IL DIALOGO DEI MONACI
Capitolo VIII
GIOIA DELLA PREGHIERA
pag. 122-130
Gioia
«È proprio guardando a questa totalità che mi sorge ancora una
domanda circa l’apice dell’antropologia umana. Se chiedo infatti
a un musulmano qual è il punto più alto dell’antropologia islamica, mi
dirà che è la Pace. È anche il saluto che ogni musulmano rivolge a
chi gli passa accanto, benedicendolo: “La Pace sia con te” e
la
risposta è: “Con te sia la Pace”. Se poi chiedo a un indù
qual è
l’apice dell’antropologia indù, mi dirà che è l’uomo in armonia con
tutta la creazione, che rispetta fino all’inverosimile ogni
essere
vivente, infatti cerca di proteggere ogni forma di vita, fosse anche
il più piccolo moscerino. Se pongo la stessa domanda a un buddista, mi
dirà che è la libertà da ogni desiderio che potrebbe far
soffrire:
l’uomo che ha raggiunto la dimensione del nirvana. Ma quale sia
l’apice dell’antropologia cristiana, questo non riesco ancora a
coglierlo».
«È un uomo: Gesù Cristo. L’apice della nostra antropologia
cristiana è appunto Lui, crocifisso su una croce e risorto. Ma
la
Resurrezione appartiene a una nuova dimensione, di cui
abbiamo ricevuto la testimonianza senza però farne esperienza nel
quotidiano: perciò il culmine dell’antropologia cristiana si ferma là,
sul Calvario.
Ovviamente ogni momento della vita di Gesù bambino, adolescente, adulto,
di Gesù che insegna, che compie miracoli, che prega, sono
punti di riferimento per capire e indirizzare la nostra stessa vita,
ma l’apice è là, su quel monte. Noi predichiamo Cristo e
Cristo
crocifisso».
«Dobbiamo perciò concludere che il fine della nostra vita è
soffrire? Siamo stati creati per la sofferenza e solo per questo? Allora
l’uomo ha ragione a lamentarsi e spesso a rifiutare la fede cristiana».
«Teofilo, hai visto una sola dimensione della vita di Cristo. Gesù è
certamente l’uomo massacrato dal dolore più di ogni altro uomo che
è esistito ed esisterà sulla terra, ma è anche l’uomo che più di ogni
altro ha vissuto la dimensione della gioia nella massima misura che
un uomo possa vivere. Gesù visse la gioia nel suo quotidiano
di Nazareth in una famiglia così unica, in una dimensione di
affetto e
amore che possiamo solo immaginare lontanamente.
Quando stringeva la mano di una bambina morta potendo dirle Talithà Khum
o quando stendeva le mani sui malati per guarirli,
quando predicava il Nuovo Regno, le Beatitudini e annunciava il
Comandamento Nuovo e, in modo tutto unico, quando trascorreva le
notti col Padre in una preghiera che univa l’umano al divino con una
gioia che nessun uomo ha mai potuto né potrà mai sperimentare
e,
ancora, durante le sue giornate terrene, mentre amava ogni persona
che passava o sostava accanto a lui, ecco la gioia di Cristo è
al di
sopra di ogni altra gioia sulla terra. E, nella misura in cui
faremo nostra questa antropologia umano-divina, sappiamo che né il
dolore
né la morte riusciranno a sminuire il canto della nostra gioia che
si fonde e diventa tutt’uno con quello di Cristo».
«Padre, allora continuate a rallegrare il mio cuore parlandomi
di questa festa che, pur unita ai pianti di questa vita, non
m’impedirà
mai più di cantare: “E voi tutti benedite il Signore!”».
«Dopo aver balbettato queste poche cose sulla gioia, non mi resta,
caro Teofilo, che raccontarti con estrema semplicità la mia
esperienza della gioia, certamente diversa da quella di Gesù, dalla tua e
da quella di ogni uomo e donna che vive su questo pianeta. Ma ora
ritorniamo alle nostre occupazioni. Domani avremo un’intera
giornata di silenzio sulla montagna: ritroveremo gli arbusti cresciuti,
i boccioli fioriti, i ghiri, le manguste e forse qualche serpente da
cui dobbiamo difenderci, senza perdere l’occasione di dire: “E
voi
serpenti, rettili e mostri marini, benedite il Signore” e di
invitare a
lodarLo tutto ciò che incontreremo. Sarà certo una bella giornata».
Teofilo partì il mattino presto e il freddo piuttosto intenso
fu il
primo a condividere con lui la preghiera. Poi, guardando più lontano,
invitò anche la neve e il rumore del ruscello che scorreva a
valle:
“Freddo e gelo, benedite il Signore”. Così iniziò la lunga
litania.
