IL DIALOGO DEI MONACI
pag. 85-107
È
bene ribadire quanto già detto nell’introduzione: il capitolo
che segue dev’essere considerato come un unico e lungo interrogativo.
È uno stimolo alla riflessione e non un risultato dogmatico. Il
lettore, specialmente se studente di teologia, dovrà fare un
esercizio e cioè estrarre dal proprio bagaglio risposte più vere,
oppure confutare quelle errate o incomplete.
Satana e Inferno
«C’è ancora qualche ombra nel tuo sguardo indagatore!», osservò il Padre il giorno seguente.
E Teofilo: «Non pensate però che faccia fatica a mettere a
nudo tutti i dubbi e a formulare qualsiasi tipo di domanda, semmai
quando gli interrogativi sono più grandi di me temo di non cogliere i
concetti e di non essere in grado di riflettere in profondità,
specialmente su domande e risposte date per scontate da secoli. Ci
sono ancora due parole: ‘Satana’ e ‘Inferno’, che ho forse
inconsciamente cancellato dal mio vocabolario, sapendo però di non
poterlo fare senza strappare anche alcune pagine del Nuovo
Testamento. Padre, vorrei proprio cancellare dalla mia vita la parola
‘Satana’, oppure essere illuminato a leggerla. Troppe volte sento
la mia carne flagellata da mille tentazioni, che di solito vengono
attribuite a quell’oscuro autore».
«Teofilo, la tentazione non è il peccato, è una provocazione
alla lotta per diventare più forti e il fine della tentazione
non è che tu faccia il male, ma che ti fortifichi, superando la
pigrizia e rimanendo vincitore sul peccato. Se il diavolo della
religiosità popolare volesse farti del male, certamente non
lavorerebbe sulla tentazione e saprebbe molto bene che quella
lotta può renderti più forte, diminuendo così la possibilità di
sbagliare.
Si racconta che un giovane monaco abbia così pregato:
“Signore,
pensando a quella terribile notte, mentre ero assalito da
tentazioni che mi sembravano superiori alle mie forze e gridavo a
Te, perché sapevo che solo tu avresti potuto liberarmi, ebbene,
quella notte, mentre rischiavo di cadere e peccare, tu, Signore,
dimmi, dov’eri?”. Sembra che una voce gli abbia detto: “Ero
dentro di te e mi rallegravo nel vederti lottare”. Questa è una
parola in più per dirti che la tentazione è solo per fortificarci».
Teofilo riprese: «In ogni caso il personaggio in questione,
che sembra si sia auto-incaricato di farci fare del male, questo
demonio deve sempre avere un qualche permesso da parte di Dio
stesso, altrimenti non potrebbe agire in nessun modo. Se però è
così, il diavolo sarebbe la creatura più inutile e contradditoria al
mondo».
«Lo stesso Curato d’Ars, presentato nelle agiografie
in continua lotta contro Satana, un giorno disse: “Il diavolo mi fa
proprio pena.
Non so proprio come possa vivere”. E ora, poiché riconosco che non è
facile parlare di questo personaggio oscuro e contradditorio,
per spiegarmi ho confezionato una parabola, un’immagine plastica:
Un uomo sfortunato aveva un figlio che, molto giovane,
era precipitato nella droga, dapprima per scherzo, cominciando
a fumare con gli amici, poi con le pasticche di ecstasis,
quindi con l’eroina, finché via via imparò a bruciarsi polmoni e
cervello, al punto da diventare uno scheletro ambulante. Il
padre, disperato, dopo aver tentato di tutto non ebbe più mezzi per
salvare quel figlio a cui aveva voluto tanto bene e in cui aveva posto
tante speranze. Ad un certo punto gli venne in mente una
soluzione per certi versi orribile, ma che, nella disperazione,
gli sembrava l’unica strada ragionevole per non vederlo morire giorno
per giorno in quel
modo. Pensò: “Se riesco a procurargli un incidente che lo forzi a
restare in ospedale alcune settimane, chissà che non possa
riprendere la disintossicazione e forse salvarsi”. Nello stesso
tempo, sapeva bene che non poteva fare un’azione violenta contro
di lui: non avrebbe potuto accettare che proprio suo padre potesse
fargli del male.
Così l’uomo comprò una tuta da carnevale nera, con corna rosse e una
lunga coda, che rappresentava il diavolo. Mentre
aspettava il figlio, una sera vestì quell’orribile maschera, poi prese
una barra di ferro e, con tanto dolore nel cuore, si appostò
vicino alla scala. Appena lo vide arrivare, gli spezzò le due gambe
in un sol colpo. Il ragazzo ebbe giusto il tempo di vedere quel diavolo
e cadde. Allora il padre sfilò la tuta carnevalesca e corse dal figlio
che stava gridando. Lo raggiunse e l’abbracciò: “Figlio mio, chi ti ha
ridotto così?”. Poi lo tenne tra le sue braccia in attesa
dell’ambulanza. Intanto gli ripeteva: “Ma chi ha potuto farti una cosa
così orribile?”. E il figlio rispose: “Ho visto un diavolo, poi un
grande dolore e sono svenuto dimenticando tutto”. In ospedale ci
rimase oltre un mese per risolvere il problema della frattura e
iniziare per l’ennesima volta una terapia per liberarsi dalla
droga.
Vedi, una persona fragile e debole non riuscirebbe mai ad
accettare che suo padre possa avergli spezzato le gambe. Perciò è
meglio che pensi a un nemico, a un diavolo, poi quando sarà guarito
dalla sua malattia, sarà il padre stesso a confidargli come
sono andati i fatti. Penso sempre più che è Dio e solo Lui il Signore
della storia e non ha bisogno di nessun nemico che lo aiuti ad
allenare i suoi figli per diventare più santi attraverso le
tentazioni.
Da parte mia ti dirò che, pur non avendo
avuto nessuna rivelazione in proposito, penso che esistano degli
Spiriti, ma
sempre sottomessi a Dio con incarichi diversi per stimolarci e
riportarci alla santità. Possono essere gli Angeli che vanno a
incendiare Sodoma e Gomorra o i molti dell’Apocalisse, ma queste e
altre potrebbero essere semplicemente immagini di Dio stesso.
«Padre, non si parla anche di possessioni demoniache? E pure di esorcismi. Queste parole, allora, non hanno più senso?»
«Bisogna semplicemente rivedere il senso che hanno.
La possessione può essere un atto di odio che si è scatenato
contro un nemico. Come una pietra o un proiettile lanciati contro una
persona può anche distruggerla, così un atto di odio è anche
più forte di un’arma da fuoco e può creare danni così devastanti, da
sembrare in molti casi irreparabili; allora bisogna pregare su
queste persone, bisogna pregare e digiunare per esse come ci indica
Gesù stesso nel Vangelo. Ma può anche trattarsi di malattie vere e
proprie. Una volta portano a Gesù un epilettico e gli descrivono i
sintomi: per loro ha un demonio in corpo che lo getta a terra con
delle convulsioni e che ha cercato pure di buttarlo nel fuoco e
annegarlo nell’acqua. Gesù non sta a dire che tipo di malattia è, non
gli prescrive l’E.E.G. Gesù non vuol fare il medico e neppure il
teologo. Per Lui c’è un figlio che soffre e vuole liberarlo: se chi
lo ascolta si esprime dicendo che ha un demonio in corpo, Gesù risponde
che manderà via quel demonio».
