IL DIALOGO DEI MONACI
Capitolo III
TEOFILO E IL MISTERO DELLA SOFFERENZA pag. 26-41
Dolore inutile?
«Padre, prima di venire all’eremo, sono stato svegliato un mattino dal
grido di una donna. La figlia era arrivata in ospedale per il parto. Ora
lei e il bambino sono morti. Il mistero della sofferenza, che mi ha
sollecitato centinaia di interrogativi, pressappoco con le
risposte che provocavano altre domande, torna ancora oggi in
quel grido. Com’è
possibile che, nonostante le vostre parole di saggezza, rimanga
confuso? Forse perché la sofferenza non si spiega con la
saggezza?».
«Vedi, c’è una sofferenza ‘pedagogica’, che invade la vita
sotto forma di punizione: “Viaggiavo con la moto a velocità
elevata e adesso, dopo l’incidente, sono in ospedale a pezzi; Una dose
di droga mi ha soddisfatto per diversi anni, ora sono in fin di
vita; ho sbagliato, adesso soffro per non sbagliare più; un giovane è
andato a rubare, la polizia ha preso suo cugino, l’ha massacrato e
adesso è in prigione”». «Capisco che la
parentela, il gruppo tribale o sociale siano un corpo, per cui
io posso soffrire a causa di un altro. Ma perché il dolore
innocente? Perché il dolore di quella madre per dare alla luce un bambino? Forse per farci apprezzare il valore della vita umana? Quella
donna soffre per il parto, poi muore con il bambino, senza
raccogliere nessun beneficio dalla sua sofferenza. E che dire del
bimbo di quattro anni, peribronchitico cronico, con gravi crisi
di soffocamento, che dice alla mamma: “Perché gli altri bambini stanno
bene e io mi sento sempre soffocare?”». «Se non
potessi guardare quel crocifisso da cristiano, come potrei trovare
risposte? Lui, l’Innocente, che agonizza e muore. Eppure,
ritornando al nostro quotidiano, se la sofferenza non venisse a mescolarsi
con la gioia, il piacere, il gusto di assaporare la vita,
respirare, nutrirsi, riposare, forse ci incolleremmo talmente alla
terra che non avremmo più la forza di guardare verso il cielo. Se i
nostri occhi fossero sempre appagati di vedere tutto ciò che
desiderano, dove potremmo trovare la forza di sforzarci a vedere
l’Invisibile? Se non fossimo colpiti dalla
sofferenza o dalla morte, in noi o in chi ci sta accanto, e per questo
ci convincessimo che tutto ci è dovuto e di tutto abbiamo diritto, come
potrebbe nascere in noi il senso della gratitudine
a Dio che ha inventato la vita, ai genitori che si sono resi
disponibili a farsi portatori di questo dono per me e per i fratelli
che, in modi diversi, contribuiscono ad alimentare la vita stessa?
Quel bimbo con gravi crisi d’asma a quanti altri bambini avrà
detto quale grandissimo dono è il respiro e a quanti genitori
avrà dimostrato come sia prezioso avere un figlio sano, per cui
non possono
dimenticare di dir grazie? E poiché solo con la morte ci
stacchiamo definitivamente dalla materia e possiamo finalmente
vedere il volto di Dio, non è forse la sofferenza – un pezzo di morte – a permetterci di entrare più in comunione con quel Volto santo?
Non è infatti con la sofferenza che gli occhi si scollano un poco
dal corpo per intravedere l’Invisibile? Non è sempre attraverso
il dolore che le orecchie si chiudono un poco ai rumori assordanti
della terra
per sentire più vicino, almeno in parte, quella Parola, la Parola di
Dio? E, ancora, con la sofferenza il cuore non sente forse
l’insoddisfazione di amori, sentimenti, affetti, passioni, che non
gli bastano più, tanto da dirigersi verso il vero Amante della sua vita? Non
è attraverso le ferite che l’uomo si affaccia all’orizzonte
trascendentale del proprio essere e intravede Dio stesso?». «Ma perché quella madre e suo figlio quel mattino sono morti? Sofferenza inutile, che nessuno ha raccolto?».
«Se ci pensi anche solo un momento, ti rendi conto che qualcuno l’ha
raccolta. Insieme a te quel giorno alcune decine di altre persone si
sono svegliate dicendo: “Ti ringrazio di avermi creato, conservato in
vita fino ad oggi…”. E poi, i nonni, il marito e padre, i fratelli e le
sorelle del neonato, e quanti hanno provato quel dolore. Ma, se anche
nessuno avesse sentito il pianto di quella donna, esso si sarebbe unito
ai chiodi di Cristo e là avrebbe trovato il suo senso. Se, di fronte
al dolore, non hai un crocifisso a cui guardare, potrà aiutarti il
versetto del Salmo 48: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come
gli animali che periscono”, ovvero “nella sofferenza l’essere
umano intende e diventa sempre più uomo e donna”. Perciò, se la
sofferenza mi renderà più maturo anche solo nell’ultimo istante della
mia vita, riconoscerò che è diverso morire ruggendo o gridando:
soltanto la persona umana, infatti, può gridare». «Che cosa deve sapere allora il catecumeno, cioè chi si prepara a diventare cristiano, circa la sofferenza?».