Arrivarono poi il tepore, il caldo, le marmotte, gli scoiattoli e alcune
caprette che un ragazzotto accudiva da lontano, mentre giocherellava
da solo. La giornata passò tra un canto e l’altro. In un
momento, l’aria diventò viola e i colori più vivaci scomparvero, ma
Teofilo era
già sulla strada del ritorno per concludere con l’Eucarestia la
preghiera di quella giornata per lui troppo breve. Intanto si era
fatto
ansioso di sentire il suo starez raccontargli qualcosa della
sua esperienza sulla gioia. E il momento arrivò il giorno seguente,
dopo
le preghiere del mattino e la colazione davvero povera.
«Come ti avevo promesso, Teofilo, ecco la mia esperienza. Ho
pensato che mi sarei trovato meglio ad annotarla su qualche foglio di
carta, così rimaniamo più raccolti nel nostro silenzio, che
deve diventare sempre più ricercato, vissuto e apprezzato».
Allora Teofilo prese con emozione quel testo e corse subito
nell’angolo preferito dell’eremo, dove normalmente si fermava per la
meditazione.
Appunti sulla gioia
Anche se l’amore è il motore del mondo – ne parleremo di certo in
seguito – e potrebbe essere più coerente iniziare da lì, mi
sento
motivato a partire dalla gioia: trovo che essa o il suo sinonimo,
la felicità, siano i prodromi, gli indizi che precedono e
preannunciano
l’amore e le grandi emozioni. Tutto ciò che mi spinge a un’azione è
motivato dalla gioia: quando cerco di fare sia il bene, sia
il male,
aspiro alla felicità. Spesso non la raggiungo per pigrizia, incapacità o
follia, ma la perseguo sempre, oserei dire in ogni istante della vita.
La gioia vera e intensa è come una bomba atomica che distrugge
tristezza, angoscia, affanno, depressione, panico, ma anche
avvilimento, malinconia e sconforto. Talvolta posso confondere la
gioia col semplice piacere, oppure con l’appagamento per aver
raggiunto un oggetto: per la sua bellezza o preziosità, esso sembra
soddisfare il mio istinto che cerca spasmodicamente la gioia, ma può
essere un inganno. Per esempio, posso dire a me stesso: “Se riuscissi a
terminare il libro che sto scrivendo o a concludere la mia
composizione musicale o a finire il murale che mi sono proposto di
dipingere, ciò mi darebbe una grande gioia”. Eppure, nel momento
in cui termino l’opera, non ho il tempo di apprezzarla che è
diventata uno dei milioni di libri, musiche o quadri che
sostanzialmente ripetono le stesse parole, gli stessi suoni, gli
stessi
colori: la gioia che prevedevo è già frantumata.
Anche le persone possono diventare un oggetto che travisa la
mia aspettativa di gioia. Se, infatti, per costruire una
relazione con un
gruppo di malati, carcerati, mendicanti o comunque poveri, mi
dedico ad essi anima e corpo ma, senza accorgermi, mi lascio rodere
dal verme del successo, cercando di farmi strada e credendo di fare
strada ad essi, senza preoccuparmi di instaurare un’amicizia
profonda sopra una relazione sincera, non vivrò di gioia. Dio stesso può
venire trasformato da me in un oggetto. Ne sono prova le
preghiere che Lo considerano il dispensatore di ciò che gli
viene domandato e quindi un oggetto che non corrisponde a una
fede
cristiana sincera e adulta. Con questo Dio non sarò capace di
mettermi in relazione e, di conseguenza, raggiungere la gioia vera.
Dove, come e quando incontro la gioia? Evitando un’analisi
astratta, dopo aver esaminato con accurata indagine la mia
personale gioia, mi sono reso conto che per ottenerla devo trovarmi di
fronte a qualcuno con cui dialogare, cioè condividere ciò che
esiste nel mio profondo e potergli comunicare i sentimenti e pensieri
che il mio essere produce. Di conseguenza, ho bisogno di
ricevere dall’altro tutta la comprensione, la condivisione e la
stessa
comunicazione che contraccambia il dialogo con lui. Solo allora
sperimento la gioia, che è composta da me e gli altri in relazione, in
dialogo. È sufficiente sedermi accanto a un mendicante, anche con le
mani vuote, ma in dialogo: così posso essere felice.