Teofilo domanda ancora: «E quando Gesù manda gli Apostoli e i Discepoli a predicare e scacciare i demoni?»
«Gli Apostoli sono invitati a convertire i cuori, a cacciare
la pigrizia di fare il bene, a cacciare i vizi, i demoni
della superbia, della lussuria, dell’avarizia, dell’invidia, dell’ira e
tutti quei vizi che tengono prigionieri tanti fratelli. In una
parola, Gesù manda a convertire e cambiare la vita di chi va su
strade sbagliate e, siccome il peccato viene considerato una malattia,
Gesù li manda a guarire. E, quando i discepoli tornano contenti ed
esaltati per aver cacciato tanti demoni e spiriti immondi, Gesù dice che
è molto più
importante che i loro nomi siano scritti in Cielo: per questo li invita a
rallegrarsi.
Teofilo, posso ancora ricordarti che, durante il Concilio Vaticano II, i
Vescovi chiesero al grande teologo francese Pierre Benoît di dir loro
una parola sul personaggio oscuro che è il diavolo. Egli rispose che
non possiamo togliere quella parola senza strappare tante pagine di
Vangelo ma che – a partire dalle analisi bibliche contestualizzate nella
cultura semitica e tenendo conto di com’è venuta a formarsi
tale immagine – non si può dare a Satana un’identità attendibile.
Bisogna quindi concludere umilmente che non sappiamo cosa sia –
se un personaggio reale, simbolico, rappresentante del male
o personificazione di esso – ma essere anche molto comprensivi per
il fatto che, attraverso i secoli, non sempre la Chiesa
ufficiale ha trovato il linguaggio più adatto per parlare del male.
Comunque, crediamo in ciò che propone il Credo degli Apostoli che
non si perde nelle emozioni dei predicatori: crediamo quindi in Dio
Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo, nella Chiesa e in tutte
le verità rivelate da essa, anche se spesso con linguaggi impropri
poiché inficiati dalle modalità di pensiero delle varie epoche, ma
sempre in coerenza assoluta con il grande dogma di fede che è
Dio Giustizia infinita, Dio misericordia infinita e Dio amore
infinito: la Misericordia di Dio è infinitamente giusta, come la
sua Giustizia è infinitamente misericordiosa. E crediamo ancora la
Comunione dei Santi, la Resurrezione, la Vita eterna; il resto lo
deponiamo nel cuore di Dio, che ci spiegherà meglio quando lo
incontreremo a tu per tu, nei Cieli nuovi e nella Terra nuova».
«Padre, c’è ancora una parola che dovrete aiutarmi a
capire: ‘Inferno’. Questo concetto richiama quello di giustizia
divina e di libertà dell’uomo che lo stesso Dio rispetta, e di
mille altri. Come ben sapete, voglio essere totalmente fedele al Dio
della
misericordia, al Dio amante e appassionato di ogni creatura ormai carne
della sua carne e desidero promettere fedeltà al Gesù che m’invita a
perdonare settanta volte sette i nemici, cioè coloro che potrebbero
inchiodarmi su una croce come hanno fatto a Lui.
Ma mi chiedo: può questo Dio dimenticare tutto per infliggere a una
povera creatura umana, fragile dalla testa ai piedi, un
castigo come quello riportato in certi catechismi e in certi scritti?
Quando si parla di Inferno, si descrive un castigo che l’uomo
non
riuscirebbe nemmeno a pensare di sopportare un solo minuto,
figurarsi un’eternità. Non c’è un angolo nell’umano dove si possa
collocare un concetto simile. Quando parliamo dell’uomo dobbiamo
pur tener conto delle facoltà che possiede, delle sue
resistenze, delle forze e fragilità di corpo e spirito.
E ancora, come riferisce Matteo, chi dice “stupido” a un
fratello merita di essere processato e chi lo chiama “fallito” merita
il fuoco della Geenna, ossia l’Inferno. Questo è ciò che meritiamo
e, poche righe dopo, lo stesso Matteo accompagna alla soluzione:
devo perdonare il fratello che mi ha chiamato “fallito” e che merita
quindi di bruciare nella Geenna. Anzi, se mi trovo a offrire
il sacrificio all’altare, devo uscire, andare da mio fratello a
perdonarlo e a ricostruire la pace. Se dunque il Signore
chiede di perdonare colui che merita la Geenna e lo chiede a me
debole, fragile e cattivo, molto di più saprà perdonare Dio stesso. Mi
sbaglio, Padre?».
«Dio ci chiede un perdono incondizionato, cioè da dare sempre e se Lui
dovesse punirci con una vendetta eterna significherebbe
che dovremmo essere migliori di Dio stesso. Ma si sa che pensare a
un Dio meno buono dell’uomo significa far nascere l’ateismo. A
me sembra che le menti umane – compresa quella di chi dice di credere al
supplizio eterno – di fatto l’hanno rimosso,
coscientemente o no.
Un giorno un sacerdote mi confidò che in quasi quarant’anni
di ministero presbiterale non aveva mai incontrato una sola persona
che abbia evitato di commettere un crimine per sfuggire
all’Inferno, quindi vuol dire che non c’è spazio nella mente umana per
un luogo così. E, ancora, mi pare di dover dire che, se anche
un solo uomo potesse vivere in una dimensione punitiva di quel tipo,
allora sarebbe stata inutile l’Incarnazione, mentre il Gesù che
conosco sarebbe disposto a morire altre cento volte per salvare
un ipotetico condannato a un simile supplizio.
Quand’ero
bambino, la catechista ci parlò dell’Inferno. Fui molto impressionato e
domandai: “Se mia madre, a cui voglio tanto bene, dovesse andare
all’Inferno e io in Paradiso, come potrei restare felice sapendo che è
là, tra quelle fiamme?”. Senza il minimo dubbio, la catechista
rispose: “Dio ti farebbe capire perché è successo, dopo di che tu
resteresti felice per la vita eterna in Paradiso, mentre
tua madre starebbe dannata per l’eternità all’Inferno”. Avevo solo
sette anni, ma non mi conformai a quella risposta, che avevano già
dato Tertulliano, San Tommaso d’Acquino e molti altri,
pressappoco dicendo le stesse parole della mia catechista. Comunque
pensai che era matta».
Con tanta pazienza, senza mai
innervosirsi neppure di fronte alle domande che Teofilo poneva con
tanta passione e irruenza, il monaco soggiunse:
«Ecco una
breve riflessione che non è tratta da nessuna Enciclica della Chiesa, ma
che dev’essere purificata e forse chiarita meglio con altre più
profonde. Nessuno compra il Paradiso. Esso è un dono. Siamo
invitati a fare il bene e ad amare gratuitamente non
per ottenere un premio o per sottrarci al castigo. Una mistica islamica
del 1300, camminando con un bilanciere sulla spalla che da una
parte sosteneva un secchio d’acqua e dall’altra un’anfora piena di
carboni accesi, ammoniva: “Con l’acqua voglio spegnere l’Inferno e
col fuoco bruciare il Paradiso, così chi amerà Dio lo amerà
gratuitamente e chi vorrà evitare il peccato e fare il bene lo farà non
per sfuggire al castigo o avere un premio, ma solo per amore gratuito”.
