole educarci».

«Gratuità... Gratuità... » concluse Bruno.
«Può essere proprio così».

Terminarono di mangiare le castagne e la cucina sì stava ormai raffreddando. Ammucchiarono le bucce, ritirarono la pentola dal fuoco e si incamminarono nella chiesa per l'ultima preghiera della notte e prima di arrivare in cappella Francesco disse ancora a Bruno: «Quindi nella notte dei sensi il monaco deve vivere come se Dio esistesse».

«Sì, come se Dio esistesse, perché nella notte il monaco sa che Dio non esiste più... se Dio stesso non torna».

Tensioni

Giorni e notti si susseguirono in quella scuola di gratuità: ma il grande vuoto, il digiuno, il lavoro intenso e il sonno molto ridotto furono cause di grandi tensioni: in certi momenti i due monaci non si capivano più, ogni gesto di carità che uno faceva si trasformava in offesa per l'altro. Si odiavano, si chiedevano scusa, si perdonavano e tornavano a offendersi come se questo fosse diventato un'esigenza chimica della convivenza; tornò la calma, in seguito la burrasca nuovamente. Ma ciascuno desiderava tanto il bene dell'altro e ciascuno era così dimentico di se stesso che non si accostumavano a vivere questi momenti di tensione che poi si diradavano nuovamente.

Il tempo della trasfigurazione

L'inverno era arrivato al culmine, tutte le strade erano bloccate per la neve e questa continuava a scendere come se volesse coprire tutte le cose interamente e seppellirle.

Bruno quel mattino attese abbastanza il confratello che stava ritardando come non aveva mai fatto, poi lo chiamò, fuori da ogni consuetudine, e salì per vedere se avesse bisogno di qualcosa. Entrando nella stanza, vide Francesco inginocchiato e accasciato sul banco di lavoro dove troneggiava una grande icona.

Questa volta Francesco aveva deciso di dipingere il volto: era l'icona della Trasfigurazione. Quando Bruno la guardò e si rese conto che Francesco non era più vivo, si domandò: «Sarà passato Dio, almeno per un momento? Almeno il tempo della trasfigurazione?».

Era possibile pensarlo, anzi era probabile, ma nessun segno del divino poteva garantire che questo fosse accaduto. Ormai il volto del Cristo trasfigurato non era più trasfigurato e Francesco era morto.

«Padre nostro» e «Ave Maria»

Bruno corse nella cappella e si inginocchiò come se fosse davanti a Dio; si rivolse a Dio come se il Signore stesso lo stesse ascoltando, offrì la vita del suo confratello come se Dio la stesse accogliendo. Recitò il «Padre nostro» proprio come se il Padre fosse lì, anche se Bruno sapeva che non c'era. Recitò «Ave Maria» come se ella potesse intercedere anche se lui, Bruno, sapeva che non c'era più e adesso non c'era nemmeno più il confratello Francesco. Poi tornò dal corpo morto del monaco.

Rimasto solo, Bruno non poteva nemmeno chiamare nessun vicino, perché la neve lo aveva quasi seppellito. Allora, dopo la chiesa andò nella cantina, là al buio, chiuse la porta perché nessuno potesse sentirlo e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni: «Bruuuuuuuuno! Bruuuuuuuno!» per sentire egli stesso la propria voce; per rendersi conto se egli c'era ancora, se era ancora vivo, adesso che, dopo tutti gli altri monaci, anche Francesco era morto.

«Bruuuuuuuuuuuuno!» gridò ancora una volta, forse per spaventare la morte e dire con forza a se stesso che probabilmente era ancora vivo.

Uscì dalla cantina calmo e salì la scala come in processione, poi entrò nuovamente nella stanza che era stata di Francesco, distese quel corpo per terra perché non indurisse in quella posizione, poi ridiscese, preparò acqua e tovaglia e salì per lavare il corpo e lo vestì con ciò che c'era di più bello in casa. Pettinò i capelli e la barba di quell'ultima icona morta. Fece il segno della croce sulla fronte, sulle mani, sui piedi poi lo lasciò e scese.

La veglia

Bruno tentò di camminare molto lentamente e calmo perché sapeva che solo così poteva superare quella notte dentro la notte. Andò in cucina, si sedette e preparò un po' di caffè che bevve a sorsi lunghi e stanchi, poi si diresse alla falegnameria: nessuno lo poteva aiutare. Solo lui, proprio solo lui, poteva cercare gli assi, inchiodarli, levigarli per fare la bara. Ci lavorò l'intero giorno. Avrebbe voluto stare un mese in quella bottega e scolpire ogni centimetro della bara, ma bisognava fare in fretta.

Quando scese la notte, portò quattro grandi candele vicino al corpo di Francesco, le accese, collocò l'icona della Trasfigurazione davanti a quel corpo morto e passò la notte facendo la veglia. Pregò la notte intera, una preghiera gelata come la neve e come il volto di quel Cristo non-trasfigurato e come il corpo di Francesco.

La celebrazione

Al mattino Bruno tornò in chiesa, e preparò l'altare e ogni angolo come per le più grandi solennità: Natale, Pasqua, Pentecoste. Accese tutte le luci e le candele. Solo non c'erano fiori, perché la neve aveva congelato tutto. Portò la bara al centro della chiesa, poi salì e caricò il corpo così come si porta un bambino e lo depose là, attorniato da tutte quelle luci e il terribile silenzio. Il monaco Bruno si preparò e celebrò con solennità, come se avesse celebrato in una grande basilica gremita di popolo di Dio.

«Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen! Il Signore sia con voi...».

Silenzio. Per la prima volta in quella chiesa nessuno aveva risposto: «E con il tuo spirito», ma Bruno continuò fino alle esequie, tutto con il massimo rigore.

Dopo la benedizione finale e l'ultimo canto, tolse i paramenti e trascinò la bara passando nella portineria, poi nella bottega di falegnameria, venne aprendo e chiudendo porte fino alla sala degli ospiti e da ultimo alla cucina. Là si fermò nuovamente e andò a prendere piccone, pala e zappa e tornò per togliere dapprima la neve e poi preparare la fossa per la bara. Il tutto occupò diverse ore di lavoro pesante e da ultimo fece scendere la bara; la coprì e provvisoriamente legò con un filo di ferro due legni incrociati sopra, poi rientrò. Scaldò un po' di latte e andò a dormire con febbre altissima.Ecco che cosa può diventare la vita di un monaco: il monaco è un uomo che deve avere una fede tanto grande al punto che riesce a vivere anche quando non la sente più.

* * *

Parecchio tempo dopo...

Parecchio tempo dopo questi fatti mi sentii nella necessità di fermarmi un poco, per risentire più chiare le parole del mio Signore che mi accompagna ogni giorno e rivedere con più luce il suo volto. Io lo so che il Signore è sempre con me e spesso è proprio lui a portarmi a spalle, ma ci sono momenti in cui non lo vedo più, non lo sento più; allora divento triste e ho bisogno di fermarmi (è meglio prevenire questi momenti, ma a volte la mia pigrizia me lo impedisce). Allora faccio qualche giorno di ritiro spirituale, vado in una casa di preghiera, presso qualche chiesa o in un deserto e sempre qualche angelo cucina per me qualche pane (quel santo pane di Elia) che mi ridà la forza di riprendere il cammino.

Quel giorno avevo deciso: «Devo reincontrarmi con il Signore, devo rivederlo un poco. Sto camminando troppo al buio, e temo di sbagliare persino strada. Ho bisogno che egli si riveli nuovamente. Andrò al monastero di Santo Benedetto».

Quando iniziai a scendere la valle, un terribile temporale mi costrinse a entrare nella prima casa vicina. Per un momento pensai che era il monastero, ma non era il monastero. Restai un poco con i con-tadini, le donne e i bambini della casa, poi ripartii. Pensavo che fosse finito, invece era solo l'inizio; ma io non mi rendevo conto perché volevo solo arrivare, arrivare e incontrare.

Fui improvvisamente sorpreso da lampi, mi parve di essere in mezzo al fuoco e al terremoto: e mi rifugiai nuovamente in una casa. Pensai proprio che fosse il monastero, che ero arrivato e che lo stavo incontrando; ma non era il monastero. Era una cara famiglia che mi accolse con tanta bontà.

Ormai ero bagnato e preferii ripartire, poco dopo, in mezzo al temporale; a un certo punto, per il mio sforzo di camminare e la paura, quasi non ci vedevo più e non capivo più dov'ero, quando tra piante e pietre vidi un'apertura. A una certa distanza mi sembrò una grotta, ed entrai. Mi fermai all'ingresso.

Non avevo mai sentito un grido della natura tanto forte. Qualche tempo dopo, si rasserenò e solo in lontananza vedevo il chiarore degli ultimi fuochi in cielo.

Arrivò un vento leggero, un vento che mi diede una pace profonda e restai là ad assaporarla su quell'ingresso: pensai proprio di essere entrato nella «grotta di Elia», là dove il Signore si rivela, e quando mi guardai attorno, con sorpresa, mi resi conto che ero proprio entrato in quella santa «grotta»: ero all'ingresso della chiesetta del monastero, proprio dove volevo andare.

Per un istante, in quel vento leggero, sentii un profumo di pane che arrivava dalla cucina e a poca distanza, sulla porta d'ingresso del monastero, vidi il monaco Bruno su una scala con lattina e pennello, che stava scrivendo qualche parola in precedenza cancellata.Non sapevo nulla di ciò che era capitato al monastero durante quel lungo periodo. Solo a tarda notte il monaco mi raccontò ogni cosa.

Poi mi disse: «Dopo la morte di Francesco ho ricevuto tante lettere di giovani, che chiedevano di venire a vivere qui, in comunità, nel monastero, per vivere insieme a dei fratelli e molto vicini a Dio. A tutti risposi: "Certo verrete, ma non in questo momento; perché io sto facendo un periodo di preghiera, digiuno e deserto; appena sarà finito vi chiamerò"».