Al contrario, costruire case per i poveri della valle,
piallare gli
assi per una porta dell’eremo in costruzione, preparare una scuola
mobile per i bambini pastori sugli alpeggi della montagna o ancora,
con i contributi degli ospiti, sostenere un ospedaletto da
campo in Africa o una tenda-scuola per i Beduini Saharawi, finire
una barca
da pesca per i Bajjao delle Filippine, o portare a compimento
qualunque altro nobile lavoro – come scrivere, cantare o dipingere –
può non farmi raggiungere la soddisfazione piena dello spirito, se mi
manca la relazione o se essa è solo parziale.
Io voglio la gioia, la desidero, la spero e spesso la ottengo, anche
se parzialmente, nella relazione. Se però cerco di dialogare con un
bimbo di pochi mesi, il quale mi sfugge appena si accorge che non
sono il suo papà o il suo interlocutore comune, devo capire
il suo
modo di cercare l’altro con un pianto inconsolabile che, se tardo a
lasciarlo libero, diventa grido. In realtà quel bambino mi sta
dicendo: “Vedi che so riconoscere chi mi ama davvero e so
dialogare con le mani che abbracciano, gli occhi, il sorriso
abbozzato? Se mi diventerai amico imparando il mio linguaggio,
potremo scambiarci una grande gioia”. E quando incontro mia
madre e ci raccontiamo i fatti dell’ultimo anno o delle ultime
settimane trascorse e mi sembra di
rilegare il mio cordone ombelicale a lei e torniamo ad essere
tutt’uno, una grande gioia
diventa il premio di quel momento; quando invece la relazione è
impedita dal tempo o dallo spazio, io inaridisco.
Non dovrebbe essere sempre vero il detto: “Lontano dagli occhi,
lontano dal cuore”, ma per me lo è troppo spesso. Per incendiare
l’affetto che mi porta la gioia ho bisogno di incontrarmi
occhi a occhi, stringere le mani e abbracciare l’altro, baciare,
accarezzare;
se questa dimensione mi manca, la mia gioia viene meno, il
mio animo non è appagato. Intravedo quindi una gioia
significativa là
dove vivo una relazione sincera con l’umano. Penso che nel rapporto
sponsale possa esistere il più alto grado di relazione e, di
conseguenza, di gioia ma, anche in questo caso – pur non essendo il mio,
poiché non ho fatto e vissuto questa esperienza – mi pare di
dover concludere che la gioia potrebbe non raggiungere la pienezza a cui
ogni essere umano tende se l’altro fosse considerato un oggetto
e non una persona in relazione.
Mi pare di essere un gabbiano che, sorvolando le spiagge e
le onde del mare per cercare nel cibo una pur piccola gioia,
vede
scritto ovunque: “più in là”. Mentre provo piccole e grandi gioie per
tutti gli oggetti e in tutto l’umano, in realtà tendo a una
felicità che
posso avere in questo mondo, ma che non è di questo mondo. Non mi
basterebbe saper parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli
per ottenere la pienezza della gioia a cui tendo. E se avessi il dono
della profezia e conoscessi tutti i misteri, se avessi la
conoscenza
piena e se, ancora, possedessi tanta fede da trasportare le montagne,
tutto ciò potrebbe non bastarmi per la gioia vera a cui tendo. E se
dessi anche tutti i miei beni per sfamare il mondo, fino a consegnare
alle fiamme il mio corpo per salvare qualcuno o fare del bene
in
modo eroico e se vivessi tutte le virtù, su ognuna di queste
azioni
potrei trovar scritto: “più in là”, “più in là, se vuoi
incontrare la Gioia vera a cui tendi”.
La Gioia che ho pur trovato qualche volta e che spero tutti i
giorni è
Dio stesso, o meglio la mia relazione con Lui, il mio pur
piccolo amore per Lui, poiché si relaziona con un amore
infinito. Posso
quindi dire che c’è una gioia nel contemplare ogni oggetto
della creazione, una Gioia a un livello certamente superiore nel
relazionarmi con l’umano e una Gioia al più alto grado
quando l’umano si relaziona con il Divino, il Trascendente: Dio stesso.
Anzi, quando si relaziona con Dio nell’Amore, l’umano cambia
persino
natura, diventando capace di compiere azioni che, arricchite da
Grazie speciali, costituiscono l’apice della bellezza umana. Essa
è
magnanima, vuol bene a tutti, non è invidiosa, non si vanta, non si
gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio
interesse, non si adira, non tiene conto delle offese, ma si
rallegra della verità. Quindi è capace di accogliere la Gioia che
non avrà
fine perché frutto dell’Amore, della Caritas.