In ogni caso, anche la più grossolana teologia del merito ammette che
possiamo fare una piccola parte con le nostre forze e con i
talenti ricevuti, ma che alla fine, sulla bilancia, la grande parte di
dono sia quella di Dio, che si aggiunge al nostro piccolo contributo
per offrirci una salvezza eterna. Non possiamo dimenticare che Gesù ci
ha amati di un amore totale ed è morto per noi con
un’offerta pura e santa e questo Gesù, la testa, ha fatto corpo con
noi, le membra, per cui tutto ciò che Lui è stato completa quello che
non siamo ancora.
Per questo possiamo osare di sperare la salvezza, non tanto
per i nostri meriti, ma per quelli di Gesù Cristo e il corpo di
qualunque di noi che è stato un pezzo del corpo di Cristo, un
corpo in cui ha abitato la Trinità e in cui hanno cantato gli Angeli
è difficile pensare che possa essere buttato via per un’eternità,
mentre è serio ritenere che venga purificato, come ci dice in diversi
modi il Vangelo».
Teofilo continuò: «Per ciò che riguarda l’Inferno di una
certa tradizione cristiana, che non è quello biblico – gli italiani
potrebbero chiamarlo dantesco – chi può meritarlo? Come le azioni
buone da sole non potrebbero procurarci il Paradiso, così ancor
più
difficilmente le azioni cattive possono avere un potere così
grande. Per meritarci un Inferno di quel tipo, bisognava che
qualcuno ci avesse odiati così tanto da essere alla pari di
Gesù al negativo, un Anti-Dio, appunto. Ma anche quando si parla di
Satana, la teologia cristiana non ha mai accettato il dualismo tra Dio
e un Satana che sia pari a Lui nel male».
Il vecchio riprese:
«Teofilo, prima bisogna chiarire che l’Inferno riportato nei Vangeli,
cioè la Geenna, luogo dove si bruciavano i rifiuti, sta a
significare che la pigrizia di fare il bene, l’orgoglio,
il potere e il denaro usati per schiavizzare gli altri, e tutti i vizi
capitali che possono essere coltivati da un uomo, al pari della
zizzania non hanno futuro, non entreranno nel Regno di Dio che è
Regno di giustizia e di Pace senz’ombra di male. Tutto viene
bruciato: la pigrizia che ha impedito al nostro frutto di maturare
come Gesù, la pigrizia di fare il bene che ha rallentato l’arrivo,
sulle nubi del Cielo, del Figlio di Dio, il quale – con il
Padre e lo Spirito Santo – concluderà la storia con il
Giudizio universale, la più solenne celebrazione della bontà e
misericordia di Dio. Questa pigrizia sarà appunto bruciata, poiché non
potremo presentarci di fronte al Padre senza essere prima purificati.
Ora, la purificazione avviene già qui su questa terra con il dolore,
la fatica del lavoro, la preghiera nostra e quella della chiesa
in cui abita Gesù Cristo e, da ultimo, prima di presentarci al
Padre saremo noi stessi a chiedere un fuoco che purifichi tutto
il male che ci ha feriti durante la vita».
E Teofilo soggiunse: «Allora la Geenna è più simile
all’immagine popolare del Purgatorio. Ma non sarà tanto Dio a
bruciarci, quanto noi a chiedere di essere bruciati, come mi avete
detto, cioè purificati, sgravati dai pesi che ci siamo portati dietro e
che ci hanno impedito di essere liberi di amare come Gesù. Saremo
quindi noi a chiedere questa soda caustica che ci lavi e
purifichi».
«All’immagine della Geenna è poi subentrata la tradizione,
non della Chiesa, ma di pittori, poeti e artisti vari, basti
pensare alle immagini del Giudizio universale della Cappella Sistina o
alla Divina Commedia. A difesa di Dante Alighieri bisognerebbe però dire
che quel poeta la utilizzò solo come pretesto per cantare i
suoi poemi. Occorre dire invece che, per quanto i catechismi e
la predicazione popolare abbiano molto attinto a quelle immagini per
tradurre un atto d’amore – cioè di purificazione – in un supplizio di
quel tipo, si può affermare con tranquillità che la Geenna del Vangelo
non è l’Inferno dantesco, benché l’immagine popolare sembri una verità
suggellata.
A tal proposito, vorrei ancora aggiungere che in una
grande Università Teologica Ortodossa, che prepara particolarmente i
futuri presbiteri o Vescovi, terminato il primo anno di propedeutica il
corpo insegnanti tenne un colloquio con ogni candidato, per
introdurlo L’anno seguente al corso teologico normale. A un candidato
non più giovanissimo fu domandato che cosa pensasse dell’Inferno, in
quanto argomento trattato durante l’anno. Egli rispose secondo la
visione più classica: per lui l’esistenza di quel luogo, con il
fuoco eterno
preparato per il diavolo e i suoi angeli, era una verità acquisita.
Un docente provò a riprendere il percorso di apprendimento, ma
il candidato ribadì la sua posizione. Il responso finale fu
all’incirca: “Siamo spiacenti, ma se la tua mente è così rigida, non ci
sentiamo di ammetterti agli studi teologici e quindi al cammino
presbiteriale”».
«So che Karl Barth, uno dei due più grandi
teologi del XX secolo, ha avuto il coraggio di parlare con
sistematicità del problema dell’Inferno staccandolo dall’immagine
popolare, che non corrisponde né a una visione biblica, né
teologica e tantomeno cristiana».
«Se non sono coerenti col cuore di Dio, le Verità proposte
dalla tradizione della Chiesa devono essere riviste. I dogmi stessi
debbono evolversi nelle loro presentazioni e spiegazioni. Per quanto
riguarda l’Inferno, in particolare, si è preferito rimuoverlo
dalla mente che discuterlo e rifletterci sopra. Non è facile spiegare
il motivo per cui sia stata tanto distorta l’immagine di un atto
d’amore che perdona e purifica. Ci sarebbe da chiedersi come sia stato
possibile per duemila anni accettare un Dio così poco “cristiano”,
così vendicativo, così non-Dio, se davvero i cristiani, compresi i
santi, ci avessero creduto. Ma tale dogma è stato rimosso dalla
mente umana per una Grazia speciale del buon Dio. È rimasta
quindi una verità che, per quanto professata da tanti, non è
entrata nel cuore di nessuno.
Gesù Cristo, che è amore, non
lo ha permesso, così non ha nemmeno dovuto amareggiarsi per
essere stato travisato. In diversi casi Gesù stesso aveva
accolto e usato lo stesso linguaggio – il patrimonio teologico
del suo tempo e le indicazioni etiche – come accettava
l’impianto teologico ebraico continuando a frequentare la Sinagoga
e il Tempio, offrendo sacrifici a Dio nel Tempio e restando fedele a
tutta una serie di leggi che Egli stesso aveva già
superato nella sua persona. Tuttavia le conservava, per avere
l’autorità di predicare il Comandamento Nuovo e la Vita eterna
alla comunità ebraica, che poteva accettare di sentire un Vangelo così
nuovo solo nel contesto del suo impianto teologico».
«Allora, Padre, si potrà cancellare questa parola?».