«Anche se resta un mistero, può sempre sforzarsi di riflettere un
poco e trovare ragioni che, se non sono risposte esaustive,
almeno possono aiutarlo a non scoraggiarsi nel dolore, sapendo
che il cammino della sofferenza è quello percorso da Gesù e da tutti
coloro che hanno voluto seguirLo. Lui è venuto ad annunciarci
di non temere nulla perché Dio Padre ci ama e ci ama sempre – nella
buona e nella cattiva sorte, Lui è lo sposo fedele – sia quando
siamo eroi, martiri, santi, sia quando siamo infedeli, traditori e
criminali. Gesù ci ha detto che l’amore unito a ogni
dolore e fatica umana è la cura per guarire le ferite del peccato. E
anche se gli uomini spesso non sanno amare, almeno possono
consegnare all’umanità le loro lacrime
come contributo per la Salvezza. Ed è bene ricordare che tutte
le lacrime, anche quelle dei disperati sono contributo per la
Salvezza. Sulla croce, facendo suo il grido del salmista
disperato, Lui, che si sente abbandonato da Dio, ci dice che anche
tutte quelle grida sono per la guarigione del mondo, per la
Salvezza. Nessuna lacrima viene sprecata da qualunque parte venga». «Capisco che attraverso la sofferenza possiamo scoprire o alimentare la Fede e, ancora, che attraverso di essa siamo naturalmente spinti alla Speranza
di una vita senza dolore ed eterna con il nostro Signore Dio. Vedere
Gesù sulla croce e sapere che la morte non esiste più e che questa
notizia ce l’ha portata Lui stesso, dovrebbe essere più forte di ogni
pianto, ma resto confuso. Mentre Vi sentivo parlare, Padre, mi sembrava
che la ragione si piegasse, ma la mia fragilità mi travolge nuovamente».
«Vedi, Teofilo, la nostra sofferenza guarisce il
cuore da ogni egoismo, ci fa sentire solidali con quella accanto a
noi e ci stimola ad aiutarci, ad amarci di più, per guarire insieme
nella Carità. Si è parlato molto di tutto lo
scandalo e l’indignazione suscitati nel cuore di tante persone
sensibili dai campi di concentramento nazisti del XX secolo,
indignazione contro gli uomini e contro Dio stesso. Si sono però
dimenticati i milioni di azioni d’amore e di solidarietà anche
eroiche, avvenute proprio in quei luoghi di morte, che non sarebbero
mai esplose in quei cuori umani. Cito a braccio il commento di un
rabbino al grido “Dopo Auschwitz non è più possibile parlare di
Dio”: secondo un testimone, una delle guardie del campo di
concentramento, di fronte a un gruppo che stava spogliandosi per
entrare subito dopo nella camera a gas, sentì nel suo intimo una voce
chiara che gli diceva: “Spogliati anche tu ed entra con loro”.
Probabilmente sentì la voce più di una volta, visto che ha potuto
confidare il suo sentimento a un collega. E, mentre i
condannati si spogliavano, l’ha fatto anche lui ed è entrato
nella camera con tutti gli altri. Il Rabbino concludeva che,
se l’amore esiste, esiste anche Dio e, se anche un solo figlio
della Germania è stato capace di spogliarsi ed entrare per solidarietà a
morire con degli Ebrei condannati, è segno che Dio esiste.
Forse conosciamo di più la testimonianza di Massimiliano Kolbe, che
offrì la sua vita per salvare quella di un prigioniero sposato
e padre di famiglia che, condannato a morte, aveva gridato: “Oh, mia moglie
e i miei figli!”. Massimiliano lo sostituì morendo al posto suo.
La guardia del campo di concentramento e Massimiliano avevano
capito che la solidarietà e, quindi l’amore, può pretendere qualunque sofferenza e anche la morte.