In altre parole, questa Gioia è giocare sulle ginocchia del Padre in
una relazione che si realizza in questo mondo, ma non è di questo
mondo. E nasce dal fatto che, mentre tutte le relazioni con oggetti o
con l’umano sono in qualche modo imperfette – perché l’altro non
supera il mio stesso livello, quindi dopo poco tempo la mia memoria non
lo conserva e non lo riconosce – la Gioia che nasce dalla
relazione col divino è conservata nella memoria di Dio, per cui ogni
volta che ne faccio esperienza posso essere riabbracciato dalla
felicità nella sua pienezza.
Preghiera
A questo punto, Gioia e Preghiera diventano sinonimi, perché
la preghiera è proprio quella relazione con Dio di cui ho parlato.
La
preghiera rimane, per me, un desiderio che mi accompagna alla
gioia, anzi un grande desiderio, ma ancora molto arido, di
conseguenza è arida la mia gioia durante la preghiera. Mi domando con
umiliazione: “Perché mi dà più gioia una preghiera dove parlo e
dialogo con Dio come se fosse al mio livello e molto di meno un
tentativo di contemplazione? Cerco di dare una parziale
risposta
ponendo altri interrogativi perché di risposte vere e proprie non ne ho
trovate nella mia esperienza. Mi fermo dunque su quella gioia
impedita che avrebbe dovuto darmi la pienezza della soddisfazione
dell’animo e cioè la gioia della preghiera. Cosa impedisce
questa
legittima gioia? Forse l’aridità spirituale. Mi è molto
difficile addentrarmi nella mia aridità senza evitare scogli che
mi
manifestano contraddizioni insuperabili: la fenomenologia di questa
emozione si presenta a me come mancanza o incapacità di
relazionarmi con Dio nei momenti della preghiera.
Ho già detto che per vivere la gioia di questo dialogo o di ogni
dialogo devo trovarmi il più fisicamente possibile di fronte a
un
interlocutore. Nella preghiera ho di fronte a me sia il volto di Gesù
che di sua madre Maria, in quanto persone di questa storia e
pertanto almeno immaginabili. Anche il Padre e lo Spirito Santo li
credo fermamente presenti, ma la fatica e spesso l’incapacità
di
dialogare con questo mondo trascendentale mi fa seccare la linfa
dell’anima: mia madre stessa, come dicevo, è meno presente per me
quando è distante.
La mia aridità è una sorta d’incapacità, di svogliatezza, pigrizia,
stanchezza e comunque una forma d’impotenza nel produrre degli
atti affettivi, di passione, di eros e agape o almeno degli
atti intellettivi poiché mi trovo dinanzi all’Invisibilità. Questa
impotenza
in me è così apatica da indurmi una discreta fatica nel
rimanere costante nell’orazione. E una causa della mia aridità
potrebbe
essere proprio questo desiderio inconscio di pregare per provare
soddisfazione affettiva in questo vincolo tra me e Dio stesso. Forse
non sono disposto a una preghiera gratuita e per questo mi
penalizzo, pietrificando il mio cuore.
Di fatto mi sembra che i sensi non concorrano più all’attività che
dovrebbe contribuire a mettermi in relazione e anche tutte
quelle potenze interiori ed esteriori delle facoltà sensitive
diventano in
qualche modo impotenti. Certamente, quando mi dispongo alla
preghiera, e quindi alla gioia di stare con Lui, penso di far agire la
mia volontà di amare questo Dio. Per avere coscienza di amarLo,
devo pur conoscerLo, ma probabilmente lo faccio in modo attivo:
sono io che metto in moto le attitudini dello Spirito, ma non
so dispormi dinanzi a Lui in modo semplice come un bambino e
in
modo passivo. Probabilmente utilizzo i doni dello Spirito Santo,
in particolare la sapienza, la fortezza, la scienza, la pietà,
ma sono
sempre io che li metto in moto o pretendo di farlo, mentre il Signore ha
bisogno di una disponibilità diversa: pretende che Lo lasci libero
di offrirmi il dono di contemplarLo e di amarLo, sia pure in modo
confuso e oscuro perché sono umano. Così hanno sperimentato la
preghiera di contemplazione i mistici, nella notte dei sensi, ma essi
hanno saputo trarre grazia anche dal buio, dall’angoscia e dal loro
io umano, percepito sempre più come inadeguato a contemplare
l’Invisibile e l’Inafferrabile, nel silenzio di Dio.