Poi Bruno aggiunse: «Come avrei potuto spiegare che qui Dio non c'era, mentre loro volevano proprio incontrarsi con lui?».

Era ormai molto tardi; ma andammo ancora in chiesa per ringraziare. Ringraziare per essere nella grotta di Elia, dove si possono abbattere temporali, terremoti, fuochi, ma dove arriva pure il vento leggero.

In quel momento ero molto stanco e forse per qualche secondo mi sono addormentato o forse ho avuto una visione, non so: ma certo vidi quella chiesetta piena di giovani monaci che insieme a Bruno cantavano il «Gloria» di Pasqua davanti all'icona della Trasfigurazione.

Capitolo secondo

PREGHIERA E OFFERTA

Dopo la morte del monaco Francesco, è stato trovato un diario con preghiere. Forse, in alcuni momenti, egli pregava scrivendo. È probabile che le pagine che seguono siano state scritte poco prima dei fatti riportati nel primo capitolo e prendano spunto dall'occasione di una celebrazione: i vent'anni di vita in monastero.

Confessione

Domenica. Signore, nella vita io continuo a offrirti delle monete e tu continui a rifiutarle e me le ributti in faccia, dicendomi che non ti interessano.

Continuo a chiederti di aiutarmi a superare le tentazioni, specialmente le piccole, quelle di tutti i giorni, quelle nelle quali mi inciampo ogni momento.

Ecco i peccati che credo di avere e ti prego di liberarmi: i peccati contro la povertà, la castità e l'ubbidienza alla tua volontà.

Mi lamento dei miei attaccamenti a piccole cose e spesso non riesco nemmeno ad aiutare chi chiede soccorso con la scusa di non sapere che tipo di soccorso domanda veramente o se finge di chiedere un'elemosina per poi assaltarmi del tutto; è il peccato del soprappiù che incontro nella mia vita che a volte mi pesa e mi fa sentire incoerente. Ecco alcune monete che vorrei saper darti, Signore, e quando riesco a dartele tu me le ributti in faccia e mi dici che non vuoi delle monete da me, ma il mio tesoro, e io non capisco...

Ti chiedo, come san Paolo, perché faccio il male che non voglio e non faccio il bene che voglio? E ti chiedo di liberarmi dalle tentazioni contro la castità: ecco i miei pensieri stupidi, i desideri e le tentazioni dei commercianti del mondo che mi spingono sempre a curiosare tra le sue immagini, le sue proposte, i suoi colori, le sue musiche, i suoi spettacoli. Sempre mi tentano di curiosare se incontro qualcosa per farmi felice, perché ho bisogno di felicità e il tempo passa e corre in fretta, e in me diventa sempre più forte la malinconia di non essermi divertito, la paura di non sapermi divertire più, di perdere le feste che i commercianti del mondo mi propongono.

Ma io ho promesso a te, Signore, che non volevo vivere di queste cose, ma solo per te; e questo grido mondano nella mia carne mi divide e vorrei superarlo. E vorrei poterti offrire ogni giorno le mie consegne con coerenza, vorrei essere vincitore di tutte queste cose, e quando ci riesco mi pare di avere finalmente qualcosa da offrirti. Queste sono le mie monete, che di tanto in tanto ti do e tu, puntualmente, me le ributti in faccia, dicendomi che vuoi il mio tesoro e non monete, e io non ti capisco...

Ecco altri peccati che credo di avere: quelli contro l'ubbidienza alla tua volontà. Io conosco le cose che mi chiedi e sono pigro, mi ribello, contratto con te i tempi della preghiera.

Spesso ho cose da fare, ho molte cose da fare, molto importanti e indispensabili, che mi scusano dal celebrare in fretta i tempi che ho precedentemente dedicato a te.

Eppure saranno così importanti le cose che credo di dover fare? Se per milioni di anni io non le ho fatte e per milioni di anni io non ci sarò più a farle, sarà che possono essere così indispensabili?

E spesso mi sento frustrato perché vorrei avere più monete da darti, essere più generoso, più attento, più vero, e quando riesco a fare in parte questo e darti qualcuna di queste monete, tu me le tiri in faccia e mi dici che vuoi il mio tesoro perché là c'è il mio cuore, e io continuo a non capirti...

Ma forse oggi mi dici qualche parola nuova dopo la mia confessione.«Figlio, i tuoi peccati contro la povertà non sono quelli, perché fin quando ti occuperai dei poveri e ti preoccuperai di non occupartene, o fin quando piangerai per non riuscire a fare una coerente scelta per essi, e fino a quando tu pregherai per i poveri, tu starai ancora cercando monete da darmi, che io rifiuterò. Tu sarai ancora al di là della barricata e non farai parte dei beati.

Quando non avrai più nulla e sarai tu a chiedere l'elemosina e quando qualcuno ti chiederà il pane e tu chiederai a tua volta ad altri se hanno qualcosa da darti, e, ricevendo cinque pani e due pesci, li darai ancora agli altri, allora io compirò miracoli e tu sarai beato.

Figlio, tu chiedi pure di essere liberato dalle tentazioni contro la castità. Somigli a certuni che fanno lunghi esercizi per dimenticare il corpo e la materialità di loro stessi.

Ti lamenti di non essere totalmente insensibile ai richiami dei commercianti del mondo, ma questa è soltanto una eco lontana, quasi impercettibile, che tu credi ancora di sentire. Il tuo vero peccato contro la castità è che la tua carne è morta, il tuo corpo è diventato insensibile al grande grido urlato del mondo. Tu non reagisci più, non senti più che gli altri esistono davvero e nella tua ascesi, con la pretesa di avvicinarti a me che sono il tuo Dio, ti sei solo allontanato da essi, dai tuoi fratelli, sorelle, figli e figlie.

Sei diventato infecondo e impotente, senza più la forza di trasmettere la vita al mondo che grida aiuto, immerso nel grande terremoto sociale.

Il tuo peccato è che hai rinunciato alla paternità, ad avere dei figli e sentirti responsabile per essi, specialmente gli indifesi; e tu non li senti più, non li vedi: ti passano davanti sullo schermo della televisione e sfogliando il giornale, ma non ti interpellano più di tanto. Sono "altri" da te, e tu non vuoi assumerti la tua paternità responsabile; tu ti dimentichi che sono carne della tua carne.

Figlio, la castità è una virtù attiva e non passiva, è la virtù dei vivi e non dei morti. Non è una virtù di anestetizzati, di ipnotizzati, ma è la virtù dei lottatori e dei rivoluzionari, che hanno la forza di mettersi in prima linea di fronte al pericolo per difendere gli altri.

Quando un giovane, davanti alla condanna a morte, pianse per la moglie e i figli, e un prete si fece avanti dicendo all'aguzzino: "Lascia libero lui, io vado a morire al suo posto", in quel momento il celibe si è assunto la responsabilità di quei figli e di quella moglie: non ha rinunciato alla vera paternità, ma li ha fatti suoi, e per difenderli ha mandato a casa il loro papà e marito perché li difendesse. Il celibe non ha rinunciato a essere fecondo, per questo è morto per loro.

Adesso capisci perché non mi interessano le tue monetine, né quando le spendi male, né quando riesci con mille sforzi a risparmiarle per darmele: io voglio il tuo tesoro perché là c'è il tuo cuore.

Figlio, tu mi vuoi dare delle monetine dell'ubbidienza; tu dici di conoscere i miei desideri e invece ti senti negoziante del tempo per me quando il tempo non ti appartiene. Ebbene va', butta via l'orologio, il breviario; getta all'aria il messale, il pane, il vino, tutto quello che hai nella sagrestia, i libri di devozione se ne hai, tutto; poi vieni qui disarmato, vieni qui a sederti un poco vicino a me che sono il tuo Dio.

Smetti di celebrare la messa, smetti tutto, considerati sospeso a divinis, perché sei diventato un agitato del tempo; occupati solo di venire senza preoccupazione di orari, vieni da solo, senza libri, senza oggetti sacri, senza incenso, senza parole. Vieni solo tu da solo, porta solo il tuo cuore. Io ho qualcosa da dirti o, meglio, ho qualcosa da darti. Ho del fuoco da mettere nel tuo cuore, e se questo riuscirà ancora a bruciare e prendere fuoco tu sarai salvo.

Se quando, tornando nella tua vita quotidiana, guardando l'orologio, invece di dire: "Mi mancano ancora cinque minuti prima di finire l'ora di adorazione" riuscirai a dire: "Signore, che bello! ho ancora cinque minuti per stare qui", e se qualche volta comincerai a dire, dopo aver terminato il tuo tempo della preghiera: "Signore, mi permetti di stare ancora cinque minuti qui? Lo so che tu mi fai pressione per il servizio, ma concedimi ancora cinque minuti, poi vedrai che ricupererò e non lascerò mancare nulla al servizio ai miei figli che tu mi chiedi", ecco, quando comincerai a pensare così col cuore, allora potrai nuovamente andare a prendere il breviario, ricollocare i segni al giorno, alla settimana, agli inni, alle memorie dei santi; poi riprenderai il messale, raccoglierai il pane e il vino da dove li avevi buttati; li prenderai con rispetto e li collocherai sulla tovaglia dell'altare tra le candele, l'incenso, le luci, la musica e i canti, e sarai riammesso ad alzare il calice della salvezza e invocare il nome del Signore, perché non ti preoccuperai più delle monete, in quanto il tuo tesoro, che è il tuo cuore, sta già bruciando».

Amen.

Offrire che cosa?

Giovedì. Signore Gesù, tu ci ripeti che se non diventiamo come bambini non possiamo entrare nel Regno. Nello stesso tempo ci chiedi una fede adulta. Ecco quello che desidero essere: un monaco bambino con una fede adulta.