In una riflessione sulla sofferenza si racconta di un contadino che
chiede all’altro: “Mi vuoi bene?”. Questi risponde: “Certo che
ti voglio bene!”. Dopo di che, il primo continua: “Sai cosa mi
fa soffrire
di più nella vita?”. E quando l’altro ammette: “No, non lo so proprio”,
la sua risposta è: “Se non sai cosa mi fa soffrire, come puoi dire di
volermi bene?”. Don Oreste non era ancora rientrato
in casa dopo il funerale di una sua sorella, quando gli diedero la
notizia della morte dell’ultima sorella, travolta in un
incidente. Si fermò per un istante, poi, con calma,
disse: “Tutto è Grazia”. Certo, non sappiamo perché è avvenuto
così e perché Dio ha voluto amarci in quel modo, però se siamo
cristiani sappiamo che il buon Dio ci ama solo e sempre. Una giovane sinta piemontese
salutò il fidanzato dopo un breve incontro della sera. Si
sarebbero sposati l’indomani mattina ma, dopo un’ora, giunse la
notizia: lui non c’era più. Si era schiantato con la moto. La ragazza riuscì a dire: “Se Lui ha deciso così, Lui sa il perché”. Pianto sì, ma non disperazione. Un
amico mi confidò: “Ero sopra un pulmino, quando un camion si schiantò
contro di noi. Pensa quanto è stato buono Dio con me. Su dieci, sono
stato l’unico sopravvissuto”. Dopo un momento, gli ho domandato:
“Tu dici che Dio è stato buono, ma i parenti degli altri nove
cos’hanno detto? Per essi Dio è stato forse cattivo? Caro amico, non
dimenticare che Dio è sempre e solo buono. Intanto non toglie mai
la vita, ma ci cambia solo di casa. Lui è il Dio della vita, prima
che della morte ed è Dio della vita anche dopo. La morte c’è solo per
noi, che vediamo una porta chiudersi e la persona amata sparire”.
Dice San Filippo Neri: “Quando il Signore ti offre una croce,
prima la guarda bene, poi la misura e la pesa, affinché non
sia un millimetro più lunga, né un grammo più pesante di quanto tu
possa portare, poi guarda al tuo coraggio e infine te la consegna. A te solo più il dovere di ringraziare”».
Le ferite lasciate dal peccato «Padre, non mi è ancora chiaro perché Dio permette la sofferenza al giusto».
«Lo Spirito Santo, caro Teofilo, ci santifica con il dono
della Fede, della Speranza e della Carità e la via privilegiata per
entrare in noi è appunto attraverso le nostre ferite. Dio non ha
bisogno della nostra
sofferenza, come non ha bisogno di nessun sacrificio. Siamo noi che
abbiamo bisogno di sofferenza e sacrificio. La sofferenza è la medicina
che guarisce le cicatrici lasciate in noi dalla pigrizia di fare il
bene (ossia dal peccato), e non solo in noi come singoli, ma in noi
come corpo unico, unito a Gesù stesso. La nostra pigrizia di fare il
bene, la nostra umanità ancora in incubatrice sono state perdonate da Dio stesso, ma i segni dell’immaturità rimangono come ferite profonde e come tutte le ferite sono dolorose.
È bene ricordare, a questo punto, che quando l’uomo compie un crimine
lo fa sempre per ottenere una gioia, che può essere
un’esplosione di rabbia, una passione consumata, l’appropriarsi di
qualcosa che non gli appartiene per la soddisfazione del proprio io, la
mancanza di rispetto ai genitori o agli anziani per soddisfare
dei capricci personali, l’abbandono della preghiera per soddisfare
la pigrizia
o una falsità pronunciata per mantenere il proprio onore e
rispettabilità sociale, una maledizione a Dio per non sentirsi
in dovere di fare la sua volontà: l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Ebbene, bisogna ribadire che tutte queste azioni sono cercate
per una qualche gioia o meglio per un piacere, ma tutte,
veramente tutte queste azioni producono ferite dolorose lasciando un
grande amaro dentro il cuore.
Quindi, la ferita lasciata dal peccato è dolorosa. Poi la convivenza
sociale, il bene in noi che abbiamo pur ereditato e Dio stesso
si dovranno incaricare di curare le nostre ferite per guarirci.
Questa sofferenza
generalmente si traduce in senso di colpa, angoscia, delusione,
mentre la sofferenza che abbiamo provocato nell’altro si ritorce
contro di noi lasciando tanto amaro. Da ultimo, anche la punizione
che una seria società impartisce e Dio stesso che ci visita con le
sue prove contribuiscono alla guarigione del peccatore. Quando accettiamo la sofferenza come medicina per le ferite personali
e del mondo, ci rendiamo conto della preziosità di questo dono. E il
sacrificio, il digiuno, la rinuncia sono un bisogno per noi! Significa
spogliarci di qualcosa, di una preziosità per farla sacra, cioè renderla
non più utilizzabile da parte nostra offrendola a Dio. In
realtà, l’oggetto sacrificato a Dio era già di Dio stesso, ma noi
lo stavamo utilizzando come nostro, mentre ora lo riconsegniamo a Lui.
Appena l’essere umano è diventato tale con la coscienza di essere un
‘Io’ in relazione con tutto ciò che esiste fuori di lui e quindi
ha potuto rendersi conto che Qualcuno – l’Invisibile – guidava
la sua storia,
ha iniziato ad offrire sacrifici in segno di gratitudine, di
espiazione e, in particolare, come richiesta di protezione. Normalmente il sacrificio consisteva nel privarsi di un bene che veniva offerto alla divinità bruciandolo». «Certo, ma oggi che senso può avere la parola ‘sacrificio’? ».
