IL DIALOGO DEI MONACI
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Figli fedeli della più antica tradizione monastica All’inizio di dicembre, le visite all’eremo si erano ormai diradate e la neve aveva cominciato a scendere, isolando sempre più quelle due creature, figli fedeli della più antica tradizione monastica ed eremitica. Ma, in certi momenti, una comunità così piccola rischia di sentirsi soffocare. Per questo lo starez, forse un poco disanimato, forse pensando alla sua comunità o a san Francesco, su un pezzo di carta che puzzava di formaggio vecchio, scrisse: Ho la tentazione di pensare che tutte le cose radicalmente evangeliche siano piccole. Ahimè! Temo di aver pensato una stupidaggine, ma preferisco chiedere scusa per averla scritta che cancellarla. E dimenticò quel pezzetto di carta tra le pagine della Bibbia. Di fatto, pensando alle comunità di qualunque tipo, è difficile immaginare interi eserciti di santi, di martiri, di monaci. Gli apostoli di Gesù erano dodici, i discepoli di Francesco d’Assisi la metà e i monaci di Santo Benedetto sono rimasti in due. Eppure Teofilo e lo starez hanno continuato a proporre quello stile di vita a tanti giovani, per essere in tanti nella comunità. Quindi quel pensiero del vecchio monaco era forse una tentazione per non sentirsi frustrato di vivere una comunità tanto piccola.
Un alveare di preghiera e di lavoro Comunque, anche quando l’inverno rinchiude i due eremiti nella loro prigione monastica, l’attività non diminuisce: semplicemente muta; ma la casa santa continua a essere un alveare di preghiera e di lavoro. Teofilo travasa il miele, accudisce le api; poi prende badile e cazzuola, sabbia, cemento e calce e riforma i muri più vecchi; con chiodi e martello ripara il tetto, riassesta i pavimenti; e, come se non bastasse, lavora nella falegnameria e nel laboratorio di artigianato. L’anziano dipinge icone. Prepara la tinta di fondo, poi, con tecnica non comune, passa la prima mano sulla tavola di legno ben levigato. Cominciato l’abbozzo, già vede l’immagine, ma non ha fretta: prepara le tempere, il tuorlo d’uovo con l’aceto bianco, i pennelli, le vernici naturali con molta religiosità: sa che dipinge un’immagine santa In quel periodo prolunga il tempo della preghiera in chiesa e parla di meno proprio per meglio accogliere l’anima dell’Invisibile.
Signore, mostrami il tuo volto Mentre dipinge, prega: “Signore, mostrami il tuo volto. Signore, mostrami il tuo volto”. E continua a passare le tinte più chiare su quelle scure, lasciando emergere la luminosità dell’espressione. “Signore, non nascondermi il tuo volto”: lo ripete tante volte quante sono le infinite pennellate. Poi l’oro, poi la cornice e da ultimo porta l’icona a Teofilo perché la benedica; così nuovamente s’inginocchia e contempla l’anima del Volto. È un poeta e un mistico e, se non fosse che il giovane ha i piedi per terra, morirebbe di fame e di freddo come un passero abbandonato d’inverno. Ma la sua comunità lo fa vivere e lui fa vivere la sua comunità.
Natale, poi l’Epifania Era arrivato il Natale, poi l’Epifania e la neve non era riuscita a ostruire proprio tutti i passaggi; di tanto in tanto un po’ di sole ne scioglieva una parte e l’inverno risultava più mite. Per Natale i due monaci avevano fatto tutte le celebrazioni solenni e, talvolta, qualche famiglia di contadini relativamente vicina era pure apparsa per condividere momenti tanto sacri. Tutto si svolgeva normalmente: Teofilo continuò a preparare un paio di tavoli da cucina per gli ospiti e passò alcuni giorni a rivedere il trattore di un mezzadro non distante da loro (era anche meccanico); poi ci fu da travasare il miele e sempre da accudire quei benedetti alveari. Lo starez, intanto, dipingeva le icone per le comunità che le avevano richieste, mentre la preghiera ritmava i vari tempi della vita in monastero e tutto il lavoro era dedicato al servizio.