«No, Teofilo, bisogna liberarla dalla zavorra di cui si è
caricata attraverso i secoli e riportarla all’atto d’amore, cioè di
perdono, che ci purifica per poter entrare rinnovati nei Cieli
nuovi e nella Terra nuova a sperimentare l’Eterno Abbraccio di
Dio. E, per rispondere alle tue domande, Teofilo, lasciami dire
ancora che tutte le volte in cui, nel Vangelo, si parla di Inferno,
cioè del luogo dei morti o della Geenna dove tutto muore, si vuol
sottolineare a tinte forti quanto sia grave il peccato e quanto
devastante la pigrizia di fare il bene. E, in ultimo, sappi che è
lo stesso Gesù, il Verbo incarnato, a discendere nella Geenna,
nell’Inferno, nel luogo dei morti. Per entrarvi, Egli ha dovuto
morire, bruciare là dove c’era “pianto e stridor di
denti” (ossia sulla croce) e proprio nel luogo dei morti ha lottato e
vinto la morte stessa, che oggi non esiste più. Con la Resurrezione,
Gesù ci invita a uscire dall’Inferno e ad accompagnarlo nella Vita
eterna. Va a preparare un posto anche per noi, poi tornerà a
prenderci e a portarci con Lui. Questa è la nostra fede, che
professiamo nel Credo degli Apostoli: “Credo in Gesù Cristo, che discese
all’Inferno e di là risuscitò”. Così, San Paolo può gridare:
“Dov’è o morte la tua vittoria?”, facendo eco a Osea (Osea 13,14)».
«Quindi l’Inferno è la metafora di una possibile distruzione di noi, esseri umani?».
«Dopo aver rimarcato con forza, caro Teofilo, la Misericordia
di Dio, posso sorprenderti affermando che il linguaggio dell’Inferno
nei catechismi cattolici sottolinea un aspetto da non
sottovalutare. In primo luogo, nella misura in cui penso che la
Geenna e il fuoco significano distruzione, posso anche immaginare
che – a causa della mia pigrizia di fare il bene e del rifiuto a
collaborare nel
costruire il Regno di Dio – se Dio stesso volesse distruggermi
totalmente (“Temete piuttosto chi può distruggere anima e corpo
buttandoli nella Geenna e farli sparire per sempre”), non avrei
nulla da reclamare. In fondo, Dio mi toglierebbe semplicemente
ciò che mi aveva dato. Già, non avrei nulla da recriminare
contro Dio, se l’Inferno fosse una cosa simile.
Se però dovessi
sentire tale verdetto in un processo del Tribunale
divino, penserei che la distruzione di anima e corpo sia
talmente grave e insopportabile, che le immagini di fuoco, pianto e
stridor di denti sono addirittura insufficienti per esprimere
l’annullamento del mio essere, al quale è stata data la
possibilità di venir salvato per l’eternità. E, ancora, l’Inferno
sarebbe peggiore di quello descritto nel catechismo se,
presentandomi a Lui e vedendo tutta la mia vita illuminata da
un’intelligenza non più semplicemente umana, mi rendessi conto di
essere passato tante volte accanto a Gesù Cristo e non averlo
riconosciuto.
Avrei potuto fermarmi a parlare con Lui, porgergli non solo
da mangiare, da bere, da vestire, ma anche offrire la mia
amicizia e accogliere la sua, invitandolo o facendomi invitare per
far festa con Lui. Invece l’ho trattato da mendicante, gli ho
dato delle monete. Immaginate che ho dato monete a chi ha fatto
il mondo, a chi ha tessuto nel ventre di mia madre tutti gli organi
del mio corpo, il cuore che non ha mai smesso un istante di ritmare
la mia vita, i polmoni mai stanchi di darmi il respiro e tutti i
valori del corpo che si leggono sulle pagine delle analisi mediche. E vi
rendete conto che ho preteso di fare l’elemosina a chi ha costruito i
primi computer già tre miliardi di anni fa, quando dispose i primi
esseri viventi sul pianeta!
Stavo correndo verso la stazione e c’era quella fila di mendicanti. Ho
sfilato qualche moneta ai primi e sono scappato via per
non perdere il treno. Sì, mi è passato per la mente il
desiderio di fare qualcos’altro, ma il treno stava arrivando e
dovevo assolutamente correre via. Mi aspettavano a quell’Assemblea
nazionale, dovevo fare un intervento che ritenevo importante.
C’erano i giornalisti, la televisione e invitati da ogni parte.
Non potevo mancare… Ma chi l’ha detto? Dove sta scritto che non potevo
sedermi con Gesù Cristo stesso sui gradini della stazione e lasciare
che il treno passasse con i suoi passeggeri? Chi dice che non era meglio
strappare quel biglietto del treno già comprato e fermarmi là?
Avrei potuto proporre ai mendicanti di mettere insieme ciò che
avevamo e far festa. E, non sapendo trasformare l’acqua in vino,
avrei potuto andare a comprare abbastanza vino e berlo insieme. Sì
avremmo potuto ubriacarci per la gioia di stare insieme. Se poi
avessi saputo che facevo festa con lo stesso Gesù Cristo, altro che
ubriacarci come a Cana di Galilea!
Quale vergogna mi invaderà. Come mi sentirò idiota, sì, per
lo meno idiota e indecente. Allora sarò io a chiedere la
Geenna per ripararmi in essa e farmi bruciare questa indecenza.
Chiederò al buon Dio di bruciare la mia memoria, il ricordo di un
crimine tanto grande. Ho avuto l’occasione di sedermi e accogliere
l’amicizia col Signore Gesù e invece sono passato oltre. E griderò:
“Bruciami, Signore, sì brucia quel ricordo perché non posso sopportare
un’umiliazione così grande. Manda i tuoi angeli a immergermi nel
fuoco perché possa essere purificato e avere il coraggio di essere
riabbracciato dalla tua Misericordia”.
Le immagini bibliche
sono del tutto insufficienti a esprimere quella richiesta di
purificazione. Teofilo, vedi che non dobbiamo cancellare le
immagini dell’Inferno dal Catechismo, semmai dovremmo caricarle
del colore della vergogna, dell’umiliazione più insopportabile.
Quante occasioni perse!».
Salvezza
Il giorno seguente il Padre sorprese Teofilo che, in
ginocchio, ripeteva sottovoce: «La Salvezza, la Salvezza, la
Salvezza!».
«Teofilo, il progetto della Salvezza sta entrando nel tuo cuore!?».
«Sì, Padre, fin qui è chiaro. Dio ha mandato Santi e Profeti
per educarci all’amore, ma poi è arrivato Gesù Cristo: un
Profeta più bravo degli altri? Più Santo? Con una coerenza
assoluta? Senza la debolezza dei suoi predecessori, Lui ci ha
spiegato con più forza come amare e quindi essere salvi? Un Profeta
che ci dicesse le stesse cose che ci ha detto Gesù non poteva
bastare per insegnarci a lasciarci salvare da Dio decidendoci
veramente ad amare?».
«Attento, Teofilo, ti stai allontanando».
«Padre, poteva mandare un Profeta che ci dicesse le stesse cose e che, per inciderle col fuoco in noi, si lasciasse anche
crocifiggere e perdonasse i crocifissori?».