«Sembra una parola ormai in disuso, ma in realtà non è scomparsa dal
nostro cammino di spiritualità. Nel sacrificio posso privarmi di
una piccola o grande cosa: a un bambino spiego che si può
sacrificare un frutto non mangiandolo più, ma offrendolo a un
povero. Allo stesso modo, posso sacrificare il denaro che non userò più
per me, ma che sarà consegnato in beneficenza. E tutto ciò è gradito a Dio non perché ci fa soffrire, ma perché fa bene
a noi, curando le ferite dei nostri attaccamenti, del nostro
egoismo, in una parola della nostra pigrizia nel fare il bene,
che chiamiamo ‘peccato’, nostro e del mondo. Ma peccato è
pure l’immaturità dell’umanità che sta crescendo in noi e che, per
crescere come il chicco di grano sotto terra, ha bisogno di spaccarsi,
marcire e, se avesse coscienza, anche soffrire». Il mattino seguente, Teofilo e lo starez iniziarono la giornata con questa preghiera: Signore, tu hai dato la vita per noi e vuoi che anche noi diamo la vita per gli altri. In che modo? Se vuoi su una croce, oppure ora per ora, tutti i giorni potrò dare una goccia di sudore, una lacrima o una goccia di sangue. Oggi inizierò la giornata che ancora una volta ti chiedo di regalarmi. Benedici il mio lavoro: è attraverso questo che oggi darò un pezzo della mia vita. Fa che non consumi questo dono per me, ma per gli altri.
I preferiti di Dio
Dopo qualche tempo, i due monaci ripresero la riflessione, che non
ritenevano sufficientemente approfondita. Era sempre Teofilo a
riportare i dubbi e le pene della sua ricerca.
«Padre, abbiamo parlato di sofferenza, sacrificio, immaturità e per me
continua ad essere difficile capire cosa voglia Nostro Signore.
Vediamo che Dio ha delle preferenze e proprio per coloro che chiamiamo ‘peccatori’, i più immaturi nel mondo».
«Dio Padre è misericordioso e perdona tutto a tutti ma, per ciò che
riguarda le conseguenze della nostra pigrizia nel fare il bene, sembra
chiaro che esse vengono curate dalla medicina del dolore.
Perciò ogni
male fisico del corpo, ogni sofferenza dell’anima, ogni prova,
ogni umiliazione, ogni scarnificazione dell’anima e del corpo, tutto è
medicina che, nel progetto di Dio, la stessa natura ci somministra per curare
le conseguenze della nostra immaturità. Siamo un corpo unico,
per cui ogni individuo soffre non solo per i propri sbagli, ma per
quelli del corpo intero».
«Padre, se posso interrompere chiederei una luce: se il peccato è
pazzia, immaturità, pigrizia di fare il bene e se chi lo compie non ha
nemmeno il senso di responsabilità che spesso gli attribuiamo, perché
dunque i suoi effetti devono essere così devastanti? Basta
pensare a tutte le forme di violenza e di guerra che lasciano le ferite
profonde di cui mi avete parlato e che si concludono nella morte».
«Ogni azione che chiamiamo ‘peccato’, mescolata ai piaceri più
desiderabili e resa possibile perché ricercata e voluta da una naturale
spinta per ottenere la felicità, lascia sempre l’uomo
nell’angoscia, nella
sofferenza. Così, per non vedere le conseguenze delle proprie azioni
che lo fanno solo soffrire, corre a coprirsi come Adamo ed
Eva. Se anche, nel compiere un’azione criminale, l’uomo non è moralmente
responsabile, pur tuttavia ne vede gli esiti sul suo stesso corpo e li
sente come angoscia nella profondità della sua anima. Il suo pianto diventerà pianto per cancellare questi segni e grido per
chiedere perdono delle follie che hanno colpito gli altri e
lui stesso. Perciò le penitenze che possiamo imporci, le
preghiere prolungate e gli atti di carità, tutto ciò lo
presentiamo a Dio in riparazione delle azioni criminali nostre o dei fratelli e sorelle con cui condividiamo la stessa umanità.
San Paolo, e non solo lui, parla delle tante membra e dell’unico
corpo. Perciò ciascuno si rende responsabile del tutto. E
dobbiamo sempre più aver coscienza di questo tutt’uno di cui noi,
come pure tutti
i cosiddetti criminali del mondo, facciamo parte. Se ciò provoca un
pianto inconsolabile, nessuno può privarci però della gioia
infinitamente più grande delle lacrime che esplode nell’intimo se pensiamo che Gesù non è solo carne e sangue del nostro corpo, ma il capo stesso, la testa di questa mistica unità.