Inaspettato e terribile Ma un certo giorno, verso la fine di gennaio, dopo le preghiere del mattino, capitò qualcosa di inaspettato e terribile in Santo Benedetto. Lo starez se ne accorse per primo; in silenzio, si alzò dal suo sgabello e andò a guardare a un palmo di distanza l’icona di Gesù Maestro posta sull’ambone. La osservò bene e, con sorpresa, gli sembrò priva della consueta luce che emanava dal volto. Gli occhi non erano più penetranti, anzi sembravano spenti; l’icona pareva senz’anima, anzi sembrava morta, proprio morta. Mentre tentava di spiegare l’accaduto, vide Teofilo che, senza dire una parola, corse ad accendere i due fari che illuminavano l’immagine dipinta sul catino absidale della chiesa. Sperava di fare in tempo, con più luce, a rianimare quel volto, che era già spento. Quindi accese tutte le candele che c’erano in chiesa, perché la fiamma è molto più calda, più viva, ma nulla valse a ridare vita alle icone: anche quelle dei santi a lato erano spente. E pure il volto della Madonna della tenerezza, che lo starez aveva provato a toccare, era rimasto senz’anima.
Il pane Mentre il vecchio monaco passava uno a uno i quadri della Via crucis, Teofilo andò in sacrestia a prendere la chiave del tabernacolo e tornò visibilmente agitato, al punto che non riusciva nemmeno più ad aprire la porticina. Si accese la lampada dell’ostensorio e questo, tutto dorato, mostrò tra i riflessi dei raggi tutta la sua bellezza e solennità. Sì, anche questa volta si presentava solenne come sempre. Ma quando Teofilo guardò bene l’ostia che stava nel mezzo, là dove incontrava sempre il cuore del mondo – la presenza di Cristo – vide solo un pezzo di pane bianco. Avvicinò la mano, lo toccò: era proprio solo pane. Allora accostò la porta senza più chiuderla e si avvicinò allo starez, che si era messo a leggere la Bibbia ad alta voce.
Le parole Teofilo si sedette e lo starez declamò ad alta voce l’intera lettura del giorno, con la speranza di sentire almeno la parola di Chi era assente; ma, quando arrivò alla fine, non trovò in sé la forza per dire almeno sottovoce: “Parola di Dio”: gli parve il romanzo che leggeva per ammazzare il tempo, prima di entrare in monastero. Gli sarebbe bastato che nella Bibbia fossero rimaste almeno le parole di Dio, ma c’erano solo parole. I due monaci non si erano più parlati l’un l’altro.
Per un turista non era cambiato nulla Un signore che dava l’impressione di essere un turista entrò in chiesa dalla porta cigolante, fece mezzo segno di croce e la genuflessione, guardò con stupore le luci e le candele, poi si rivolse allo starez: «Mi hanno detto che avete del miele da vendere, vero?». «Sì – rispose il vecchio – ma per il miele è con lui che deve parlare» e indicò il confratello a cui subito lo sconosciuto si rivolse. Teofilo andò a prendere il miele, lo portò in portineria, prese quei due soldi con molta semplicità e si congedò con il passante, che non si era reso conto di nulla. Il colore delle icone era lo stesso, il tabernacolo, i quadri della Via crucis, la Bibbia esposta: tutto sembrava uguale. Ma per i due monaci, abituati a contemplare l’Invisibile, tutto era cambiato, perché l’Invisibile non c’era più. Lo starez andò a mescolare un po’ di granoturco e biada per le galline, poi munse la mucca, scaldò il latte, fece il caffè e collocò sul tavolo un formaggio, le tazze, cucchiai, coltello, bicchieri, acqua.