Quando ero piccolo, nel giorno di sabato mia madre mi mandava a raccogliere i fiori per portarli in chiesa nel giorno di festa e io ero così felice di farti contento. Certo, poi mi sono reso conto che tutti i fiori che noi ti diamo sono fiori del tuo giardino. Se anche collocassimo le stelle del cielo sull'altare sarebbe la stessa cosa. Ora lo so, è chiaro, io non ho nulla, assolutamente nulla, da darti; non ho niente che non sia tuo. Nemmeno i miei piccoli o grandi gesti di carità o di eroismo sono miei, ma sono doni della tua grazia! Tutte le lodi degli uomini, tutte le celebrazioni solenni, tutti gli olocausti e i ringraziamenti, tutti i santi e i martiri del mondo, tutto, veramente tutto, non aggiunge un solo sorriso in più sul tuo volto.

Ma allora che cosa sono questi nostri sforzi, queste lotte e le nostre preghiere sincere? Mi vuoi dire che tutte queste cose preziose non salgono al cielo? Che tutto resta sulla terra ad arricchire o impoverire noi stessi?

Quando metto l'incenso sui carboni nella nostra liturgia e il fumo sale al cielo, mi sembra che i nostri cuori e le nostre offerte salgano con questo profumo a rallegrare Dio. Ma tu cerchi di dirmi che non hai bisogno dei nostri sacrifici, come già avevi detto ai credenti del tuo popolo. Già tante volte hai detto che non hai bisogno di offerte e sacrifici.

Se tutti gli animali sono tuoi, i fiori e le foreste, i mari, i fiumi, le stelle e l'universo, e se anche noi siano tuoi, i nostri cuori, i nostri sentimenti più segreti e la nostra stessa libertà è tua, che cosa possiamo offrirti?Esiste qualcosa che, bruciando sui carboni della terra, possa salire fino al cielo a rallegrare la tua maestà?

Tu non sei una delle antiche divinità fatte di terra, povere e primitive. Tu sei il Signore! Ma io ho troppo spesso pensato che la terra rallegrasse il cielo e adesso sono confuso.

E il bene degli uomini? E il peccato? Tutto questo può lasciare insensibile il mio Dio? Un bambino che piange e un altro che gioca possono lasciarti insensibile? Un giovane che si suicida nella corruzione e nel peccato e un altro che mette la sua vita al servizio del mondo possono lasciarti insensibile?

Non posso pensare che tutte le preghiere degli uomini non salgano al cielo. Signore, illumina la mia fede bambina in un rozzo monaco adulto e orgoglioso. Pazienza. Amen.

Il crocifisso di bronzo

Venerdì. Sono tornato davanti a te, Signore, con le stesse domande di ieri, le stesse inquietudini.

Ma ieri, mentre pulivo il crocifisso di bronzo che c'è in refettorio, ho tentato di pensare al lavoro che stavo facendo su quell'immagine di un corpo crocifisso. Toglievo l'ossido, lo sporco che si era depositato sopra. E tra le dita delle mani e dei piedi e pure sul volto ho dovuto usare una punta di coltello per raschiare i cristalli neri e verdi pietrificati.

Ho lavorato a lungo e quel bronzo ha cominciato a brillare, a riflettere luce, sempre più luce, fino a diventare quella preziosità che già esisteva sotto le incrostazioni. E quando l'ho portato a vedere al mio confratello, l'ho posto al sole ed egli stesso non lo ha riconosciuto.

Ho concluso che da quel momento nel nostro monastero c'era più luce! Eppure il sole era lo stesso, io non avevo aggiunto nulla al sole con il mio lavoro. Ma c'era più luce in casa nostra! ...E il sole continuava a essere lo stesso di sempre.

Forse il mio corpo, la mia vita e quella dei miei fratelli sono come quel crocifisso: dei corpi ossidati. E tu, Signore, ci chiedi di purificarli? I miei canti, le mie lacrime, le mie azioni di carità, forse sono questo raschiare e ripulire il metallo reso opaco dal mio peccato e dal peccato del mondo? Ero tanto preoccupato di far salire i profumi e riflessi di luce al cielo, ma il cielo è già saturo, mentre è la terra che è carente.

Amen, Signore.

Gratuità

Domenica. Signore, io sto davanti a te con gratuità. Spesso ho pensato che la gratuità fosse qualcosa di mio. Spesso ho pensato che stare davanti a te con gratuità significasse stare qui senza pretendere nulla, senza volere nulla.

Signore, troppo spesso ho pensato che stavo a contemplarti, ad amarti gratuitamente, cioè ti offrivo la mia presenza, la mia preghiera, senza nessuna pretesa.

Signore, perdonami per questi sentimenti.

Risplende la luce

Lunedì. Oggi voglio stare davanti a te con gratuità, ma non con la mia, bensì con la tua gratuità. Non ho nulla da darti, la mia povertà è assoluta; le mie mani sono vuote e io sto qui, ricevendo la tua luce, ricevendo te che ti dai gratuitamente senza pretendere nulla.

Ecco la mia preghiera nuda: accogliere, lasciarmi arricchire di tanta grazia gratuitamente. Sul mio corpo di bronzo, là dove ho già raschiato un poco dell'ossido verde, lascerò riflettere la tua luce. «Risplenda su di te la luce del suo volto»: questa antica benedizione che tu hai chiesto già al tuo primitivo popolo, oggi la fai ripetere per me.

E tutto quello che posso fare è riflettere un poco di questa luce sul bronzo del mio corpo.

Nella preghiera e in tutti i gesti di carità io non faccio altro che purificare il mio bronzo e quello dei miei fratelli.

Vivendo la carità posso incoraggiare l'altro a fare la stessa cosa.

Ecco, Signore, questa nostra umanità intera, dove in modo diverso tentiamo di raschiare l'incrostazione anche solo attraverso il desiderio del bene, della vita, della festa!

Quanto lavoro gridato sui tetti e prodotto nel silenzio per ricuperare l'antica immagine, la primitiva opera d'arte che tu, Signore, hai scolpito «a tua immagine»! Quanto lavoro per ricuperare questo volto, perché risplenda su di esso la luce del tuo volto!

I nostri corpi crocifissi

Martedì. Oggi voglio tornare a pensare al crocifisso di bronzo. Il crocifisso di nome Gesù Cristo, che fu inchiodato su una croce fuori delle mura di Gerusalemme duemila anni fa: è l'unico, il solo che si presentò senza macchia alcuna al Padre, compiendo l'unico vero e irripetibile gesto d'amore che la storia ha scritto nella sua unica pagina, che dà senso a ogni momento vissuto dall'intera umanità. L'unico corpo senza macchia, l'unica materia raccolta per fare un crocifisso umano senza ossidazione, senza cristalli di peccato, è stata la materia del tuo corpo, Signore Gesù.

E ora penso al crocifisso del refettorio, a quello che c'è nella chiesa, nella scuola, in casa di mia madre, in casa dei miei amici, in casa di tutti i credenti e di molti non credenti: questi crocifissi impolverati e sporchi sono i nostri corpi. Sì, certo, sono stati fatti a immagine e somiglianza di te per l'atteggiamento, per ciò che rappresentano. Sono chiari di pelle, scuri, neri, con gli occhi, la bocca e le espressioni di tutte le etnie: sono i corpi di tutte le razze del mondo, cento corpi che vogliono ricordare te.

Il tuo corpo si presentò senza macchia di peccato, mentre questi crocifissi sulle nostre pareti, incluso quello del nostro refettorio, sono impolverati, sporchi, ossidati: siamo noi, proprio noi.

Anche noi spaventati dalla morte imminente e in attesa della risurrezione; ma siamo tutti sporchi, e per di più mal fatti. Artisti e non hanno prodotto un qualche crocifisso; venduti a prezzo di legno o di metallo, per trenta denari o un poco di più o un poco di meno, alcuni oggetto di speculazione: siamo noi, Signore, sono i nostri corpi che dobbiamo pulire, ripulire, spolverare, disossidare, perché torni a brillare su questi nostri volti la somiglianza col tuo volto e un poco della tua luce.

E il compito della nostra vita, Signore, è appunto un lavoro di restauro, un lavoro lungo, faticoso, ma carico di gioia...

La luce del tuo volto

Mercoledì. Lavorare, disossidare e togliere i cristalli di egoismo, di odio, di vendetta, di gelosia, perché risplenda su di noi la luce del tuo volto.

Ecco la nostra lotta per la giustizia: raschiare tutti i soprusi, gli approfittamenti e ogni tipo di ingiustizia, specialmente contro i piccoli, i più poveri, perché risplenda su di noi la luce del tuo volto.

Ecco la nostra lotta contro ogni tipo di arroganza, perché cessi ogni tipo di guerra e splenda su di noi la luce del tuo volto. Signore, ecco i nostri sforzi, perché si realizzi al più presto il tuo regno di giustizia e di pace, perché la tua volontà diventi la nostra volontà, perché splenda su di noi la luce del tuo volto.

Ecco gli sforzi per la sopravvivenza e perché la nostra vita sia più ricca di salute e di allegria e così splenda su di noi la luce del tuo volto. E infine guarda, Signore, al desiderio di lucidare questo bronzo, perché appaia la povertà di spirito, la misericordia, la purezza del cuore e la sete di giustizia, e brilli con tutto lo splendore possibile su di noi la luce del tuo volto. Signore, sta apparendo sempre più chiaro che la preghiera non è tanto un qualcosa che sale al cielo, ma è un'azione che trasforma la terra, che trasforma la nostra vita, che raschia il peccato, fa spazio alla virtù, e così fa splendere su questo nostro corpo di terra, di bronzo, la luce eterna.

Signore, pietà!