Nel canone II della Messa preghiamo infatti per essere “riuniti in un
solo corpo” e in quelle parole noi celebriamo la nostra
transustanziazione, parola non comune per dire come cambia la
nostra sostanza, tanto che diventiamo anche noi corpo e sangue
di Cristo, come il pane e il vino.
Se una spina nel mio piede provoca il tetano, non c’è
problema solo per il piede; il cuore aumenta i battiti, tutto
il corpo è surriscaldato e ogni parte del corpo soffre di
tetano. Perciò non dovremmo
sorprenderci quando ci rendiamo conto che Dio ha preferenza per i
deboli, i sofferenti di ogni tipo. Egli riserva per essi una
predilezione, ma solo per il fatto di essere sofferenti: ciò è sufficiente per farli diventare medicina del mondo. Lo
stesso Gesù cammina sulla strada particolare dei “Poveri di
Jahvè” per diventare sempre più il prediletto del Padre e quando, nel
Giordano, la Voce dal Cielo dice: “Questo Gesù è il mio
Figlio Prediletto”, Gesù sa molto bene in che direzione deve continuare il cammino: guarire il corpo e l’anima dell’umanità di cui fa parte o meglio far maturare questa immatura umanità. Poi, comincia a parlarne
con gli amici, lasciandoli un poco sconcertati. La preferenza per quel
figlio prodigo (perché più sofferente e inquieto), la preferenza
per quella pecora perduta (perché così in pena), la preferenza per quella moneta (perché così perduta)». «Ci sarebbe quasi da domandarsi ingenuamente: se Dio preferisce tanto il peccatore, è persino meglio peccare di più?».
«Dio non ama il peccato – ama il frutto immaturo, non
l’immaturità –, ma ama il peccatore in quanto sta soffrendo per
le conseguenze del peccato. Per essere preferiti da Dio, quindi,
è sufficiente mettersi dalla parte di chi ha sbagliato o di
chi sta già soffrendo e portarne insieme le conseguenze: questo
significa contribuire a salvare il peccatore, cioè curare le
ferite causate dalle azioni criminali, dalla pigrizia di fare il
bene, di perdonare e quindi di amare».
Beatitudini e lotta contro la sofferenza
«Padre, se uno soffre ed è preferito da Dio, perché toglierlo
da quello stato? Sono certo che la domanda sarebbe pertinente
specialmente in certi ambienti asiatici, dove spesso non si interviene di
fronte alla persona che soffre perché si pensa che stia
appunto purificandosi. E, per completare la domanda, chiedo ancora:
perché dobbiamo lottare tutta la vita contro la sofferenza, se
Gesù chiama beato chi piange, chi è povero, chi è perseguitato?».
«Teofilo, se la sofferenza arriva fino a noi e ci raggiunge,
diventiamo simili al Figlio di Dio crocifisso, che significa
quindi diventare beati come Lui. Ma, per ripeterti che dobbiamo
lottare contro
la sofferenza degli altri, ti dico ancora che Gesù, in tutta la sua
vita, ha compiuto tanti miracoli per asciugare le lacrime e
ridare speranza a molte persone, intervento che chiede anche a
noi. Lui è disposto ancora oggi a moltiplicare i pani e i pesci
per migliaia di persone, ma pretende che facciamo tutto ciò che è
in nostro potere. Vuole che doniamo i cinque pani e due pesci se li
abbiamo. E, se non li abbiamo, vuole che andiamo a cercarli come
hanno fatto gli apostoli. Vuole che noi facciamo la nostra parte,
tutta la nostra parte. Allora, e solo allora, Gesù compie il miracolo. E
se ha curato i ciechi e rialzato i paralitici, chiede anche a noi quei
miracoli». «In che modo?».
«Accompagnando all’ospedale un malato, facendo un intervento
chirurgico, restandogli accanto con cura. Noi impiegheremo più
tempo, ma raggiungeremo lo stesso risultato. Per dare pani e pesci a migliaia
di affamati dovremo fare dei progetti di sviluppo, irrigare
regioni desertiche, smuovere il cuore della gente perché diventi
solidale, dobbiamo in ogni caso fare tutta la nostra parte per
lottare contro la sofferenza. Il buon samaritano del Vangelo ci
dà una risposta molto significativa. Accanto a chi soffre, non
possiamo stare con le mani in mano a guardare.
Il samaritano si fa carico lui stesso delle conseguenze di
quell’aggressione che ha lasciato un uomo mezzo morto sul bordo
della strada. Cura le ferite, si dà da fare, cambia strada,
rinuncia ai suoi
programmi, porta il ferito sul suo giumento fino alla locanda,
chiede ancora a un altro di farsi carico del malcapitato e così anche il
locandiere si prodiga per quell’uomo sofferente.