Convivere con l’assurdo Suonò il campanello per la colazione, ma Teofilo rimase nel laboratorio. Lui pure non si sedette, lasciò raffreddare il latte, il caffè, dopo di che ritirò tutto dal tavolo, e cominciò a lavare posate, tazze e bicchieri. Nel frattempo Teofilo passò in cucina e si stupì: «Com’è che lavi quella roba pulita?». «Eh! Bisogna abituarsi a vivere in un altro modo: vivere come se... come se esistesse ciò che non vediamo e come se non esistesse ciò che crediamo di vedere... Oh, sta’ tranquillo che non sono diventato filosofo, so appena lavare i piatti sporchi e puliti». «Vuoi dire che bisogna cominciare a convivere con l’assurdo!». «Eh! Eh!».
Che ora era? Prima che uscisse dalla cucina, il vecchio gli domandò: «Teofilo, che ora era?». E lui, intendendo bene, ancora mezzo confuso rispose: «Avevamo appena terminato i Salmi delle lodi, quindi dovevano essere circa le sette e un quarto», poi uscì. La domanda dello starez e la risposta di Teofilo si riferivano all’ora in cui Dio stesso, la Madonna, i santi, tutti, proprio tutti, avevano abbandonato il monastero Santo Benedetto, lasciando i due poveri monaci atei e soli. Appena si riebbe un poco e sentì il cervello più libero, l’anziano prese la scala e una lattina di tinta per cancellare la scritta “Santo Benedetto” sulla porta del monastero, perché non c’era più il Santo e il luogo non era più benedetto.
La notte più buia Nel Vangelo si parla di un signore che, partendo per un lungo viaggio, lasciò i propri beni ai suoi servi perché li amministrassero. Si racconta pure delle vergini prudenti che aspettarono con le lampade accese, con la certezza che lo sposo sarebbe arrivato; che Gesù stesso sulla croce gridò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”; e che, dopo la sua morte, anche gli apostoli rimasero atterriti e delusi al punto che qualcuno aveva già ripreso la strada di ritorno a casa – verso Emmaus – sapendo che quella storia di liberazione non si sarebbe mai più realizzata. Questi, all’incirca, furono i pensieri che i due monaci si comunicarono la sera, prima di ritirarsi nelle proprie stanze. Teofilo e lo starez sapevano bene che tutti i mistici sono passati per queste notti terribili, ma adesso la loro notte era la più buia di tutte.
Tutto come se… Decisero allora di fare tutto come prima: l’adorazione in chiesa proprio come se Dio ci fosse, recitare i Salmi e leggere la Bibbia esattamente come se fosse la parola di Dio, celebrare la Messa come se Cristo ritornasse presente come tutte le altre volte e contemplare le icone come se fossero vive, anche se erano morte. L’unica differenza fu che prolungarono i tempi di questa assurda preghiera, fatta di dialogo intimo e personale con nessuno, e pure il tempo di lavoro. Digiunarono due giorni la settimana e tentarono di moltiplicare i gesti di carità nella loro piccola comunità. Ma, di tanto in tanto, uno dei due andava in crisi: «Perché continuare a fare tutto questo?», ossia tutto quel sacrificio quando non c’era nemmeno Dio che dicesse loro grazie. Lo starez, un giorno, si domandò: «Prima che Dio se ne andasse, facevamo forse queste cose per far piacere a Lui? Perché ci dicesse grazie? Non sarà che bisogna passare per questo assurdo buio per arrivare alla gratuità?». «Eh! La gratuità... la gratuità» bisbigliò Teofilo.
La gloria di Dio Poco dopo tornò in cucina con una decina di pezzi passati al tornio, traforati e scalpellati con infinita pazienza. «Al fuoco al fuoco – gridava, mentre li faceva a pezzi piccoli – Li ho fatti perché piacessero a chi me li ha comandati e li ho aggraziati per la gloria di Dio! Ah! Ah... Per la gloria di Dio! Devo rifare tutto... tutto da capo! Te lo immagini Dio che riceve gloria dai miei legni scolpiti, dalle mie orazioni, dai miei digiuni? Ma Dio non ha bisogno di questo! Al fuoco, al fuoco!». E continuava a mettere quelle opere d’arte nella stufa. Anche lo starez, quando se ne rese conto, corse al piano superiore dove dipingeva e prese le ultime tre icone. È vero: non avevano il volto, ma i vestiti, quelle infinite pieghe, il dorato di fondo, le cornici... Alzò l’accetta e le fece in tanti pezzi. Non le aveva ancora viste nessuno, proprio nessuno, né Teofilo, né Dio stesso, che aveva già lasciato il monastero quando le aveva cominciate. E scese anche lui per aumentare il fuoco. Poi i due monaci cominciarono a ridere, ridere, ridere, come chi ha perso il controllo dei nervi: «Sì, sì, questo diventa un manicomio... ma è più bello un manicomio dove si ride che un monastero dove si piange». E continuarono a ridere come due ubriachi, fino a perdere le forze. Sembrava quasi che Dio fosse tornato al monastero, ma no... era stata solo una breve parentesi.