«Teofilo, facciamo
qualche passo indietro. Trovare un Profeta come dici tu non era
stata forse un’impresa tentata tante volte e fallita? Tu stesso
ti sei appena scandalizzato che Santi, Patriarchi e Profeti
fossero carichi di limiti e peccati. Non avevamo bisogno di uno
che ci facesse un’omelia più bella delle altre. Dio, infatti,
ne aveva già inviati dei bravissimi, ma avevamo bisogno di un Santo,
un Santo senza peccato che fosse così santo da garantirci con
autorità tutta la Verità che avevamo bisogno di conoscere:
imparare come amare Dio e i nostri fratelli. Dio Padre aveva inviato
tanti suoi figli a lavorare per quest’opera di salvezza, ma erano solo
uomini, uomini buoni, migliori degli altri. Nessuno, però, poteva avere
quella forza e quell’autorità di parola.
Per questo, un giorno
il Padre decise che il suo Primo Figlio, da tutta l’eternità presso
di Lui, per noi uomini e per la nostra salvezza discendesse dal Cielo e
venisse ad abitare in mezzo a noi: come uno di noi, ma con la
grande dignità di Primo Figlio, che lo rendeva anche Unico.
Ebbene, ciò non impedì a Gesù Cristo di camminare al nostro fianco da
vero Profeta, vero Patriarca, vero Sacerdote, vero Re e vero Santo.
Questo Figlio è diventato un bambino e noi Lo abbiamo visto
crescere in mezzo a noi e proprio come noi, al punto che era
terribilmente difficile capire e credere che in Lui non ci fosse solo
un uomo santo. Prima della Resurrezione, infatti, non ci
sono testimonianze chiare di qualcuno che avesse veramente capito chi
era Gesù Cristo: Figlio dell’uomo e Figlio di Dio».
Recitarono la Salve Regina e si congedarono. Teofilo non
aveva ancora imparato a far domande senza lasciarci dentro
dell’amaro.
Forse c’erano in lui ferite non ancora rimarginate, ma anche
un desiderio senza fine di avvicinarsi al Signore e di vivere
solo ed esclusivamente nella Sua Volontà e nel Suo Amore. E per questo
non si fermava mai, a costo di apparire eretico. Il fatto è che non
voleva accontentarsi di risposte già un poco arrugginite dal tempo.
«Padre, qual è dunque la grande differenza tra Lui e noi? Anche noi
siamo da tutta l’Eternità nel cuore del Padre! Mentre i
nostri pensieri sono una elaborazione del cervello che può
rimanere memorizzata a lungo o dissiparsi nel nulla, essendo da
sempre nel Pensiero
del Padre e Creatore, noi siamo una realtà vera. Non eravamo
ancora stati generati in questa carne, ma già esistevamo come oggetto d’amore di Dio».
«Teofilo, la stessa creazione che noi ammiriamo e che canta
la
Gloria di Dio è da sempre oggetto d’amore di Dio, mentre non ci è stato
rivelato come sia entrata solo a un certo punto nella
dimensione spazio-temporale o se sia stata creata da sempre.»
«Perciò anche noi, come Gesù, esistiamo da sempre nel cuore del Padre?»
«C’è, però una grande differenza, figlio. Immagina la creazione
e l’umanità come un enorme albero: noi siamo i frutti, i più
preziosi, quelli creati nel sesto giorno e che Dio dichiarò
buoni, ma siamo immaturi. Non vorrai dire, Teofilo, che un
frutto immaturo sia
cattivo, certamente no. Ma, se lo addenti, subito lo sputi.
Eppure è cosa buona, come lo siamo tutti noi.
Gesù, il primo
frutto, è anche l’Unico che ha raggiunto la piena maturità e in
Lui abbiamo potuto contemplare tutta la bellezza e assaporare
tutta la bontà. Lui non è precipitato dal cielo come
un paracadutista ma, come noi, è stato generato nel ventre di
questa creazione, crescendo sul nostro stesso albero. Si è nutrito della
stessa linfa tra gli stessi rami e le stesse foglie. Spuntato su un
ramo che era stato prescelto, quel “virgulto di Jesse” è stato
accompagnato in modo misterioso e speciale dalle mani del Padre e da
quelle di una madre, Maria, in tutto sorella nostra, ma con una santità
unica.
Nella sua profezia, Elisabetta, avendo già avuto la visione che quel
Frutto sarebbe stato il Frutto atteso da tutta la storia, gridò a
Maria: “Benedetto il frutto del tuo ventre!”, saluto che
ripetiamo in ogni Ave Maria. E Dio Padre ha aperto i Cieli e ha
detto (in parafrasi): “Questo è il mio Figlio prediletto, il
frutto che ha raggiunto la maturità piena, che ho desiderato per
ogni figlio, per ogni frutto, ma che oggi in Gesù diventa realtà.
Ascoltatelo!”.
Per questo, Dio Padre ha esaltato questo frutto maturo,
questo Figlio così unico e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni
altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei Cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che
Gesù Cristo è il Signore a Gloria di Dio Padre (Fil. 2)».
«Quindi, nella Sua piena maturità, Gesù ci salva
amando, insegnandoci ad amare con autorità e chiedendoci di
“amare come Lui ci ha amati”. Così ci ha salvati, indicando la
strada della Salvezza che è Lui stesso?».
«E per realizzare
questo, Teofilo, Lui ci carica ogni giorno di grazie:
l’Eucarestia e tutti i Sacramenti, i Doni dello Spirito Santo di Cristo,
cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà e Timor
di Dio. Si tratta della linfa che arriva ad ognuno di noi, se
vuoi ancora usare l’immagine dell’albero».
«Padre, coloro che
non hanno Gesù Cristo, per esempio che appartengono ad altre
religioni, da chi ricevono questa linfa per diventare frutti
sempre più maturi?».
«Teofilo, Gesù è di tutti, semplicemente
molti non Lo conoscono.
La linfa è distribuita da Dio ad ogni uomo e donna del
mondo, semmai con segni sacramentali diversi. Un giorno mi sono
trovato presso una famiglia musulmana, dove tre gemellini erano
appena morti perché durante il parto avevano ingerito una quantità
eccessiva di liquido amniotico. Una signora cristiana, arrivata prima di
me, mi disse che, preso in braccio uno dei bambini, aveva
chiesto un po’ d’acqua per pulirlo, ma in realtà l’aveva
battezzato. Subito le domandai: “E gli altri due?”. Mi rispose
che erano con la madre, ormai morti. Allora soggiunsi: “Quando
queste tre creature sono arrivate tra le Sue mani, che cosa può
aver fatto il buon Dio, Padre appassionato di ogni creatura? Avrà
preso con sé quello battezzato e buttato via gli altri due in
qualche stanza buia dove non si vede la Sua Luce? Anche se
non sei teologo, capisci che questo non ha senso. Eppure i
teologi hanno pensato cose simili per secoli, e molti le pensano
ancora. Anche da questo si capisce come tante
risposte arrugginite attendono di essere rivisitate».
«Padre, forse la signora aveva letto che solo chi è battezzato
sarà salvo e certamente pensava che esiste solo il Battesimo da
lei conosciuto, per cui era in buona fede».
«Quando leggiamo un
testo che parla di Dio, dobbiamo osservare se quelle parole sono
coerenti con un Dio infinitamente buono, misericordioso e giusto.
Altrimenti, come ti ho già detto, significa che, a causa della
cultura in cui viveva, dell’ignoranza o comunque dell’immaturità dello
stesso Profeta o Evangelista, lo scrittore sacro non ha potuto
accogliere tutta l’Ispirazione divina».
«Padre, lasciatemi
aggiungere una parola proprio sulla lettura o esegesi dei testi.