Prendere un po’ sulle proprie spalle la sofferenza dell’altro
significa alleggerire l’altro e caricare noi stessi della sua fatica
quel tanto che è possibile: è ciò che possiamo e dobbiamo fare. Potremmo
dire con un’immagine che la ‘quantità’ di sofferenza, di medicina che
guarisce il mondo rimane la stessa, ma – almeno nel caso del
samaritano – viene distribuita sulle spalle di tre persone, anziché di
uno solo. La solidarietà è appunto questo. Se noi lasciamo
l’altro nello stato di sofferenza o di qualunque tipo di
miseria senza intervenire quando ne abbiamo la possibilità,
significa che non vogliamo condividere la salvezza del mondo.
Aggiungo ancora che dobbiamo occuparci dell’altro che soffre
perché la sofferenza che gli è stata permessa è tanta quanto
le sue forze possono portare fino all’istante in cui lo
incontriamo e possiamo
alleviare il suo peso. Da quel momento, se lui continua a soffrire
senza la nostra solidarietà, noi diventiamo responsabili per il suo
dolore. Ecco perché bisogna lottare contro la sofferenza. La
beatitudine di chi è povero, piange ed è perseguitato non
viene scalfita: il Lazzaro della parabola evangelica va nel seno di
Abramo pur non avendo fatto nulla, ma semplicemente avendo vissuto
povero e quindi beato, mentre l’Epulone che non lo aiuta e non allevia
le sue ferite viene punito con il più grande castigo.
Gesù stesso si mette dalla parte di chi vive le conseguenze della
carenza nello sviluppo o, se si vuole, dell’immaturità del mondo:
i malati, i paralitici, i ciechi, gli indemoniati, i morti, gli
stigmatizzati peccatori.
Cura i malati in ogni momento, anche di sabato, così è
giudicato eretico e ne porta le conseguenze. Apre gli occhi a Farisei e
Scribi, guide cieche di ciechi, ma questi lo ritengono avverso
alla legge di Dio e Lui ne porta le conseguenze.
Gesù si mette dalla parte degli indemoniati e li cura: per
questa ragione dicono che è indemoniato lui stesso, ma Lui va avanti. Gesù si mette dalla parte dei prediletti e vuole andare fino in fondo nell’umiliazione dovuta al giudizio di persone estremamente piccole e spaventate.
Gesù va avanti nel dolore della Passione, per diventare il
più povero dei poveri: il condannato a morte come schiavo su una croce.
Gesù si mette dalla parte dei peccatori: nel caso dell’adultera impedisce che venga lapidata. Gesù perdona coloro che erano considerati peccatori.
Gesù chiede anche a noi di perdonare agli altri, sapendo che
l’azione di perdonare, quindi recuperare un atto di amore perso,
è l’atto più divino dell’essere umano, anzi è l’atto che più di ogni
altro lo fa uomo. Se un mio fratello uccide un altro fratello,
perché lo uccide? Perché pensa che abbia commesso qualche azione che
merita la morte. Cos’avrebbe dovuto fare invece di ucciderlo?
Perdonarlo, quindi compiere un atto d’amore. Non avendolo perdonato, ha
perso l’occasione di compiere un atto d’amore. E, se io lo
perdono, recupero un atto d’amore perso.
I fedeli ebrei non capiscono un Dio così vicino e Gesù, che
considera Dio così vicino al punto di chiamarLo Padre, ne porta le
conseguenze e viene crocifisso. Se, come Gesù, non avremo paura, anche noi potremo seguire il suo cammino e in questo modo diventare cristiani».
La ricompensa di fare il bene «Perché, Padre, sovente non si è ricompensati per il bene fatto?».
«Mio buon Teofilo, Gesù ci chiede di seguirlo nelle sue azioni, ma non
ci nasconde che, facendo il bene, non sempre se ne riceve la ricompensa,
anzi succede spesso il contrario. E lo dice: se fate come me, vi
capiterà quello che è capitato a me. Hanno perseguitato me e
perseguiteranno anche voi, ma dovete saperlo. Hanno crocifisso me, crocifiggeranno anche voi, d’altra parte, se il chicco di frumento non muore, non porta frutto.
Durante la Messa c’è un momento molto significativo, in cui
dichiariamo con un segno di voler seguire Gesù fino in fondo.
Il sacerdote mette poche gocce d’acqua nel calice del vino per dire,
in altre
parole: Gesù, noi siamo queste poche gocce d’acqua e Tu sei il buon
vino. Noi ci uniamo a Te per essere una cosa sola con Te,
sapendo che avremo la stessa sorte, non solo nella sofferenza.
Tu, infatti, sei stato perseguitato e ucciso e lo saremo pure
noi, ma sei anche risorto e lo saremo anche noi con Te. L’immagine del pane che mangiamo ci aiuta a comprendere. Per diventare
goccia di sangue e quindi vita nel nostro corpo, il grano ha un lungo
cammino: dev’essere seminato nel campo e marcire, poi svestito
della bellezza della spiga, quindi macinato, pressato con un po’
d’acqua, infine rullato e messo a fuoco, spezzato, masticato e
dimenticato nelle nostre viscere, dove muore definitivamente,
perdendo la sua stessa identità. Solo allora viene assorbito per diventare una preziosa goccia di sangue nel nostro corpo.