In una parola, la mia aridità potrebbe proprio essere questo voler
amare con le forze umane per vedere l’Invisibile, toccare
l’Intoccabile, stringere chi non ha corpo o almeno (nel caso di Gesù) un
corpo non più come il nostro. Così io stringo sempre le mani, che
restano vuote. Di fronte a Dio faccio discorsi, cerco di dialogare e
meditare con l’attività della mente su questa o quella Parola di Dio,
ma non so abbandonarmi e lasciare che sia Lui ad offrirmi la
relazione, per Grazia e non per i miei sforzi e accettare anche che
questo dono non me lo faccia affatto, perché non ne ho alcun diritto.
Penso di dovermi solo disporre in modo che sia lo Spirito Santo a
pregare in me con quelle grida ineffabili… però a quel punto devo
accettare che nei miei confronti Dio abbia tutta la libertà di
usare
una forma di comunicazione con me che non sia la mia.
So che i suoi pensieri non sono i miei e che le sue attitudini
non sono le mie, ma penso di avere a disposizione solo il mio modo di
comunicare con Lui, di conoscerLo e amarLo per essere abbracciato dalla
pienezza della sua gioia. So che la mia anima deve rinunciare
in assoluto ad agire nel suo modo naturale, direi istintivo, che è
il modo di rapportarsi con ogni “tu”, poiché nella preghiera
non è
così: se per Grazia non rinuncerò ad essere io l’agente dell’amore
con Dio, l’agente della preghiera e se la mia preghiera non cesserà
di essere “mia”, dovrò ancora fare prolungate meditazioni come
preparazione alla preghiera.
Dovrei anche dialogare con Lui servendomi ancora di parole
come faccio con mia madre o mio padre, ma lasciare sempre di più
che nella preghiera sia ormai Dio ad agire e solo se Lo
vuole, mentre, da parte mia, accettare che la sua conoscenza e
amore mi
vengano comunicati non specialmente attraverso i miei sensi, ma nel modo
che è proprio e unico di Dio stesso.
Nella preghiera mi sono sempre sforzato di aggrapparmi a gusti, a
gioie, a “piaceri” spirituali, perché l’amore di “relazione umana”
offre questo, ma devo riconoscere che Dio si relaziona con me senza la
mediazione dei sensi, anche se esempi come il “Cantico dei
Cantici” mi fanno incontrare con un Dio tanto incarnato, molto
prima della stessa incarnazione di Gesù Cristo.
Quindi la fotografia della mia aridità è una preghiera in cui
Dio è come una creatura sia pure la più bella e affascinante,
ma pur
sempre un Dio che aspetta i miei “fioretti”, la mia disponibilità ad
azioni eroiche, un Dio che aspetta la mia disponibilità a dare il mio
corpo al fuoco per Lui, un Dio che aspetta nella mia preghiera
la disponibilità ad andare a predicare sui tetti le sue parole
e non è
ancora il Dio da cui devo avere l’umiltà di ricevere tutto,
passivamente. In quel caso, anche se il Signore mi vuol provare con
il suo silenzio o con un tempo di insensibilità non
considererò più
quella condizione come un tempo fallimentare, ma semplicemente
una scelta sua di rapportarsi con me. “Sono io che ho scelto voi e
non voi che avete scelto me” dice il Signore. In parafrasi: “Sono io, il
Signore, che scelgo il modo di lasciarmi conoscere, di
lasciarmi
avvicinare e di lasciarmi amare nel privilegiato tempo della
preghiera e non tu”.
Se il Signore vorrà continuare ad accettarmi come amante,
Gli
chiederò in particolare il dono dell’umiltà: così ciò che
chiamo aridità potrebbe anche non mutare radicalmente nella
sua fenomenologia – poiché è innestata sulle mie fragilità,
sulla mia salute fisica e su quella mentale e ancora sulla mia
intelligenza
limitata – ma non diventerà frustrazione e potrà
addirittura trasformarsi nel canto dell’amato nel deserto, nella
notte, perso come colomba nei dirupi della roccia; un essere che non
vede, non
incontra, non riesce ad abbracciare il suo amato.
Ma se Dio mi fa il dono di continuare a sapere che Lui c’è e
il
dono dell’umiltà di non pretendere nulla, questo per me sarà quanto mi
basta, almeno per il cammino in questa condizione terrena. Se
dovessi lasciare un’impronta plastica della mia aridità, essa sarebbe
come un uomo prostrato sulla sabbia del deserto, sapendo che Lui è
vicino a me, ma da parte mia senza alzare la testa, per timore, nella notte, di non vederLo.
E, chiudendo il testo, Teofilo cominciò a riflettere sulla sua relazione con il mondo, con l’umano e con Dio.