Preghiera e digiuno E la vita riprese normale: lo starez dipingeva, Teofilo lavorava nella sua bottega. Preghiera, digiuno, tutto come poteva desiderare la regola più severa. «Teofilo, mi dici perché continuiamo a digiunare?». «Non so perché digiuni tu, da parte mia digiuno perché non ho più nessun motivo per farlo... né per Dio, né per me, né per gli altri... Mi alleno alla gratuità». «E allora anch’io mi alleno alla gratuità». Ma il momento più difficile era la celebrazione della Messa. Come celebrare la grande comunione con Dio, quando proprio lui non c’era? Come celebrare la sua presenza in mezzo a loro, mentre era assente? Ma i nostri monaci non lasciarono mai di vivere tutto come sempre, facendo le stesse cose, proprio come se Dio stesse abitando là. Quando non digiunavano, la sera cenavano con castagne e polenta o latte, e intanto raccontavano, ripetevano, ricordavano tutte le cose che si dicono gli intellettuali e i mistici, ma anche la gente più rozza e rude del campo.
Dio solo Una sera lo starez esclamò: «Teofilo, quella parola scritta su tante porte dei nostri monasteri: “Dio solo”, “Dio solo basta”, spesso viene intesa in un modo grottesco. Molti pensano che noi monaci non abbiamo bisogno di molte cose nella vita, che ci accontentiamo di poco, al punto che per noi Dio è sufficiente. Così come si pensa che a quel mendicante basti un pezzo di pane e acqua per vivere e a quell’altro una camicia anche d’inverno, ai monaci può bastare Dio solo, quasi fossero persone che si accontentano di tanto poco. Penso che bisognerebbe correggere questo modo di pensare: “Dio solo” significa che noi siamo i più pretenziosi che esistono al mondo. È come dire a qualcuno: “A te possono bastare tutti i dollari degli Stati Uniti, i castelli della Loira e le fazendas del Brasile, ma a un monaco questo non basta; al monaco basta solo Dio, soltanto Dio può riempire il cuore di un monaco”. Non è così?». «Anch’io penso che bisogna correggere l’idea distorta che al monaco basti poco, che gli sia sufficiente Dio. Il peggio è che questo pensiero non è solo di gente profana, ma spesso lo coltiviamo come zizzania delle nostre case... Ma, Padre, cosa capita a un monaco insaziabile, insaziabile al punto che gli basta soltanto più Dio?». «Ho capito, ho capito... Cosa fa questo monaco insaziabile quando resta senza Dio?».
Né Dio, né polenta, né castagne «A noi non sono rimasti dollari, né castelli, né fazendas, ma i pochi soldi del miele, una casa vecchia e un orto coperto di neve e Lui se n’è andato». Lo starez mangiò le quattro castagne che gli restavano in mano, poi uscì a prendere altra legna, segno evidente che il discorso doveva prolungarsi fino a tardi, e rientrò già commentando: «Eh! noi, i monaci insaziabili!» e continuò facendo fuoco. Teofilo guardò nella pentola e osservò: «Noi, i monaci insaziabili, non abbiamo nemmeno più castagne!». «Cuociamo un altro po’ di castagne, Teofilo, tanto andremo per le lunghe e domani è giorno di digiuno». «Ah già, domani per gli insaziabili anche il giorno di digiuno: né Dio, né polenta, né castagne». L’anziano prese il sale, un po’ d’erba dolce e quattro manciate di castagne e mise tutto nell’acqua che stava già bollendo. E subito il monaco Teofilo riprese: «Allora? Cosa capita a un monaco diventato insaziabile al punto che gli basta soltanto più Dio, quando... quando... quando gli capita ciò che è capitato a noi?» e si grattava la testa sembrando nervoso, ma subito tornò calmo. Restarono a lungo in silenzio. Lo starez appoggiò la testa sul tavolo e Teofilo pensò che stesse dormendo, così passò abbastanza tempo.