Non abbiamo bisogno di commenti per capire il tragitto che
dobbiamo percorrere anche noi. Seguendo Gesù ci si imbatte in un
discorso rivoluzionario per il mondo ebreo e anche per la
nostra cultura: era ormai assodato da secoli che chi faceva il bene
riceveva tanta ricompensa e chi faceva il male riceveva tanto
castigo. Nel mondo
ebraico, non essendo ancora chiara la verità della Resurrezione
dei morti, bisognava ottenere già su questa terra la ricompensa
al bene o il castigo per il male che una persona poteva fare.
La fedeltà ai Dieci Comandamenti era perseguita per avere in
ricompensa una bella e buona famiglia che, in qualche modo,
prolungava la vita del buon ebreo. Si offrivano in sacrificio
agnelli, tori o frutti di ogni tipo per ottenere in cambio ricchi raccolti, greggi sani e moltiplicati, vittoria contro i nemici, etc.
Era però evidente che Dio avrebbe punito con miseria, malattia,
infelicità, sconfitte, deportazioni e schiavitù chi commetteva
azioni criminose. La benedizione e la maledizione di Dio scendevano
nella vita del vivente e si potevano estendere a chissà quante
generazioni. Chi soffriva pensava che quella disgrazia fosse
dovuta ai propri peccati o a quelli dei
suoi antenati; allo stesso modo, una vita particolarmente
benedetta poteva dipendere dalle proprie virtù o dal bene fatto dagli
antenati. Già nel libro di Giobbe si cerca di dire in 42 capitoli che
la visione teologica del mondo ebraico non è giusta o perlomeno
incompleta. Riconosciamo comunque che essa ribadisce in sostanza
che il male produce sempre il male e il bene provoca sempre il
bene (il bene è ontologico, non così il male). Ma Gesù spezza
pure tale convinzione. Di fronte a un malato, Gli chiedono
infatti: “Ha peccato lui o i suoi genitori?”. E Lui, il Messia,
risponde: “Né lui, né i suoi genitori”.
Tutto ciò che di gioia o di sofferenza Dio permette per questa o
quell’altra persona è perciò solo ed esclusivamente per il bene della
persona stessa, della sua famiglia, della comunità o del mondo intero.
Molte volte chiediamo la pioggia e arriva la tempesta, ma se arriva
quest’ultima, significa che, in quel momento, abbiamo bisogno di
tempesta più che di pioggia. Il bene può essere questo: arrivare a un
cuore pentito, ricevere un cuore capace di commozione, acquisire
una sensibilità particolare accanto a chi soffre e diventare capace di
fermarsi come fa il buon samaritano». «E, in definitiva, quale sarà la conseguenza di tutti gli errori, pigrizie e immaturità?».
«Sarà il rallentamento della realizzazione del Regno di Dio e dei
Cieli nuovi e Terra nuova. Già all’inizio della sua predicazione Gesù
aveva detto: “Convertitevi perché il Regno di Dio si avvicina”.
Quando non ci convertiamo e rimaniamo pigri nel fare il bene,
il Regno di Dio, per così dire, si allontana, mentre la
purificazione prima della morte o dopo la morte è il processo di
maturazione dei nostri frutti, che ci avvicina al Regno di Dio». «Padre,
oltre a compiere il bene e chiedere la Grazia di vincere il male, che
cosa possiamo fare per continuare il lavoro di salvezza che Gesù Cristo
ha cominciato?». «Possiamo
preparare la nostra celebrazione eucaristica in questo modo:
quando ascoltiamo parole di maledizione o bestemmie, quando
vediamo qualcuno commettere ingiustizie contro altri o compiere
delle disonestà, o qualcuno che non riesce a perdonare gli altri o,
ancora, aprendo il giornale vediamo la foto di un volto
alterato con la didascalia “Ha ucciso la moglie; Ha stuprato la figlia” o
qualche altra mostruosità, possiamo fermarci e chiedere: “Chi è
questo criminale?”. Sappiamo la risposta: “Mio fratello”. Allora
lo porteremo nel nostro cuore, in chiesa con noi e potremo
chiedere perdono a nome suo o a nome loro.