Ho fatto due riflessioni: una riguardo a Gesù che, dopo
la morte di Lazzaro, incontra Marta e la invita a credere
nella Resurrezione del fratello. Lei, allora, professa: “Credo che
risusciterà nell’ultimo giorno”. Sembra che, per alcuni, il
grande miracolo di Gesù finisca qui: Egli ravviva la fede di
Marta e lei crede nuovamente nella Resurrezione. Così la seconda parte del racconto pare meno importante.
C’è un secondo fatto, Padre: la moltiplicazione dei pani.
Gesù invita i suoi a provvedere del cibo. Sembra che si sia domandato
se qualcuno aveva qualcosa e probabilmente tutti potevano averlo,
per quanto tenuto ben nascosto: non erano, infatti, così
imprevidenti da non portarsi dietro nulla, dovendo stare fuori
per molto tempo. Ma mostrare ciò che avevano significava
condividerlo con gli altri. Un bambino, però, potrebbe aver
detto: “La mia parte la metto”, e qualcuno si sarà aggiunto:
“Anch’io”. E altri:
“Anch’io”, al punto che ne avanzarono dodici ceste. Si potrebbe
concludere che il più grande miracolo sia stato quello di aprire il
cuore alla condivisione, più che moltiplicare i pani con autorità».
«Teofilo, le tue sono riflessioni originali e possono anche
aiutare la spiritualità di chi legge il testo sacro, ma non dimenticare
che, fra cinquantamila anni, chi vorrà confrontarsi con quelli o
altri testi biblici li incontrerà come sono stati scritti. Se sono
verosimili, come è verosimile che Gesù abbia risuscitato Lazzaro o
moltiplicato i pani in quel modo, quei testi rimarranno sempre il
punto di riferimento per chiunque li leggerà, mentre le tue
riflessioni o quelle di migliaia di altri scrittori di spiritualità
resteranno spunti, stimoli preziosi per la conversione, senza però
sostituirsi all’autorità della Bibbia.
Se, invece, il testo non è verosimile, se ne modificherà la
lettura secondo le nuove leggi della scienza, secondo quanto l’autore
sacro voleva esprimere. Nel caso del “Fermati, sole” di Giosuè,
ad esempio, con le conoscenze astronomiche di oggi
possiamo affermare che il miracolo sarebbe consistito piuttosto nel
fermare la terra e non il sole, che già relativamente fermo
era, almeno nei confronti di essa. Mio caro Teofilo, se anche
tu vuoi leggere la Bibbia quale dono privilegiato per farti maturare e
quindi entrare nel progetto della Salvezza, hai bisogno di tanta,
tanta umiltà più che di scienza e conoscenze archeologiche. Devi
leggere il Testo Sacro in ginocchio perché diventi preghiera. Ma, ora,
ritiriamoci all’eremo».
Le
parole che Teofilo aveva ascoltato gli suscitarono nuove curiosità e
domande, così il giorno seguente, appena incontrò lo starez,
non perse tempo:
«Padre – gli domandò – in cosa differisce la
Parola di Dio da un buon testo di spiritualità che possiamo trovare
in qualunque libreria, scritto da uno di noi, nel nostro tempo e quindi
anche più accessibile per il linguaggio e per essere imbevuto di cultura
contemporanea?».
«Per “Parola di Dio” non intendo solo una
pillola di saggezza o un testo che mi faccia recuperare la storicità
della fede, ma una parola che, meditandola, mi converta o che coltivi
la mia amicizia con Dio. È tutto questo, ma è soprattutto una parola
attraverso la quale Dio ha accettato di parlare con me, oltreché
convertirmi e coltivare la mia fede, qualunque essa sia.
Un giorno un indù mi disse: “Vedi, il nostro libro sacro Ghita
non è come gli altri, perché ogni volta che leggi ripetutamente lo
stesso versetto, ti suggerisce riflessioni sempre diverse. Ti dice
ciò di cui hai bisogno proprio in quel momento”. Anche un musulmano
notò la stessa cosa riguardo al
Corano, al che replicai: “Pure noi cristiani diciamo lo stesso della
Bibbia. Evitando di parlare di testi più veri di altri, più
ispirati da Dio o meno, più dettati da Dio stesso –
com’è considerato il
Corano dai musulmani – o cresciuti nel cuore
della comunità – come lo è per i cristiani – per capire quanto Dio ci
ama e per portarci ad amare Lui, c’è in questi testi un fatto comune: è
Dio stesso che accetta di parlare con noi tramite essi”. Ma
tali testi diventano sacri solo se li leggiamo in ubbidienza a
Lui. E ti spiego perché è una questione di ubbidienza: tra i
‘religiosi’ che vivono in congregazioni, monasteri, conventi, c’è
una forma di promessa o ‘voto di ubbidienza’ a Dio tramite una
persona, un ‘superiore’, un’‘autorità religiosa’.
Il religioso/a può vivere un conflitto di fronte a certe
richieste o comandi del superiore stesso, perché troppo gravose o
perché considerate addirittura fuori del buon senso. Se dunque il
religioso, in coscienza, pensa di far cosa buona a rifiutare il
comando, è possibile che Dio stesso sia disposto a fare per lui un
altro progetto, anche molto bello, però se il religioso ubbidisce
– eccetto che il comando sia contro la morale – sa
con certezza che cammina non sulla via più ragionevole, ma
sulla via in cui incontrerà la volontà di Dio. E non per merito del suo
‘superiore’, ma perché Dio stesso si è impegnato nell’accettare quella
forma di ubbidienza, dichiarandosi disponibile a servirsi della
volontà umana, di quell’autorità religiosa, per far crescere nella Fede,
Speranza e Carità suo figlio/a. Così è per me quando mi metto di fronte
a un testo sacro.
Se poi, nel profondo della mia coscienza,
sento il dovere di cambiare religione e, di conseguenza, anche
i testi sacri a cui mi riferivo precedentemente, posso farlo.
E Dio potrà costituire un nuovo progetto con me, perché è
proprio nella coscienza che Dio dice l’ultima e autorevole
parola. Se però continuo a seguire la religione a cui ho
giurato fedeltà già da adulto, certamente
Dio s’impegnerà su quella strada a farmi incontrare la Verità e
l’Amore.
Con ciò non dichiaro comunque che i testi sacri
hanno lo stesso valore. No. C’è un valore oggettivo che chiunque
può riconoscere, ma per testo sacro s’intende quello che si
legge nella propria comunità religiosa, alla luce della comune fede e
tradizione religiosa (cristiana, ebraica, musulmana, buddista, etc.).
Un musulmano non dovrà considerare come testo sacro la
Ghita o la Bibbia, ma il Corano, il testo
che legge nella sua comunità religiosa, illuminato dalla sua fede
e dalla tradizione islamica e, se c’è sincerità e spirito di
ubbidienza in questa lettura, certo Dio lo illuminerà
attraverso quelle parole e lo farà crescere nella Fede, Speranza e
Carità, poiché
Lui stesso si è impegnato di accompagnarlo in quella lettura.