Venerdì. Signore, di tutte le espressioni di lode, di tutte le invocazioni, di tutti i ringraziamenti e richieste di amore per colmare almeno un angolo della mia infinita dipendenza, il grido più umano che oggi sento ripetere in me è: «Signore, pietà!».

È un grido gratuito, non perché non costi nulla (al contrario: mi pesa a causa dell'orgoglio mai superato), ma lo chiamo un grido gratuito perché è tale da parte tua: tu doni la pietà, la misericordia; tu liberi e curi senza chiedere nulla, senza pretendere nulla; tu mi doni la pietà gratuitamente. Per questo, più forte di ogni altra volta oggi ripeto: «Signore, pietà!».

Oggi il nostro grido «Signore, pietà!» non è solo per chiedere di essere liberati dai castighi, di incontrare ancora una volta la tua protezione sui nostri campi, le nostre vigne, i nostri greggi, per ricevere ancora il sole e la pioggia che con il peccato non avevamo più meritato.

Oggi il nostro grido «Signore, pietà!» non è solo, come per gli antichi, un essere purificati per meritare ancora la salute per noi, per i nostri figli, per i nostri vecchi, la pace della nostra nazione, la fecondità e la prosperità della nostra vita.

Oggi il nostro grido «Signore, pietà!» ha la forza di far bruciare il peccato, di squarciare i cieli, di raggiungere la tua gloria e incontrare le parole eterne: «Oggi sarai con me nel mio regno», solo perché il nostro grido è diventato tuo, Signore Gesù. Il tuo grido: «Padre, perdona!» è diventato il grido dell'intera umanità di tutti i tempi, che con forza infinita ha potuto gridare: «Padre, perdona!».

Tu sei diventato il nostro corpo, ma anche noi siamo diventati il tuo; per questo oggi il nostro grido «Padre perdona!» è un grido eterno che raggiunge l'Assoluto, perché è gridato da un corpo che ha il cuore del Figlio dell'uomo.

Il peccato del mondo

Sabato. Signore Gesù, sopra di te non è scesa neppure l'ombra dell'ossido del peccato, per cui, vedendo il tuo volto, abbiamo potuto vedere riflessa la gloria del Padre, anche se solo riflessa su un corpo di terra, proprio come sul mio crocifisso di bronzo.

Ma quando tu hai cominciato la lotta contro il peccato con ferro e fuoco, soda e coltelli, i nostri corpi, incrostati da strati pietrificati di colpe, hanno cominciato a gridare. C'era da soffrire troppo nel lasciarci raschiare il peccato personale e del mondo, incrostato sopra di noi.Era troppo sanguinante per noi lasciarci bruciare fino a far apparire la primitiva opera d'arte del Creatore e lasciar così brillare la sua luce sui nostri corpi.

Era troppo duro per noi sopportare.Per questo ci siamo ribellati a te e abbiamo preferito le tenebre alla luce.

Abbiamo avuto paura: allora ti abbiamo ostacolato; poi ci siamo accaniti e ti abbiamo flagellato; poi inchiodato; poi ucciso, perché ci lasciassi tranquilli nella nostra oscurità e ossidati per l'eternità.

Ma tu, Signore Gesù, prima di morire ci hai chiesto di fare anche noi la guerra contro il male, ci hai chiesto che tutta la nostra vita fosse uno sforzo per purificare il mondo, perché i volti degli uomini potessero riflettere la luce del Padre.

Signore, insegnaci a pregare!

Sabato. Forse, Signore, vuoi dirci che ciò che è veramente importante è stare vicino a te non per darti qualcosa, ma per ricevere da te il tuo calore, la tua luce, la tua vita.Ci dici che non dobbiamo nemmeno preoccuparci eccessivamente dei proseliti, perché tu sai fare dei figli di Abramo anche con le pietre. Ci dici che Maria ha scelto la parte migliore. Non dici nemmeno che sia necessario per Maria stare là con te: no. Solo dici che è bello. Come forse non hai imposto tempi di prolungata preghiera ai discepoli se non erano preparati a questo.

Ma se è vero, come riportano i Vangeli, che uscivi di notte da solo per pregare (che pena!), come sarebbe stato bello se qualcuno ti avesse seguito e se, invece di chiederti: «Maestro, insegnaci a pregare come Giovanni insegnò ai suoi», questo discepolo non ti avesse chiesto nulla, solo fosse rimasto vicino a te mentre contemplavi il Padre, nel segreto! Ecco che questo discepolo non avrebbe avuto bisogno di nessuna risposta per intendere il senso del rimanere là.

Ecco, Signore Gesù, qui c'è la risposta a tutte quelle domande che ho sentito sulla preghiera.

Le domande si possono riassumere tutte in quello che può averti detto un discepolo prima che tu ti assentassi da solo a pregare: «Gesù, devo venire anch'io? Se vuoi, non farti scrupolo: io posso perdere anche un po' di sonno! Vuoi che venga? Dimmelo! Dobbiamo fermarci molto? Guarda, Gesù, che io non ho problemi, non sono stanco! Oltre tutto non mi va tanto che tu esca da solo. Non far complimenti, Gesù, se c'è da venire io vengo e mi posso fermare quanto vuoi».

Cosa avrebbe potuto rispondere Gesù se non: «Stai tranquillo, figlio, non preoccuparti, non è necessario che tu venga; dormi, dormi tranquillo», sperando che dopo, solo dopo, potesse intendere?

Ecco, se io mi domando oggi: era necessario che quel discepolo o quei discepoli accompagnassero il Maestro? La risposta è «sì», perché sarebbe stato tanto bello; ed è «no», proprio perché non era necessario ma gratuito.Si potrebbe dare la stessa risposta alla domanda se sia necessaria la preghiera o la vita del monaco.

La preghiera non è necessaria

Domenica. Mi sento sempre più vicino alla conclusione che è necessario pregare, e pregare molto, proprio perché la preghiera non è necessaria, ma gratuita. Io, per esempio, dipingo icone, e questo non è necessario, ma non per questo è meno bello.

Mangiare, bere, dormire: tutto questo è necessario, ma pregare e dipingere no.

E proprio perché dipingere non è una necessità mi do degli orari, a volte me lo impongo come lavoro, perché, quando viene il momento di vedere l'icona finita, io non posso perdere questa gioia di contemplare una bellezza.

Così per la preghiera spesso mi devo dare dei tempi, spesso la realtà più gratuita si può trovare simile a un lavoro, perché, nel momento in cui avviene la trasfigurazione, io non posso perdere l'occasione di essere presente.

Capitolo terzo

IL MONDO, CORPO DI DIO

Il testo che segue era scritto su fogli sparsi ripiegati dentro il diario del monaco Francesco.

Lettera a una margherita

Carissima margherita, questa mattina, passandoti vicino, ti ho detto qualcosa che avrebbe potuto stupirti.

In quel momento stavo meditando sulla creazione e ti dissi: «Lo sai che tu stai dipingendo icone?»; e tu non ti sei distratta, sei rimasta immobile, te stessa, con i tuoi quattordici petali, ad assaporare la vita e la presenza di un amico che adesso sta vicino a te, scrivendoti una lettera.

Ti mancano quasi la metà dei petali. Non so se te li hanno rosicchiati alcuni insetti o se sei nata già così. Non ti preoccupare: anch'io sono quasi calvo, ma tutto questo non ci impedirà di comunicare il messaggio della nostra vita.

Da alcuni giorni sto pensando a una nuova immagine, a un nuovo volto, per trasmettere così un altro poco di vita. Oggi mi sono preso una giornata di riposo e ho incontrato te. Ti ho detto che stai dipingendo anche tu; lo sapevi? No, non lo sapevi e non lo puoi sapere; però quest'affermazione è tanto vera quanto è vero che io esisto.

Tu sei una parte dell'universo, una piccola parte fiorita per un momento; piccola parte dell'universo e quindi del mio corpo. Certo, perché il mio corpo non è soltanto la mia testa con gli occhi che ti guardano, o i miei piedi che sono venuti fin qui da te. I miei polmoni non sono chiusi dentro una cassa toracica, ma si propagano nell'aria, fino alle foglie degli alberi che stanno producendo ossigeno, raccolto nel vento fatto circolare dalle temperature diverse che dipendono dai ghiacciai che si sciolgono e si riformano. Anche le tue piccole foglie hanno prodotto una piccola porzione di questo ossigeno. I miei polmoni si allargano abbracciando tutta l'atmosfera con la sua pressione prodotta dalle masse, e quindi dalla terra stessa, e nessun granellino di sabbia è escluso nel formare i miei polmoni.Il mio corpo poi è radicato in tutte le piante che stanno producendo frutti per diventare la vita di questo mio corpo, che, in realtà, è una piccolissima parte del mio grande corpo, che è l'universo.

Cara margherita, tu potresti pensare di essere così staccata e distante da me da non riuscire a immaginare di essere parte del mio corpo. Cercherò di spiegarmi meglio.

Le mie mani non pensano, eppure anch'esse stanno dipingendo icone; voglio dire che fanno parte di un corpo che sta dipingendo per compiere la sua missione. I miei piedi, il mio sangue, i miei tendini, sono in qualche modo materia non pensante, ma fanno parte di un corpo che sta pensando e scrivendo una lettera a te, cara margherita.

Ecco, i miei pochi capelli rimasti stanno pure pensando a questa nuova icona, al punto che finiscono per staccarsi a causa della stanchezza o diventano bianchi; ma dire che i miei capelli stanno pensando e dipingendo è tanto vero quanto dirlo a te.

Guarda: ne ho staccati un paio e te li ho messi vicino, perché tu possa capire meglio. Essi erano parte del mio corpo prima e adesso allo stesso modo, anche se ora sono un poco più distanti. Potrei addirittura trapiantarli, come potrei masticare le tue piccole foglie, ma hai capito che non è necessario.