Durante la giornata, ogni volta che incontro chi compie il
male, invece di maledirlo, di riversare rabbia su di lui, posso
assumere e fare miei i suoi sbagli, la sua pigrizia di fare il
bene, l’incapacità di perdonare,
la pazzia che lo porta alle azioni più insane, ecco posso
caricarmi di tutto questo e, quando mi avvicino all’altare del Signore,
posso dirGli: “Guarda, Signore, quante ferite ti ho portato. Ti chiedo perdono
a nome loro, perché non sanno da chi andare per farsi
guarire, per chiedere perdono. Qualcuno, poi, non sa nemmeno che esiste
il perdono, ma io so da chi andare, so che Tu mi aspetti per
perdonare, per guarire queste ferite. Ecco, davanti a Te
presento i miei sbagli personali e questi, che sono anche miei perché
li ho fatti miei, li ho assunti come commessi da me. E adesso
sono qui per chiederne l’assoluzione. Poi alzerò il calice della
salvezza e invocherò il Tuo nome, Signore, anche da parte
loro. Se questi fratelli meritassero una punizione, dimentica che
siano stati loro a fare quelle azioni. I loro sbagli adesso sono
miei: se vuoi, punisci me. In ogni caso Ti chiedo perdono”.
Così, Teofilo, diventiamo corredentori con Cristo. Lui chiede
perdono al Padre a nome nostro e noi chiediamo perdono a nome
nostro e di quella porzione di mondo che ha raggiunto il nostro cuore
direttamente o indirettamente e così diventiamo sempre più colleghi di
Gesù Cristo e corredentori con Lui.
Se il Signore mi fa questo dono, la mia spiritualità cambia volto.
Quando incontrerò quei fratelli e sorelle la seconda, decima o
centesima volta, vedendo gli stessi sbagli comincerò a pregare di più
per loro e li sentirò sempre meno un corpo estraneo e sempre di più
appartenenti a me. Mi abituerò a non dire più: “Se fa cose sbagliate,
peggio per lui”, ma: “Se fa cose sbagliate, peggio per me”,
perché siamo
un unico corpo, siamo nella stessa barca. E se io sono al
motore della barca, non posso disinteressarmi di chi ha in mano
la corda della vela o di chi impugna il remo per direzionare la
barca: tutto ciò che Gesù compie, lo chiede anche a noi, pur
se in dimensioni diverse».
Il Vangelo non è utopia «Padre, a volte mi viene il dubbio che il cristiano sia una specie di extraterrestre».
«La proposta evangelica ti pare un’utopia? Ti racconterò un fatto del
quale sono stato testimone oculare. Mate e suo padre Rusdia
avevano un rapporto molto conflittuale. Quando bevevano – e lo facevano
spesso –, perdevano il lume della ragione e s’insultavano a vicenda.
Tre anni prima, viaggiando in auto con la sorella Barda, Mate
ebbe un grave incidente e lei perse la vita. Da ubriaco, Rusdia accusava
il figlio di essere responsabile di quella morte, mentre Mate
rivendicava la propria innocenza. Gli amici li dividevano e la
rissa tra i due gruppi diventava armata e quindi pericolosa.
Quella sera, mentre i due si riabbracciavano per rifare pace,
dalla rivoltella automatica esplose un colpo che lasciò Rusdia
senza vita. L’incidente era stato involontario, ma tutti pensarono a
un crimine. In
un momento di assoluta confusione, Mate riuscì a fuggire con la
famiglia, prima di rischiare un linciaggio. Io ero rimasto con loro e si
preparò il funerale: avrei accompagnato il defunto in Albania
perché Rusdia era come un padre per me ed ero l’unico che avrebbe potuto
viaggiare con documenti regolari. Dopo pianti interminabili,
tutti i parenti si riunirono per l’ultimo saluto. La famiglia era di
fede musulmana, ma conosceva il Vangelo più del Corano. Facemmo le
preghiere e, da ultimo, ci fu il saluto del figlio maggiore Arko,
che aveva 19 anni, uno in meno di Mate.
Arko pregò così: “Papà, ti abbiamo perso – e fece una lunga
litania di nomi di parenti e amici che, col desiderio e la benedizione,
l’avrebbero accompagnato nel suo ultimo rientro in Patria; nominò la mamma
e scoppiò in lacrime, poi si riprese – papà sei stato ucciso ed io, tuo
figlio, ho il dovere di vendicarti. Perciò, con tutte le mie forze,
chiedo che muoia chi ti ha ucciso, ma non chiedo questa maledizione per
mio fratello, che ha moglie e figli, no, lui deve vivere.
Chiedo che cada solo su di me”. Scoppiarono grida e pianti.
Tutti abbracciammo e baciammo Arko: sapendo che, presso quel gruppo, la
benedizione o la maledizione non sono un augurio ma un fatto
reale, a tutti sembrò che Arko fosse il defunto da salutare.
E, infine, non posso dimenticare ciò che raccontò a Spiridone un
condannato nei campi di lavori forzati in Siberia. Quell’uomo,
rincasando la sera, trovò la moglie in un lago di sangue e, accanto, il
corteggiatore che l’aveva tentata tante volte senza mai
riuscirvi: l’aveva pugnalata. Il marito, dopo un momento di shock, non
si buttò sull’assassino, ma andò a consegnarsi all’autorità costituita,
dicendo di aver ucciso lui stesso sua moglie. Per quello era stato condannato».
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