La gratuità Le castagne si cucinarono, il fuoco si affievolì al punto che Teofilo andò a prendere un giaccone più pesante e non pensò che fosse necessario mettere altra legna: credeva che la serata fosse finita e che le castagne restassero da mangiare. Ma lo starez alzò la testa e, come continuando un discorso già avviato, concluse: «Dunque, se riteniamo che le nostre preghiere e i digiuni facciano contento Dio, se pensiamo che con i nostri atti di carità lo rendiamo glorioso, se presumiamo che con la nostra santità (come se fosse nostra!) facciamo Dio più felice, penso che egli stesso non abbia altra alternativa che lasciarci soli, se vuole educarci». «Gratuità... Gratuità…» concluse Teofilo. «Può essere proprio così». Terminarono di mangiare le castagne e la cucina si stava ormai raffreddando. Ammucchiarono le bucce, ritirarono la pentola dal fuoco e s’incamminarono verso la chiesa per l’ultima preghiera della notte. Prima di entrare in cappella, lo starez disse ancora a Teofilo: «Quindi nella notte dei sensi il monaco deve vivere come se Dio esistesse». «Sì, come se Dio esistesse, perché nella notte il monaco sa che Dio non esiste più... se Lui stesso non torna».
Tensioni Giorni e notti si susseguirono in quella scuola di gratuità: ma il grande vuoto, il digiuno, il lavoro intenso e il sonno molto ridotto causarono grandi tensioni: in certi momenti i due monaci non si capivano più, ogni gesto di carità che uno faceva si trasformava in offesa per l’altro. Si odiavano, si chiedevano scusa, si perdonavano e tornavano a offendersi come se fosse diventata un’esigenza chimica della convivenza. Poi tornava la calma e, in seguito, nuovamente la burrasca. Ma ciascuno desiderava tanto il bene dell’altro e ciascuno era così dimentico di se stesso che non si adattavano a vivere quei momenti di tensione che poi si diradavano.
Il tempo della Trasfigurazione L’inverno era arrivato al culmine, le strade erano bloccate per la neve, che continuava a scendere come se volesse coprire tutte le cose interamente e seppellirle. Quel mattino, Teofilo attese abbastanza il confratello che stava ritardando come non aveva mai fatto, poi lo chiamò, fuori da ogni consuetudine, e salì per vedere se avesse bisogno di qualcosa. Entrando nella stanza, lo vide inginocchiato e accasciato sul banco di lavoro, dove troneggiava una grande icona. Questa volta lo starez aveva deciso di dipingere il volto: era l’icona della Trasfigurazione. Quando Teofilo la guardò e si rese conto che non era più vivo, si domandò: «Sarà passato Dio, almeno per un momento? Almeno il tempo della trasfigurazione?». Era possibile pensarlo, anzi era probabile, ma nessun segno del divino poteva garantire che fosse davvero accaduto. Ormai il volto del Cristo trasfigurato non era più trasfigurato e il vecchio monaco era morto.