Noi siamo un corpo solo. Per questo io mi sento molto responsabile quando compio qualsiasi azione.Quando riesco ad allungare la mano a qualcuno che ha inciampato ed è caduto, so di prestare questa mano all'intero universo per rialzare un'altra parte di me. E, allo stesso modo, quando reco qualche danno alla vita, sto obbligando l'intero universo a uccidere una parte di noi.

Cara margherita, non esiste uccisione che non sia suicidio!

Ti ho detto queste cose perché tu sappia. È arrivato il primo vento della sera e fa un po' freddo; mi costringerà a rientrare in casa.Se poi un giorno dicessi a qualche amico che, mentre tutte le altre margherite si erano già chiuse per il tramonto e per dormire, tu sei rimasta aperta per dialogare con me, nessuno ci crederebbe; ma è pur vero che non tutto si può spiegare.

Mentre sei così sveglia, continuo a scriverti, e ti racconterò una storia bellissima, di cui tu fai parte.

C'era una volta Dio, o meglio: c'è sempre stato e ci sarà sempre. Ebbene, questo Dio progettò una cosa così meravigliosa e amò tanto questo suo sogno che lo fece esistere: ed ecco questo meraviglioso universo di cui noi facciamo parte.Vorrei spiegarmi bene con te, cara margherita. D'altra parte so che tu non hai bisogno di molte parole; sono piuttosto io che ne ho bisogno per balbettare questa storia.

All'inizio il fuoco, le rocce, le acque, le stelle, i venti, i lampi e i tuoni: tutto quanto era l'affetto di Dio cristallizzato e diventato visibile. Ma Dio non si accontentò di questo meraviglioso universo e lo volle vivo: vivo con linfa, radici, fiori e frutti.

Così il mondo imparò a esistere come vivente; accompagnato dalle paterne mani di Dio, imparò, attraverso le sue foreste, a nascere; imparò a vivere e a morire, per rinascere e rinascere in una danza di vita senza fine.

Certo, la morte del primo fiore avrebbe potuto turbare il buon Dio, ma come avrebbe potuto egli rinunciare al sogno di veder nascere, crescere e sbocciare questa minuscola pianta per il solo fatto che bisognava pur lasciarla morire? La gioia della nascita era certamente superiore alla tristezza di doverla lasciare morire.

E poi la nascita di ogni essere vivente produceva altra vita moltiplicandosi, mentre i fiori che morivano lasciavano semplicemente spazio agli altri boccioli, preparati per celebrare la festa della vita.Ma il progetto di Dio andava oltre. Voleva il suo universo con sangue, carne e occhi per vedere, e così come le pietre rotolavano sul letto del fiume pur facendo sempre parte del grande corpo del mondo, così alcuni pezzi di questo mondo si staccarono tagliando infiniti cordoni ombelicali e cominciarono a muoversi. Pezzi del mondo cominciarono a correre per raggiungere il cibo; il mondo cominciò a volare con le ali degli uccelli e con i colori infiniti delle farfalle, fino a quando questo benedetto universo, accompagnato con sempre maggiore attenzione dal buon Dio, diventò capace di pensare e di inginocchiarsi di fronte al suo Padre per dirgli «Grazie».

Certo che la morte del più piccolo degli insetti, come del più anziano tra gli uomini, avrebbe potuto turbare Dio, ma come avrebbe potuto questo Dio rinunciare a vedere il suo universo trasformarsi in bambino che nasce, cresce e corre sulla faccia della terra? Avendo Dio soffiato il suo spirito nel cuore del mondo ed essendo il mondo diventato un figlio vivente di Dio, capace di cantare un grazie alla vita eternamente, Dio pensò che, per vivere una storia così importante, l'uomo doveva avere la possibilità di scegliere se far parte di questa eterna avventura o no, proprio perché la responsabilità era diventata troppo grande.Il mondo, da corpo, era diventato corpo e anima; e infine era diventato corpo anima e spirito, destinato a vivere l'eterna storia di Dio.

Così l'uomo, combattuto tra la scelta di esistere con grande dignità e responsabilità e quella più comoda e facile di non esistere, cioè lasciarsi morire, spesso cominciò a scegliere la seconda, e questo fatto turbò davvero il cuore di Dio. (Questa pigrizia di vivere noi la chiamiamo peccato).

Visto che l'uomo, ammucchiando peccato su peccato, non aveva più la forza di rialzarsi, di chiedere perdono ed essere riammesso a far parte dell'eterna storia di Dio, ecco, è venuto egli stesso, proprio Dio, per farsi un Figlio dell'uomo.Da quel momento l'universo diventò il corpo della seconda persona della Trinità santissima.

Era questi Gesù, il Cristo, il quale ci insegnò nuovamente come combattere la pigrizia di vivere, come rialzarci e come scegliere di vivere ancora.

In quel tempo il mondo, con la forza divina di Cristo, è riuscito a pronunciare un «Padre, perdona», che lo ha fatto rialzare; ma in quello stesso istante la pigrizia del mondo ribelle ha schiacciato lo stesso Gesù e lo ha ucciso.

Così continua a essere per noi, che ogni giorno, in modi diversi, ripetiamo le parole di Gesù con la sua forza: «Padre, perdona», «Padre, grazie», «Padre, noi ti lodiamo e ti benediciamo», e la pigrizia del mondo continua a massacrarci e a schiacciarci.

Eppure Dio non vuole rinunciare a lasciarci la libertà di scegliere di far parte dell'eterna storia di Dio; no, Dio non rinuncia a questo, a costo di vederci soffrire un poco e morire.Egli stesso lo ha fatto per primo, per solidarizzare con noi e difendere il dono della libertà.

Con la nostra preghiera, sofferenza e morte possiamo anche noi aiutare il Cristo a redimere gran parte di quella pigrizia del mondo che, non comprendendo la bellezza della vita e dell'amore e non avendo voglia di lottare, preferisce lasciarsi morire e consumare nel fuoco della geenna...

Cara margherita, scusami se ho scritto cose che interessano forse di più a me; tu probabilmente non ne avevi bisogno, ma grazie per avermi ascoltato.

Ormai è tardi, è molto tardi; e adesso anche tu, per ubbidire alle leggi del nostro corpo, hai chiuso la tua testa tra i petali e ti sei addormentata. Poi verrà la sera in cui mi addormenterò anch'io, poi si addormenteranno tutte le margherite e tutti i miei fratelli e sorelle, poi si addormenterà tutto il mondo, cioè l'intero nostro corpo; ma quella parte del nostro corpo che si è risvegliata dopo la morte, duemila anni fa, garantisce che ci risveglieremo anche noi, e io ti dico, cara margherita, che credo nella risurrezione della carne, cioè del nostro corpo, cioè del mondo, quando morirà l'ultima margherita, e si apriranno i cieli nuovi e avremo una terra nuova, tutti accompagnati dalla mano di quel Padre che ci ha sognati tanto da farci esistere nell'eterna storia di Dio.

Buona notte, margherita.

II mondo

Da qui riprende il diario del monaco Francesco.

Sabato. Oggi ho riletto questa lettera scritta qualche tempo fa e... Senza pretendere di capire ma solo di contemplare, guardo!

Guardo, o Signore, questo meraviglioso mio corpo di cui fanno parte non solo le mie dita e i capelli del mio capo, ma anche le foglie degli alberi che sono i suoi polmoni, le piante che nutrono, l'acqua che disseta: tutto è parte del mio corpo e i fiumi, i mari, le montagne, i venti, le tempeste, l'aurora e il terremoto sono solo parti diverse del mio corpo.

La piccola cellula della mia epidermide che sta morendo e l'ultima galassia che si sta formando sono appena insiemi di atomi diversi a distanze diverse di questo unico corpo. Questo corpo, di cui fanno parte le ali delle colombe, le fauci delle tigri e il veleno dei serpenti: sì, tutto è mio corpo e tutti i miei fratelli sono parte di questo medesimo. Siamo in tanti a gridare «Perdono!». Siamo in tanti a cantare «Alleluia!». Ma siamo un solo corpo, un solo sangue.

Signore Gesù, questo nostro corpo, dunque, è il tuo stesso corpo, il tuo stesso sangue: ogni atomo di questa materia lo hai fatto diventare carne, con l'incarnazione.

Ma allora ogni fiore, ogni sassolino è sacro. Dove mi posso muovere senza calpestare o profanare questa universale eucaristia, questa quarta dimensione della Trinità che è il corpo e il sangue di Dio? Spesse volte, quando ho deposto l'eucaristia nel tabernacolo della chiesa, dopo aver fatto la genuflessione e sono uscito dalla sacrestia, ho avuto l'impressione di uscire da questa santa presenza e di riposare un poco.

Ma adesso dove vado? Tutto è santo. A Mosè avevi detto di togliersi i sandali perché la terra che calpestava era sacra. Ma poi che cosa avrà fatto quel povero uomo? Anche calpestare a piedi nudi qualcosa di sacro è una profanazione.Ma questo profeta dove poteva andare se tutto era terra, e tutto era sacro? Penso che qualche tempo dopo, Mosè se ne sarà dimenticato, e tu, Signore, non avrai più detto nulla, per lasciarlo ancora vivere e accompagnare i suoi fratelli.

Io ho letto solo una lettera a una margherita e mi sono emozionato tanto; chissà che cosa può capitare alle persone che hanno vibrato i momenti più alti dei mistici e si trovano come persi, senza più la forza di fissare, con gli occhi, tanta bellezza, cioè il tuo volto? Può capitare solo di morire, oppure, se tu, Signore, vuoi che vivano ancora un poco, li puoi anestetizzare e lasciare soli.

Come se...

Domenica. Signore, adesso, dopo questo cammino, scendendo dal monte tornerò a zappare un po' di terra come se fosse solo terra; pescherò nel fiume qualche pesce, come se fosse solo pesce; mangerò qualche frutto come se fosse solo frutto, guarderò i colori delle palme, come se fossero solo colori di palme; però qualche volta, di tanto in tanto, permettimi di spalancare intensamente gli occhi dello Spirito almeno per qualche istante e contemplare il nostro corpo, Si-gnore Gesù, grazie. Amen.