In sostanza, Dio si è preoccupato di darci tutto il necessario per
la salvezza. E cos’è il ‘tutto’ di cui abbiamo bisogno? La sua
amicizia, che dà a tutti gli uomini e le donne di ogni
religione e popolo del mondo. Quindi ci si rivolge a nostro Signore
solo con nomi diversi, con preghiere diverse, in lingue diverse e
con espressioni religiose, simboli e immagini diverse. Non
dimentichiamo che è lo stesso Dio a ricevere tutte le preghiere
dell’umanità. È Lui che raccoglie tutte le speranze e le fedi diverse
dei suoi figli e figlie. E la Carità, l’Amore di tutta l’umanità, è
raccolto dal cuore dello stesso unico Dio. Se, in un tempio indiano,
dieci persone indù pregano di fronte a una bella statua di Ganesh col
corpo umano e la testa di elefante, e se Dio vuol parlare al loro cuore
per alimentarne la spiritualità, come potrà farlo? Non certamente
attraverso l’immagine del Crocifisso, che essi non conoscono e
non capiscono, né attraverso un’immagine della Madonna di Lourdes, o
di Fatima o in un brano del Vangelo: se Dio vuol parlare al cuore di
quei dieci indù ha a disposizione solo la loro immagine, o un testo
della
Ghita o di altri sacri testi indù».
«Padre, le statue delle divinità di altre religioni sono idoli?»
«No, figlio: gli idoli sono i furti e gli adulteri, un
potere opprimente, il denaro usato male, le guerre e ogni tipo di
violenza, mentre le statue delle divinità a cui ti riferisci non sono
idoli, bensì piccole, piccole parole di Dio, perché attraverso esse
Dio può parlare agli uomini che le venerano con cuore sincero. Se poi,
Teofilo, tu hai avuto la rivelazione che, per noi uomini e per la
nostra salvezza, la Parola di Dio si è fatta uomo in Gesù Cristo e
noi ne abbiamo visto tutta la Gloria, tu, Teofilo, non hai nessun
motivo di disprezzare chi rimane ancora distante da questa
rivelazione.»
Qualche giorno dopo Teofilo prese l’occasione per
riproporre gli interrogativi che nei silenzi della montagna venivano di
tanto in tanto a bussare alla sua mente, trovandola sempre impreparata.
«Padre, visto che abbiamo parlato della Bibbia
come linfa privilegiata per farci maturare ed essere salvi,
anche se mi sembra blasfemo non posso tralasciare di esprimere la mia
fatica nel leggere certi Salmi. Leggo, ad esempio: “Ecco, i tuoi
nemici periranno e saranno dispersi tutti i malfattori” (92),
mentre so che il Signore ha dato la vita per i criminali, o ancora:
“I miei occhi
disprezzeranno i miei nemici” (92), mentre Gesù mi chiede di
amarli. Oppure: “Questo popolo mi ha disgustato per quarant’anni,
così nel mio furore ho giurato che non entreranno nella mia casa”
(94), mentre la casa di Dio è preparata proprio per loro. E mi stupisco
che il salmista inviti i fedeli ad alzarsi “con le lodi di Dio sulla
bocca e la spada a due tagli nelle mani per compiere la vendetta tra i
popoli” (149).
Come posso riconoscermi in questo Dio che continuamente, nelle guerre,
deve “disperdere i nemici con le folgori, lanciare frecce
e sconvolgerli” (144) o nel salmista che riferisce a Dio ogni
sorta di maledizione augurando che “restino orfani i figli e vedove le
mogli e che i figli vadano raminghi, espulsi dalle loro case in
rovina e nessuno gli usi misericordia e nessuno abbia pietà dei suoi
orfani”?
(109). O in un Dio così guerriero, che “spezza le saette dell’arco,
lo scudo, la spada, la guerra ed è proclamato Splendido sui monti
della preda” (76), nel Dio roccia del salmista, che gli
“addestra le mani alla guerra e specializza le sue dita per la
battaglia”? (144). Padre,
tra le maledizioni ai nemici, leggo ancora: “Beato
chi sfracellerà i loro bambini sulla roccia” o professioni di morte,
come quella
del salmo 88: “Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre dei
morti a darti lode? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro e la tua fedeltà tra i morti?”. Mi capite quando parlo di fatica di fronte a queste preghiere?».
«Teofilo, i Salmi sono la raccolta di canti che più di ogni altra
è venuta a toccare il cuore dell’uomo e lo fa vibrare ancora oggi
come le corde di una cetra, quando in ginocchio vuole parlare con Dio.»
«Credo, Padre, che in alcuni Salmi ci sia lo stesso cuore di
Dio, non solo dell’uomo, mentre ce ne sono altri che non posso
pregare».
«Per questo si dividono in due categorie: i Salmi che
il singolo o la comunità possono pregare nel raccoglimento di un eremo o
in coro sempre a nome di tutta la Chiesa e specialmente come parole
pregate da Gesù. E Salmi, nati ovviamente nella cultura del
Vecchio Testamento a cui ti riferisci, che sono canti di
meditazione: quella meditazione fatta di studio, riflessione,
ascolto e analisi della storia di Dio tra gli uomini. Un Dio
che non li abbandona nelle loro violenze, vendette e tradimenti,
ma che continua sempre a tenerli stretti per mano. La Chiesa –
che comunque è madre attenta – ha già fatto una scelta parziale dei
testi di Salmi da usare nella liturgia domenicale e nella
liturgia delle ore con il popolo di Dio, che non sempre ha le
capacità e il tempo di fermarsi e studiarli.
Non così deve essere per noi, che dobbiamo tenerli fra le mani
e portarli nel cuore con la stessa misericordia con cui Dio li
ha ascoltati dal suo popolo. Essi ci raccontano tutta la pazienza
di Dio nel non essere inteso nella sua bontà, misericordia e
perdono e, da Dio della Pace, trasformato in un Dio degli eserciti.
Questo Signore, di fronte a tanta immaturità dei suoi figli, non li ha
mai abbandonati. Ma anche il popolo, da parte sua, restava incollato al
suo Dio. Nella disperazione gridava a Lui. Nella rabbia, nella guerra
gridava a Lui. Nella vendetta, nella pigrizia di fare il bene e in mezzo
ai sentimenti più contradditori, violenti e malvagi, sempre si
rivolgeva a Lui, pretendendo persino che il Signore fosse dalla
sua parte nella violenza. E Dio, innamorato del suo popolo,
l’accompagnava, accogliendo quei Salmi come le grida di figli
che non avevano nessun altro a cui rivolgersi se non il loro Dio, il
‘Dio d’Israele’.
Con
pazienza infinita, Jahvé finiva per ascoltare le richieste di
giustizia, di difesa, ma anche di vendetta contro i malvagi e
di maledizione contro chi li perseguitava, per allenarli a
distinguere il bene dal male, i buoni dai cattivi. Intanto
sapeva che avrebbe mandato suo Figlio a spiegare che la Salvezza non
si fa con un forte esercito, carri e cavalli, col potere di re o
imperatori, ma col perdono su una croce, abbracciando i crocifissori.
«Beneditemi, Padre» lo implorò allora Teofilo, prima di
ritirarsi sulla montagna, sulla cui cima c’era una grande croce. Per tre
giorni rimase davanti a quella croce che abbracciava il cielo,
riposando di notte ai suoi piedi. La terza notte, però, rompendo
la regola del silenzio dopo la mezzanotte, Teofilo tornò di corsa e
bussò come un disperato alla porta del Padre:
«Voglio parlarvi, è urgente».
«Offri al Signore questo tuo desiderio, Teofilo, riposa un poco e domani parleremo».
Teofilo accettò, ma non poté dormire, perché aveva il cuore colmo. Così attese il mattino.