Padre nostro e Ave Maria Teofilo, allora, corse nella cappella e s’inginocchiò come se fosse davanti a Dio; si rivolse a Lui come se il Signore stesso lo stesse ascoltando, Gli offrì la vita del confratello come se la stesse accogliendo. Recitò il Padre nostro proprio come se il Padre fosse lì, anche se sapeva che non c’era. Recitò l’Ave Maria come se la Madonna potesse intercedere, anche se lui, Teofilo, sapeva che non c’era più. E adesso non c’era nemmeno più il suo starez. Poi tornò dal corpo morto del monaco. Rimasto solo, non poteva nemmeno chiamare nessun vicino, perché la neve lo aveva quasi seppellito. Allora, dopo la chiesa andò nella cantina, là al buio, chiuse la porta perché nessuno potesse sentirlo e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni: «Teofilooooooo! Teofilooooooo!» per sentire egli stesso la propria voce; per rendersi conto se c’era ancora, se era ancora vivo, adesso che, dopo tutti gli altri monaci, era morto anche lo starez. «Teofilooooooo!» gridò ancora una volta, forse per spaventare la morte e dire con forza a se stesso che probabilmente era ancora vivo. Uscì dalla cantina con calma e salì la scala come in processione, poi entrò nuovamente nella stanza che era stata dello starez, ne distese il corpo per terra perché non indurisse in quella posizione, poi ridiscese, preparò acqua e tovaglia e salì per lavarlo e rivestirlo con ciò che c’era di più bello in casa. Pettinò i capelli e la barba di quell’ultima icona morta. Fece il segno della croce sulla fronte, sulle mani, sui piedi, poi lo lasciò e scese.
La veglia Teofilo tentò di camminare molto lentamente e con calma, perché sapeva che solo così poteva superare quella notte dentro la notte. Andò in cucina, si sedette e preparò un po’ di caffè che bevve a sorsi lunghi e stanchi, poi si diresse alla falegnameria: nessuno poteva aiutarlo. Solo lui, proprio solo lui, poteva cercare gli assi, inchiodarli, levigarli per fare la bara. Ci lavorò l’intero giorno. Avrebbe voluto stare un mese in quella bottega e scolpire ogni centimetro della bara, ma bisognava fare in fretta. Quando scese la notte, portò quattro grandi candele vicino al corpo dello starez, le accese, collocò l’icona della Trasfigurazione davanti a quel corpo morto e passò la notte facendo la veglia. Pregò la notte intera, una preghiera gelata come la neve, come il volto di quel Cristo non-trasfigurato e come il corpo del vecchio monaco.
La celebrazione Al mattino Teofilo tornò in chiesa, preparò l’altare e ogni angolo come per le più grandi solennità: Natale, Pasqua, Pentecoste. Accese tutte le luci e le candele. Solo non c’erano fiori, perché la neve aveva congelato tutto. Portò la bara al centro della chiesa, poi salì, caricò il corpo come si porta un bambino e lo depose là, attorniato da tutte quelle luci e dal terribile silenzio. Poi si preparò e celebrò con solennità, come in una grande basilica gremita di popolo di Dio. «Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen! Il Signore sia con voi...». Silenzio. Per la prima volta in quella chiesa nessuno aveva risposto: “E con il tuo spirito”, ma Teofilo continuò fino alle esequie, tutto col massimo rigore. Dopo la benedizione finale e l’ultimo canto, tolse i paramenti e trascinò la bara passando nella portineria, poi nella bottega di falegnameria fino alla sala degli ospiti e, da ultimo, aprendo e chiudendo porte, alla cucina. Là si fermò nuovamente, andò a prendere piccone, pala e zappa e tornò per togliere dapprima la neve e poi preparare la fossa. Il tutto gli richiese diverse ore di lavoro pesante, finché fece scendere la bara; la coprì e, con un fil di ferro, legò provvisoriamente due legni incrociati sopra, poi rientrò. Scaldò un po’ di latte e andò a dormire con una febbre altissima. Ecco che cosa può diventare la vita di un monaco: è un uomo che deve avere una fede tanto grande, al punto da riuscire a vivere anche quando non la sente più.