Una pervinca trascurata

Lunedì. Oggi è venuto al nostro monastero un santo. È un uomo sugli ottant'anni, tutto occhi e contemplazione. Sta dedicando l'ultima parte della sua vita alla ricerca scientifica. Arriva spesso con professori o studenti universitari facendo studi di botanica anche sulle nostre colline. Poi viene a pregare con noi e riparte. Ha scritto diversi libri e ne stanno pure scrivendo sui suoi lavori, ma forse uno dei lavori più interessanti è l'ultimo, che consiste nell'interessarsi di una «pervinca trascurata».

Quando chiesi che mi spiegasse che cosa era questa «pervinca trascurata», è diventato una tigre che difende i piccoli e un estatico che contempla una bellezza: «Ma ti rendi conto — mi diceva con tutto il corpo — che rischiamo di perdere questa specie?».

L'ha trapiantata in diverse zone della regione, dopo aver studiato a lungo i tipi di terreno, le correnti dei venti, le altitudini, perché sono tutte cose importanti, così almeno mi diceva. Il penultimo anno per poco la pervinca andava perduta per sempre, poi è rinata la speranza lo scorso anno e ora sta lavorando intensamente per l'anno prossimo.

Era adirato perché all'inizio di questo secolo alcuni botanici si erano già accorti che il fiore era in pericolo e si sono limitati alla classificazione, ma non hanno fatto nulla per salvarlo. Parlando di questo fiore era diventato furioso e appassionato. E forse un po' triste, perché guardando nei miei occhi si rendeva conto che non capivo abbastanza.Quando mi scappò di chiedere se era forse un particolare fiore medicinale, non mi lasciò finire e dai suoi occhi uscì il fuoco; non riusciva quasi più a parlare per farmi capire se era mai possibile tanta idiozia: «Ma ti rendi conto — mi diceva — che è un fiore è un fiore! E se fosse anche solo una foglia che si può salvare? E che differenza c'è tra salvare la foresta amazzonica e questa pervinca trascurata?...».

Mi resi comunque conto che aveva ragione. E questa era diventata la sua preghiera, e forse qualcosa di più.

Credi in Dio?

Martedì. Il botanico è partito con alcuni studenti, ma Michele, uno di essi, si è fermato ancora un po' per terminare una ricerca sull'altra valle. Questa mattina, prima di andarsene, mi ha detto: «Sai, Francesco, una volta ho chiesto a un grande botanico il quale ogni giorno studia i fiori: "Tu ci credi in Dio?" e lui mi ha risposto: "No, io non ci credo, io lo vedo tutti i giorni!". Bella risposta, vero, Francesco?», e io senza riflettere dissi: «Oh certo, bella, bella risposta».

Michele è partito e io sono rientrato tra le mura del mio monastero e ho cominciato a dire: «No, no, io non lo vedo».

Per la verità, quante volte da adolescente, guardando il tramonto, o un temporale o il mare in burrasca anch'io ho detto: «Come sei grande, Dio!»; o guardando i fiori, le api, le ragnatele, ho detto: «Come sei bello, Dio. Tu che hai fatto tutte queste cose!». Ma ora non lo dico più. Il Dio in cui voglio credere è il tutt'Altro.

Se vedo un frutto e penso: certo è Dio che lo ha fatto; poi scopro che è un fiore ad averlo prodotto. Allora penso al Dio che ha fatto il fiore, ma non è Dio bensì una pianta. Allora penso al Dio che ha fatto la pianta: ma è un seme; allora al Dio che ha fatto il seme: ma c'è un DNA. E chi lo ha organizzato? E trovo delle energie. In una parola: guardando nella meravigliosa materia vedo materia e solo materia, mentre Dio è tutt'Altro. Certo, io penso che è lui ad aver dipinto questi meravigliosi scenari, e scolpito gli infiniti rilievi della crosta terrestre e gli ha persino soffiato dentro la vita, ma questo Autore, il più grande di tutti, quando ha terminato ogni cosa, non ha firmato nulla e se ne è andato in silenzio. A noi è rimasta l'opera d'arte e il silenzio.

Quando vedo la statua della Pietà di Michelangelo, so che l'ha fatta lui perché in quel marmo ha inciso il suo nome. Invece Dio non ha firmato nulla, forse perché non facessimo confusione e non pensassimo che Dio è uno che sa fare anche i fiori, i tramonti e le galassie: no questo è cosa così piccola al punto che quando l'ha fatta non ha detto a nessuno.

Poi, di tanto in tanto, ispira qualche ateo, che alza la voce e dice: «No, io non ci credo. Guardando la natura, Dio non lo vedo; i vostri discorsi di un Dio artigiano o commerciante o mendicante non mi convincono. Se c'è, Dio è tutt'altro!».

Il tutt'Altro

Mercoledì. Signore, perdonami! Ieri pregando e scrivendo ho sottovalutato il valore di questo pugno di terra, di questi milioni di atomi e molecole che insieme cantano l'inno della materia. Ma tu, Signore, mi capisci, e spero mi capiscano anche i miei amici quando dico che il colore dei fiori non è il tuo colore e la bellezza della natura non è la tua bellezza, perché tu sei il tutt'Altro. Signore, in ogni caso io mi inginocchio e riconosco preziosità in tutto ciò che vedo.

Perché? Perché come il pane e il vino nelle mani di Gesù Cristo sono diventate una preziosità da celebrare, così, quando tu, Signore, hai scelto la materia per abitare con noi, tutte le molecole, tutti gli atomi e ogni forma di energia materiale di tutti gli universi, come un feto in attesa da milioni di anni o forse da sempre, è diventato questo tuo corpo, Signore. Amen.

Capitolo quarto

EUCARISTIA

È notte

Martedì. Riflettendo sulla gratuità della preghiera non posso che pensare e ripensare al mio essere monaco.Ho sempre creduto che il monaco fosse l'uomo della preghiera, che testimonia agli altri l'esistenza dell'Invisibile. E in questa notte, accecato, ho tanta voglia di fuggire; ma, tra una tentazione e l'altra, resto. Resto in attesa della mezzanotte, anch'io con una lampada accesa, con un poco di olio, forse con meno speranza... ma resto.

In questo momento, Signore, vorrei tanto restare in silenzio, ma la mia poca intelligenza che è rimasta continua a gridare dei «perché?». Mille «perché?» con poche risposte: «perché Dio? perché la preghiera? perché essere monaco? perché? perché? perché?». Proprio come fanno i bambini piccoli.

Ma oggi, tra i perché più assillanti, la cui risposta mi può dare la forza di restare ad aspettare la festa, c'è il perché sulla più grande preghiera: l'eucaristia. Certo, non può essere una risposta complessa, perché tutto il messaggio del Vangelo è semplice e rivolto ai piccoli; e io, proprio perché non sono un teologo e un grande studioso, dovrei certamente capire qualcosa di questo grande dono.

Aprire una finestra

Venerdì. Signore, così come mi hai tratto dal nulla, se al nulla mi lasciassi tornare, non avrei niente da recriminare.

Con il mio essere o senza, tu continui a essere eternamente Sapienza e Amore infinito.Io sono solo un grazie davanti al tuo dono gratuito. Amen.

Riconosco di essere questa povertà, ma avendo spesso parlato di offerta, adesso vorrei almeno interrogarmi sulla grande offerta della messa, perché questa parola dovrà pur avere un senso.

Forse durante la messa ho da darti qualcosa? Sì. Nella mia città ci sono migliaia di finestre che si possono aprire o no alla presenza consolante e vivificante del sole.

Ecco, noi, i figli, davanti al mistero redentore del Figlio crocifisso che continua ad essere il Figlio redentore, possiamo aprire o no la nostra finestra per ricevere la luce redentrice, e la messa è questo gesto di aprire la finestra e lasciare entrare la grazia. Quindi il mio offrire è appena usare la mia libertà per aprire o no questo spazio di luce per me e per gli altri, che, come segno, è espresso nel prendere il calice della salvezza e invocare il tuo nome, o Signore.

Allora, offrire sarà ancora una volta offrirti la possibilità di entrare nella mia e nostra vita, di far risplendere la tua luce sul mio e nostro volto.

La messa

Giovedì. Nell'eucaristia noi facciamo una catena di umanità dandoci la mano come i bambini. E intorno a questo altare, al centro della catena, ci sei tu, Gesù, il Cristo, il Sacerdote, e tutti insieme diciamo: «Padre, perdona»; «Padre, grazie»; «Padre, noi ti lodiamo».

Ma l'importanza di questa preghiera eucaristica è che, in essa, noi sussurriamo appena con distrazione queste sillabe, mentre tu, corpo unico con noi, gridi queste parole con la forza dell'umanità, diventata.pienamente Figlio che sa raggiungere il cuore del Padre.

Noi diventiamo un tutt'uno con te, ma sei tu che parli a nome nostro, che intercedi a nome nostro.

Tu sei la testa e il cuore di questo corpo che siamo l'umanità intera, che siamo la tua umanità.

E perché questo sia più chiaro e visibile in questa celebrazione, ci dai del pane e del vino benedetti e trasformati nel tuo (e nostro) corpo e sangue. Tu ce li offri perché, mangiandone, sia più chiaro che sei in noi, in quella catena di mani intrecciate e perché sia più chiaro che oggi la nostra voce diventa la voce del Figlio... che dice «Padre nostro».

Ricevere te?

Sabato. Ma, nonostante tutto, nella comunione noi preferiamo pensare che siamo noi a ricevere te. Pur con molta distrazione, in fondo siamo noi che ti accogliamo nella nostra vita.