«Dimmi, Teofilo».
«Padre, mentre l’altro giorno si aprivano delle luci in me, al
tempo stesso sentivo ancora una grande confusione. In realtà mi
mancano degli elementi fondamentali riguardo la Salvezza. Non
abbiamo parlato di Vita Eterna. Non la considerate di grande
importanza?».
«Certo. Anzi, alla fine del nostro cammino la
Salvezza sarà appunto la Vita eterna che noi speriamo con tutte le
nostre forze, ma questo sarà il lavoro di Dio e non nostro. Nel progetto
della Salvezza, il dono dell’Eternità non sarà frutto del nostro
sudore. Anche se passasse l’intera vita in preghiera, digiuno e
penitenza, nessuno di noi potrebbe acquistare un dono così grande».
«Ma possiamo sperarlo veramente?».
«Abbiamo la garanzia di Gesù che, dopo aver amato fino
alla morte e averci insegnato a vivere come Lui, il terzo
giorno è
resuscitato. È stato visto con gli occhi di questa nostra
umanità, toccato con le mani umiliate di Tommaso e, dopo la
Resurrezione, le sue parole cominciarono a bruciare nel cuore dei
discepoli di Emmaus e oggi nel mondo intero. Se siamo frutti dello
stesso albero – anche se così immaturi – perché non dovremmo sperare
la stessa sorte? L’ha detto prima di morire: “Vado a prepararvi un
posto”».
«Cos’è dunque la Salvezza?».
«La Salvezza non è un qualcosa da relegare nei Cieli, alla fine
dei tempi, ma un paziente lavoro di restauro da fare su questa
terra, in questa storia. Salvezza è quindi impegnare tutte le forze
della terra e del Cielo per realizzare il Progetto-uomo così come è
voluto da Dio stesso e che si chiama Gesù Cristo. La maturità umana è
vivere come Gesù ha vissuto, amare come Gesù ha amato, morire
come Gesù è morto e quindi ricevere il dono della Resurrezione
come Gesù ha ricevuto. Da parte nostra è amore – se amo, sono salvo – e
speranza, mentre da parte di Dio è Amore e dono finale di una vita con
Lui nei Cieli nuovi e Terra nuova».
«Avevo bisogno di questo conforto, Padre».
«Con l’aiuto dello Spirito Santo, proclamiamo il Credo, in cui
si afferma che Gesù, il Figlio di Dio, per noi uomini e per la
nostra salvezza discese dal Cielo. Certamente non fu il
salvatore che gli ebrei si aspettavano come Messia, cioè un altro
Re-Davide molto più potente, tanto da vincere il mondo intero e
instaurare un nuovo regno di pace. In questo, certo Gesù li deluse».
Progetto di Dio
Dopo un istante, Teofilo riprese:
«Noi crediamo che Dio è Amore e
il fine per cui ci ha creati è che possiamo amare anche noi. La Salvezza
di Gesù non è quindi questo insegnamento e la forza che ci dà per
renderci capaci di amare come ci ha amati Lui stesso?».
«Ed
essendo noi così incapaci di realizzare questo progetto, per la nostra
salvezza, nei millenni, Dio ha mandato santi e profeti
ad insegnarci questo desiderio, questo progetto, questa volontà
di Dio stesso, ma il lavoro è stato arduo e, com’era prevedibile con
creature così fragili, non è stato possibile realizzarlo fino in
fondo. Questi profeti erano riusciti a proporre di amare il
vicino, quelli della propria famiglia e del proprio clan. Ma come si
poteva andare oltre? Proporre di amare uno che non mi ama o mi odia o
mi perseguita, amare un nemico… Come si poteva pretenderlo? Amare un
nemico è disumano. Solo se riceviamo del ‘divino’ in noi possiamo
compiere un simile atto. Per tanti secoli, nemmeno Dio lo
propose, sapendo che i tempi non erano maturi. Per questo è
stato necessario un intervento in più: quello dell’Incarnazione».
«Padre, poiché dite che Dio ha mandato Santi e Profeti, vi voglio dire
che io sono debole e mi scandalizzo di tutto come un bambino. Ho
appena letto una pagina in cui Mosè in meno di venti
righe (Numeri 31, 1-18) dà quattro comandi diversi, ovviamente
tutti in nome di Dio. Dapprima manda dodicimila uomini armati
a sterminare i Madianiti, nemici e portatori di infedeltà. Poi,
infuriato perché i soldati hanno lasciato vivere le donne che secondo
lui erano responsabili di aver portato l’infedeltà in Israele, mandò a
sterminare le donne sposate, ma anche i bambini-ragazzi maschi, i più
innocenti, le donne sposate, ma anche i bambini-ragazzi maschi, i più
innocenti, furono uccisi. Da ultimo però permise che le ragazze ancora
vergini venissero risparmiate e che i soldati potessero tenerle
per loro. Questa, come tante altre pagine della Bibbia, mi rende
furioso contro questa ‘Parola di Dio’, contro questi comandi di Dio
contradditori».
«Teofilo, stiamo parlando della fatica di Dio a
salvare quel popolo che non era capace di lasciarsi salvare. Quando
parlava ai Patriarchi, Santi, Sacerdoti e Profeti venuti per salvarci,
Dio parlava in realtà a uomini con tutti i limiti umani. In Mosè
non c’è solo santità, ma anche orgoglio, vendetta, e pure il
potere, che a volte si fa spazio nelle sue viscere. E il miracolo
della misericordia di Dio è che Lui, il Signore, continui a prendere
per mano il suo popolo, che passa da un’infedeltà a una richiesta
di perdono, a un’altra infedeltà ancora».
«Riconosco tutta la debolezza umana anche nei Servi di Dio, ma nel
proclamare pagine che più sono disumane, più ci fanno
prostrare di fronte alla bontà misericordiosa di Dio, penso
tuttavia ai deboli che durante le celebrazioni, dopo una pagina
come quella di Mosè
che vi ho appena citato, dichiarano: “Parola di Dio”».
«Sono d’accordo con te, Teofilo: è un concetto che
dovrebbe essere spiegato. Nella liturgia preferirei sentir usare
un’espressione come: “Storia di Dio tra gli uomini”; “Rendiamo grazie a
Dio, perché eterna è la sua misericordia” o qualcosa di simile.
Per inciso, si potrebbe osservare che anche i musulmani sarebbero
più coerenti se al termine di ogni pagina del Corano
proclamassero: “Parola di Allah”, perché nella teologia islamica la
parola scritta nel loro Libro sacro sarebbe dettata da Dio (da Allah
stesso). Se per i musulmani la parola di Dio è diventata un libro,
ormai sigillato in tutte le sue parole, non così è per noi:
la Parola di Dio per noi cristiani è diventata un uomo, Gesù, il
Figlio di Dio.
Per noi Dio non si è “incartato” in un
libro, ma si è incarnato, diventando uomo come noi, eccetto che nella
pigrizia di fare il Bene.
Gesù ci ha parlato con linguaggio umano e gli evangelisti
hanno usato il nostro stesso linguaggio per tradurre le parole del
Salvatore che, alcune volte, per il fatto di essere filtrate dalla loro
cultura e dai loro limiti, ci hanno offerto dei testi passibili di
approfondimenti e di studi teologici, storici e scientifici. Ma abbiamo
fatto tardi, dobbiamo ritirarci».