Parecchio tempo dopo Parecchio tempo dopo questi fatti, un monaco straniero si avviò all’eremo, spinto dalla necessità di ristorare la propria anima nel silenzio e nella preghiera. Anche lui, come Teofilo, aveva l’abitudine di affidare le proprie riflessioni a un fedele taccuino: Mi trovai nella necessità di fermarmi un poco, per risentire più chiare le parole del mio Signore che mi accompagna ogni giorno e rivedere con più luce il suo Volto. So che il Signore è sempre con me e spesso è proprio Lui a portarmi a spalle, ma ci sono momenti in cui non lo vedo più, non lo sento più; allora divento triste e ho bisogno di fermarmi (è meglio prevenire questi momenti, ma a volte la mia pigrizia me lo impedisce). Allora faccio qualche giorno di ritiro spirituale, vado in una casa di preghiera, presso qualche chiesa o in un deserto e sempre un angelo cucina per me del pane – quel santo pane di Elia – che mi ridà la forza di riprendere il cammino. Quel giorno avevo deciso: “Devo reincontrarmi con il Signore, devo rivederlo un poco. Sto camminando troppo al buio, e temo di sbagliare persino strada. Ho bisogno che egli si riveli nuovamente. Andrò al monastero di Santo Benedetto”. Ma quando iniziai a scendere la valle, un terribile temporale mi costrinse a entrare nella prima casa vicina. Per un momento pensai che fosse il monastero, ma non era così. Restai un poco con i contadini, le donne e i bambini, poi ripartii. Pensavo che fosse finito, invece era solo l’inizio; ma non mi rendevo conto di nulla: volevo solo arrivare, arrivare e incontrare. Fui improvvisamente sorpreso da lampi, mi parve di essere in mezzo al fuoco e al terremoto, e mi rifugiai nuovamente in una casa. Pensai proprio che ero arrivato e che Lo stavo incontrando, ma non era il monastero. Era una cara famiglia, che mi accolse con tanta bontà. Ormai ero bagnato e preferii ripartire, poco dopo, in mezzo al temporale; a un certo punto, per il mio sforzo di camminare e la paura, quasi non ci vedevo più e non capivo dov’ero, quando tra piante e pietre vidi un’apertura. A una certa distanza mi sembrò una grotta, ed entrai. Mi fermai all’ingresso. Non avevo mai sentito un grido della natura tanto forte. Qualche tempo dopo, il cielo si rasserenò e solo in lontananza vedevo il chiarore degli ultimi fuochi tra le nubi. Allora arrivò un vento leggero, un vento che mi diede una pace profonda e restai ad assaporarla su quell’ingresso: pensai proprio di essere entrato nella “grotta di Elia”, là dove il Signore si rivela, e quando mi guardai attorno, con sorpresa, mi resi conto che era davvero la chiesetta del monastero, proprio dove volevo andare. Per un istante, in quel vento leggero, sentii un profumo di pane che arrivava dalla cucina e, a poca distanza, sulla porta del monastero, su una scala vidi il monaco Teofilo che, con lattina e pennello, stava scrivendo qualche parola in precedenza cancellata. Non sapevo nulla di ciò che era capitato durante quel lungo periodo. Solo a tarda notte il monaco mi raccontò ogni cosa. Poi mi disse: “Dopo la morte dello starez ho ricevuto tante lettere di giovani che chiedevano di venire qui, in comunità, nel monastero, per vivere insieme a dei fratelli e molto vicini a Dio. A tutti risposi: Certo, verrete, ma non in questo momento: sto facendo un periodo di preghiera, digiuno e deserto; appena sarà finito vi chiamerò”. E soggiunse: “Come avrei potuto spiegare che qui Dio non c’era, mentre loro volevano proprio incontrarsi con Lui?”. Era ormai molto tardi, ma andammo ancora in chiesa a ringraziare di essere nella grotta di Elia, su cui si possono abbattere temporali, terremoti, fuochi, ma dove arriva pure il vento leggero. In quel momento ero molto stanco e, forse per qualche secondo, mi sono addormentato o forse ho avuto una visione, non so: ma certo vidi quella chiesetta piena di giovani monaci che, insieme a Teofilo, cantavano il Gloria di Pasqua davanti all’icona della Trasfigurazione. E non fu una fantasia, visto che conservo ancora il rotolo della Regola che ciascuno di loro teneva in mano.
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