Preferiamo pensare che, in fondo, siamo noi i protagonisti della comunione: siamo noi che andiamo a «fare la comunione»; siamo noi che usciamo di casa per venire in chiesa.

Siamo noi che ti invitiamo a visitarci, siamo noi che apriamo la porta del nostro cuore perché tu entri; siamo noi che, con la comunione, ti facciamo entrare. Siamo noi che, se siamo di buon umore e fervorosi, ti facciamo sedere per ascoltarti.Infine pensiamo che, ricevendo il tuo corpo e il tuo sangue, tu ci santifichi, ci illumini, ci parli e ci accompagni più da vicino, come un extraterrestre piccolo piccolo, ma divino, che entra in noi per aiutarci...

E invece forse non è così, vero?

Preparazione per la comunione

Domenica. Ricordo che per fare la prima comunione mi sono preparato un anno intero.

È vero che mentre mi preparavo alla prima comunione, cioè frequentavo il catechismo, ero interessato a molte altre cose: preferivo gli intervalli delle lezioni che il catechismo stesso.Probabilmente studiavo quelle formule e precetti per ricevere in premio le caramelline che ricordo ancora con simpatia.

Ma, pur con tutti questi corollari, mi sono comunque preparato per fare la prima comunione.Un particolare che mi umilia un poco, oggi, è che del giorno della prima comunione non ricordo la celebrazione in chiesa, ma il caffè e latte con i biscotti che hanno servito a me e ai compagni in sacrestia. In ogni caso, se la memoria cosciente non ha registrato quel momento, certamente io l'ho vissuto, e spero anche intensamente.

Ma oggi, Signore, nella mia preghiera, lasciami pensare all'altra faccia della medaglia.Mi sono preparato un anno per fare la prima comunione con il corpo, il sangue, l'anima e la divinità e tu ti sei preparato un'eternità per fare la tua prima comunione con il corpo, il sangue, l'anima e l'umanità.Con la creazione, tu, o Trinità, hai preparato il pane e il vino sull'altare della storia, e con l'incarnazione hai consacrato questi stessi doni e hai detto: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», e il Verbo si fece carne.

È quello il giorno in cui tu, Figlio, hai ricevuto il corpo, il sangue, l'anima e l'umanità di un bambino e hai cominciato a fare, nella storia, comunione piena con noi.

Così, noi carne e sangue di Dio, noi figli, noi quarta dimensione della Trinità, noi umanità, con l'incarnazione siamo diventati il corpo, il sangue, l'anima della seconda persona della Trinità.

Tu, Dio, hai voluto dire a questo tuo corpo: «Io non sono estraneo alla vostra sofferenza, alla vostra lotta; non sono spettatore della vostra umanizzazione e purificazione: io voglio fare comunione con voi».

Lunga preparazione per fare la prima comunione, e nell'eucaristia di ogni giorno, dove tu, Signore Gesù, sei il vero ed eterno Sacerdote nel tempo, in ogni celebrazione fai la comunione.

Sei tu che ci inviti, sei tu che ci ricevi; quando in processione o seduti a una mensa ci prepariamo a «fare la comunione», in realtà ci prepariamo ad aspettare che tu «faccia la comunione».

Nella comunione sei tu che ricevi noi, il nostro corpo, il nostro sangue, la nostra anima e la nostra umanità; sei tu che ci assimili e ci trasformi in te.

Grazie, Signore, per la tua comunione!

Ciò che manca alla tua sofferenza

Lunedì. Signore, oggi parliamo ancora un poco del memoriale, di questa celebrazione che coinvolge il cielo e la terra.

Nella messa noi facciamo memoria del più grande avvenimento della storia: duemila anni fa Gesù Cristo si presentò al Padre dicendo: «Eccomi qui, non fuggirò».

Come Mosè sul monte intercedette per il popolo, tu ti sei presentato di fronte al Padre e, con la forza di Dio e con tutta la fragilità dell'uomo, Servo sofferente, hai interceduto per noi. Con la tua parola ci hai indicato il cammino da seguire, rivelandoci il progetto del Padre; e con la tua vita ci hai insegnato fin dove arriva questo progetto di amore: fino a dare la vita per gli altri, anche quelli che non ci amano.

E nell'eucaristia noi celebriamo tutto questo e tu ci chiedi di ripetere tante volte questa celebrazione.

Ora, qui, nel mio piccolo monastero, oggi come in certi giorni, quando le domande si fanno troppo grandi e le risposte tanto piccole, mi chiedo: «Ma perché la messa è la più grande preghiera dell'umanità?».Tento di rispondere al mio cuore di bambino.

Ecco, nell'eucaristia, tu, Signore, continui a intercedere per noi presso il Padre, e non potendo più soffrire né morire sulla croce tu, per testimoniarci così radicalmente il tuo amore, soffriamo e moriamo noi, che siamo ancora il tuo corpo, e consegniamo questa vita come hai chiesto tu, per completare ciò che manca alla sofferenza tua: nella messa celebriamo questo.

Il Figlio, come uomo, non ha ancora finito di soffrire, poiché soffrirà fino a quando l'ultimo dei figli morirà sull'ultima delle croci. E come è stato importante per te dire: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»! Noi nella messa ripetiamo questo grido con le nostre suppliche e consegniamo, a nome di tutta l'umanità, l'intera umanità. Ma, essendo questo compito molto difficile, chiediamo ancora una volta a te di ripetere per noi: «Padre, nelle tue mani...».

Così, nella messa, celebriamo la nostra consegna di morte che tu non puoi più fare, ma tu, con la forza di Dio, ci impresti la parola di intercessione che ci salva e che noi non abbiamo la forza di pronunciare, ma solo di celebrare.

Così, ogni volta che celebriamo la tua morte e annunciamo la tua risurrezione, riceviamo grazia su grazia.

La solidarietà

Martedì. Quando sono riunito con la comunità e vedo i papà, le mamme, i bambini, i giovani, gli anziani, e vedo le loro mani alzate in segno di lode o strette l'una con l'altra in segno di pace, queste mani sono anche mie, sì, mi appartengono perché sono parte di uno stesso grande corpo.

Ma ieri ho visto un giovane insanguinato: aveva massacrato un altro.

Anche le mani di quel giovane mi appartengono. Certo io sono responsabile di quel massacro, perché la violenza che lo ha prodotto appartiene al corpo di cui faccio parte.

Allora è chiaro, Signore: quando diciamo che Gesù, il Figlio, si è caricato di tutte le colpe, diciamo: «È diventato uno di noi, carne come noi», quindi parte di noi. Caricarsi del peccato è conseguenza dell'incarnazione.

Anche noi, diventando carne, diventando un bambino, come potremmo non caricarci di tutta la santità e di tutto il peccato del mondo, se il mondo è il nostro stesso corpo?

Se nel mondo, oggi, c'è stato un atto di coraggio in più io sarò più forte; e se c'è stato un atto di violenza in più, questa notte ci sarà un peso in più sulla mia anima.

Nulla più mi potrà rendere insensibile.

Non potrò più guardare alle tragedie che coinvolgono il mio mondo come chi guarda un film alla televisione, ma guarderò come chi guarda la propria mano che sta diventando lebbrosa o che sta guarendo: in ogni caso ogni storia del mondo è la mia personalissima storia.

E quando tu, Gesù, fatto uomo, chiedi perdono al Padre, con la tua forza unica, siamo in realtà tutti noi a lanciare il grido di liberazione.

Tu, Redentore, e noi, corredentori con te. Per questo ogni giorno sul calvario si continua a lavorare e ogni giorno si annuncia la risurrezione.

Certo, io posso pur dire: «No, non mi assumo la responsabilità di quello che fa mio fratello!». Questo significa scomunicarsi: è l'inferno. Se invece anch'io come il mio Signore dico: «Non ho motivo di escludermi da ogni responsabilità umana», la storia mi punirà e massacrerà, ma ormai conosco la risurrezione.

Adesso mi è meno difficile intendere l'eucaristia.

Getzemani

Il monaco Francesco aveva anche passato un periodo con degli zingari facendo esattamente ciò che avrebbe fatto in monastero: lavorava, pregava e camminava tanto. Nel suo diario ho trovato anche questa pagina senza data, un poco difficile; ma la trascrivo, perché qualcuno, illuminato dallo Spirito, possa intendere al di là delle parole.

Ero rientrato nella mia tenda blu di plastica, trasparente, leggera, per dispormi alla preghiera della notte. Il caldo afoso se n'era andato e la luna illuminava tutto lo scenario fuori della mia tenda e mandava luce anche dentro la mia abitazione. Gli zingari, in quella regione tutti musulmani, avevano terminato almeno da due ore l'ultima preghiera della notte e dormivano quasi tutti, ma qualcuno mi passò accanto vedendomi ovviamente seduto nella mia tenda mentre stavo celebrando messa.

Tutti sanno che la notte, mentre essi dormono, io celebro e canto la mia preghiera.Ero stanco. Durante il giorno ero stato in diversi villaggi per lavorare con loro, ma in quell'ora di preghiera non mi venne assolutamente voglia di dormire, perché il cuore era pieno.

Ciò che scrivo in questo diario non è lavoro di quella sera. Allora non avevo con me né carta né matita, ma ho cercato di recuperarlo dalla memoria rimasta.

Dinanzi a me c'era il Signore Gesù e accanto erano seduti con me la Madonna, Giuda, Pietro, Maddalena e altri volti che non ricordo. Qualcuno era là per testimoniarmi che egli veramente è il Signore, altri per testimoniarmi che veramente lo avevano tradito, altri che da lui erano stati perdonati, altri che lo avevano tradito ed erano stati perdonati ancora.

Non ho avuto una particolare visione quella notte. No: stavo solo pregando in comunione con la Chiesa dei santi vivi e defunti.

Mentre mi preparavo a celebrare, in quel momento sentii il peso insopportabile di tutti i peccati della mia vita e, come se non bastassero, anche i peccati degli altri. Sentii che mi schiacciavano.

«Pietà di me, o Dio, nel tuo amore,
nel tuo affetto cancella il mio peccato
e lavami da ogni mia colpa,
purificami da ogni peccato».

Che cosa potevo chiedere se non di essere perdonato e purificato per poter celebrare? Erano troppi i peccati. Erano i miei e quelli che avevo visto accanto a me. In quel momento i peccati di tutta l'umanità erano diventati i miei.

In quel momento i peccati degli altri non mi furono più estranei, come colpe lontane che interessano solo quelli che le hanno commesse e che, semmai, meritano comprensione e misericordia.

No, tutti quei peccati erano diventati miei.
«Il mio peccato mi sta sempre dinanzi,
contro te, contro te solo ho peccato».

Quante bestemmie, quanti bambini abbandonati sulla strada, quanta gente rifiutata, quanti malati senza medicine, buttati fuori a crepare. Non distinguevo più il mio peccato dall'altrui e gridavo:

«Il mio peccato mi sta sempre dinanzi,
contro te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi io l'ho fatto».
Eppure sentivo che potevo essere perdonato.
«Purificami con issopo e sarò purificato,
lavami, e sarò più bianco della neve,
fammi udire gioia e allegria,
esulteranno le ossa che hai fiaccato».
Sì, chiedevo il perdono, ma lo sentivo lontano.

Ho sempre creduto nella misericordia di Dio e tanto più quella notte. Non era la misericordia del Signore che mi mancava, ma era il peccato che sovrabbondava. Potevo solo chiedere al mio Dio di non guardarli quei peccati, almeno di non guardarli!

«Dai miei errori nascondi il tuo volto».
Che bisogno di cuore pulito! Ma il mio cuore era pesante e sporco.
«Crea in me, o Dio, un cuore puro
fa nascere in me uno spirito coraggioso».
Ma io ero sempre più debole e l'angoscia avanzava, mentre io, solo, ripetevo:
«Signore, pietà! Cristo, pietà! Signore, pietà!».

A quel punto mi ero un poco accasciato nella mia tenda e mi sentii chiamare da fuori: «Non stai bene? Hai bisogno di qualcosa?».

Al che rimbalzai seduto, con slancio, rassicurando: «No, no, sto bene. Forse non ho digerito bene e stasera mi riesce più difficile pregare. Però non è nulla, assolutamente nulla».

«Allora possiamo andare?» mi dissero, dopo avermi fatto intendere con gusto che avevano vegliato accanto a me con paura che mi capitasse qualcosa di grave. Forse mi avevano sentito piangere. Non so, e non glielo chiesi mai.

Comunque, congedati quei due figli d'Ismaele, ripresi e pregare e caddi in tentazione quasi ribellandomi: «Ma tutti quei peccati non li ho fatti io! Non sono colpevole di tutto questo!».

Ma subito la risposta nel profondo mi disse: «E come puoi non esserlo? Come puoi non sentirti colpevole, se sei parte di questo corpo che è la Chiesa, il mondo, l'universo? Se gli altri sono le membra dell'unico corpo di cui fa parte lo stesso Gesù che ne è il capo, e se questi altri sono le tue mani, i tuoi piedi, i tuoi occhi; quello che fanno le tue mani di peccato non ti appartiene forse? Non lo vuoi assumere? Non vuoi caricarti di questo peso?».

Pensai allora che avevo sentito tante volte con espressioni diverse che Gesù caricò su di sé i peccati di tutti gli uomini, li portò sulle sue spalle e li inchiodò alla croce.

Mi chiesi allora in quale momento della vita Gesù si caricò di tutto questo e, non trovando pagine di cronaca che me ne parlassero, mi svegliai un po' come dal sonno per capire che, diventando uomo, come avrebbe potuto non caricarsi le colpe di tutti? Diventare figlio di questo mondo significa ereditare tutto questo: qualcuno potrà chiamarlo con il nome di peccato originale ma, al di là dei nomi, la realtà è semplice: chi diventa uomo o donna porta su di sé i peccati del mondo e deve cercare di diventare corredentore insieme al redentore Gesù Cristo.

Mi rassegnai a celebrare in peccato, con timore e tremore, e dicevo: «Questa eucaristia non diventi per me giudizio di condanna, ma rimedio e difesa dell'anima e del corpo».

Ma questa era la mia condizione di uomo schiavo, ferito nella fede, attaccato dalla disperazione e con la carità offesa.

Allora mi venne in aiuto il Signore e compresi che Gesù stesso, la sera in cui celebrò l'eucaristia, era nella condizione mia di quella notte.

Certo, Gesù non era caricato di peccato personale, ma a quel punto poco importava: era il suo corpo ferito e pieno di peccato che si presentava al Padre e ai fratelli per dichiarare vinta in anticipo la guerra al peccato. Facendo che cosa? Dando la sua vita.

Allora anch'io, così piccolo, divenni coraggioso.

Presi il pane e il vino: «Spirito Santo, questa materia sta davanti a te. E la stessa su cui alla creazione del mondo tu danzavi giocando su tutta l'estensione della terra. Spirito Santo, benedici questi doni».

Poi mi rivolsi a Gesù e, come egli aveva fatto con noi chiedendoci di fare a nostra volta lo stesso, presi il pane tra le mani, lo benedissi e lo diedi al Signore Gesù dicendo: «Prendi, offrilo al Padre, questo è il mio corpo che io do a te».

Poi presi il calice del vino, lo diedi al Signore Gesù e dissi: «Prendi, offrilo al Padre, questo è il mio sangue che io sono disposto a dare per il perdono dei peccati».

Anch'io, come piccolo corredentore, avevo fatto la mia parte, ma in quell'istante mi ricordai, e ne celebrai la memoria, che Gesù prese il pane e il vino dicendo: «Questo è il mio corpo e il mio sangue, dato per voi, per il perdono dei peccati».

Fu in quell'istante che sentii cadere su di me e sul mondo il perdono, quel perdono di Dio che da tanto aspettavo.

Fu quando ricordai e feci memoriale di quelle parole: «Io do la vita per il perdono dei peccati», che sentii nella carne scendere l'assoluzione per me e per il mondo.

Io anche ero corredentore, ma lui il Redentore; io anche figlio, ma lui il Figlio, il Primogenito di tutte le creature; io ero corpo, ma lui il capo di questo corpo ferito e redento della Trinità.

Così continuai a celebrare: «Celebrando il memoriale del tuo Figlio morto e risorto per la nostra salvezza, ti offriamo, o Padre, questo nostro corpo e questo nostro sangue, sacrificio a te gradito per la salvezza del mondo»...O Padre, tu non gradisci i sacrifici e meno ancora il sacrificio di tuo Figlio, ma siamo noi che abbiamo bisogno che tu li accolga perché noi possiamo dare la vita per gli altri, per la guarigione del tuo corpo dal peccato.

Tu non sei il Padre severo che ha voluto vedere il Figlio immolato, crocifisso davanti a te per essere placato da tanto gravi colpe, no. Al contrario: è il Figlio che ti chiede di accettare questa testimonianza di solidarietà e di amore con l'umanità. È Gesù stesso che te lo disse la più terribile notte del mondo: «Padre, certo vorrei che questo calice si allontanasse da me senza doverlo bere, però ti chiedo, ti prego, ti supplico, Padre, accetta che si possa compiere questa nostra volontà».

Ovviamente, la volontà del Figlio è la stessa del Padre e dello Spirito Santo e tutta la Trinità sa e vuole che sia testimoniato l'amore fino all'ultimo, ma chi in quel momento riveste la stessa carne del corpo di Dio è lui, il Figlio, che grida con tutta la sua forza: «Voglio che la tua, la mia, la nostra volontà si compia».

Ed ecco che anche noi possiamo osare: osare, con il Figlio, di dire, Padre!

E con il nostro corpo martoriato e perdonato, a cui restano però tutti i segni della croce e i lividi di tanta passione, osiamo prendere in mano il calice della salvezza e invocare il nome del Signore.

Alienazione o incarnazione?

Venerdì. Signore, oggi guardando, rileggendo e ripregando queste pagine scritte, mi pare di essermi un poco distratto dai problemi quotidiani, che spesso nel lavoro e nella fatica sono diventati preghiera; e queste notti di buio o di maturazione della mia fede mi hanno forse alienato? Non incontro più qui le grida di Abele che chiede giustizia, né la volontà di Abramo di liberare il suo popolo, né la volontà politica e religiosa di quel popolo eletto di riscattarsi, di uscire dall'ingiustizia per dare a se stesso e ai propri figli solidarietà, libertà e dignità.

Eppure, se queste pagine sono «vere», dovrebbero contenere tutte queste cose...

Vetrina-celebrazione

Sabato. La preghiera che ho appena fatto dove mi porterà? A un maggior rispetto ecologico del mondo? Oh no, no! Sento che mi porta altrove e in una nuova dimensione.

In primo luogo, Signore Gesù, so che sei diventato e sei nostra voce di fronte al Padre e noi, insieme a te, siamo diventati la voce di ogni creatura, siamo con te il grido di perdono per tutta la violenza, e il grido di speranza dei cieli nuovi e terre nuove di tutta la creazione.

E da oggi, quando me ne darai la grazia, zappando la terra, buttando dei semi, macerando il grano, costruendo case, stringendo tra le dita dei gessetti che tracciano segni sulle lavagne, afferrando il bisturi, passando le dita sulla tastiera del computer, calpestando il fango appiccicoso che mi porta nell'ultimo villaggio senza missionario, alzando con le mani i bastoni che sorreggono gli striscioni della manifestazione, stringendo una pietra in mano con collera o sistemandola serenamente per posare il capo... saprò...

Sì, saprò che starò celebrando il grande sacramento.