IL DIALOGO DEI MONACI
pag. 14-25
La preghiera-grido
Si sa che di notte tutto è nero. In quel periodo, da qualunque
parte Teofilo posasse lo sguardo, gli stillavano lacrime e il
suo cuore gridava all’infinito: “Non nascondermi il tuo volto”. Quando
parlava con
il Padre, gli sembrava di rivedere la luce, ma subito dopo veniva il
buio. Anche leggendo la storia della margherita qualcosa parve
illuminarsi in lui ma, appena ebbe terminato, tutto tornò come prima.
Allora il novizio andò nella cappella, questa volta non per pregare, ma
per gridare. Poi prese della carta e volle scrivere, cosa che non gli
era congeniale, ma lo fece. Rivolto verso la tenda del Signore dov’era conservata l’Eucarestia, in quella notte più silenziosa che mai, guardava e scriveva:
Da
millenni, Signore, cerchiamo il tuo volto perché ci hai fatti
assetati di te, desiderosi di vedere almeno un raggio della tua
luce, di udire anche una sola delle tue parole e tu fai
silenzio. Forse ci lasci
in quest’attesa – che non è lunga – per la Celebrazione
dell’incontro? O forse perché, attirati da te, possiamo maturare una
fede adulta? Spesso mi sembra di aver inteso. Ma quanti, come me,
hanno
sentito le tue parole e poi si sono
nuovamente domandati se sei stato proprio tu a parlare! È
possibile che perfino Mosè, in qualche momento di sconforto, abbia
gridato: “Eppure ti ho visto in quel fuoco
che bruciava sopra la montagna. O era un altro fuoco? Non è
possibile che fosse un’illusione: il roveto bruciava senza
consumarsi. O forse il fuoco era più distante e mi sono sbagliato?
Signore, eri tu
a parlarmi o no? Ho già inteso o non ancora le tue parole? “Mio Dio,
mio Dio, grido tutto il giorno e non rispondi”. Perché? Forse hai
già parlato e sono sordo? Faccio pure fatica a credere a chi
dice di
averti visto o sentito, perché sei l’Invisibile e le tue non sono parole
d’uomo. Mi tendi la mano e, in alcuni momenti, ho l’impressione di
sentirla così forte, sicura, dolce. Ma, proprio perché mano di Dio, infinita.
E così, se la mia povera mano di carne vuol sentire la tua piena di
mistero e possederti e toccarti almeno per un istante, non
sente più nulla e si chiude, vuota. “Hanno trapassato le mie mani” ed io non posso stringere la tua.
Ma chi ha fatto il cielo, modellato la terra e portato le
galassie negli spazi? Non io, certo. Chi ha inondato la terra
d’acqua e riempito di vita tutti gli abissi? No, non sono stato io e
nessuno che abbia
cuore, cervello e mani come me. E chi ha tessuto me, nel
ventre della terra? Sei tu, Dio, certo. Sei tu che mi hai
tratto dal ventre di mia madre. Sei tu che al mio nascere mi hai
raccolto e fatto
vivere. Sì, sono sicuro che sei tu e che non potrebbe essere
diversamente, ma perché, se mi volto indietro nella mia povera
storia, vedo solo il volto di mia madre all’inizio della mia vita e non il tuo, Signore?
Signore, non stare lontano da me perché l’angoscia è vicina.
Signore, ho paura di perderti. La mia fede, se ancora esiste, è esile.
Ma nessuno mi aiuta, perché nessuno può aiutarmi: non ho bisogno
della mano di un uomo, ma della tua, che non riesco mai a stringere.
Non mi bastano le parole dei fratelli, ho bisogno delle tue, che non
riesco a sentire e non sentirò mai, perché sono uomo di carne.
Se solamente mi angosciasse il fatto di non averti mai
sentito come sento la voce degli amici, non sarebbe così doloroso. Lo
diventa se penso che in tutti i giorni della mia vita non udrò una sola
parola pronunciata chiaramente da te con evidenza. E sarebbe
ancora sopportabile se ciò accadesse solo a me, invece nessun uomo
della storia ha mai potuto parlare a tu per tu con te, perché le tue parole non sono parole d’uomo e l’uomo non può sentirle. Questo è veramente lacerante.
È vero, e lo ripeto: agli uomini di tutti i tempi e, in particolare, a
quelli degli ultimi millenni, hai dato la possibilità di comunicare con
te. Ma, proprio perché volevi farti capire, hai usato voci
umane. Così, dopo averle
intese con tanta sicurezza, troppe volte è tornato in noi il dubbio
che fossero tue. Hai operato segni e prodigi ma, proprio perché
potessimo vederli, li hai compiuti sulle cose visibili: così, in
breve tempo,
ci tornava il dubbio che quei segni fossero davvero tuoi. Mai
una parola certa! Ahimè, che dico? Le tue alleanze furono parole
alle quali seguirono fatti ben precisi, quindi parole certe. Le nostre
parole hanno la caratteristica dell’incertezza, ma non le tue!
Anzi, esse restano in eterno: è ciò che professa la nostra
fede, ma la parte percepita da noi è quella che si è infranta nel
tempo, altrimenti
non avremmo potuto udirla. È vero, tu non sei un uomo che può
mentire, né un figlio d’uomo che può ritrattare. Perciò non
posso pensare che tu affermi e non mantieni, ma mi dovranno bastare queste tue parole diventate umane, altrimenti la mia fede perderà ogni orizzonte.
Nel libro in cui sono scritte le più belle parole tue e dei miei fratelli, leggo che “in principio era la Parola”.
Ma come avrebbe potuto sentirla l’uomo? Io credo che tu sei
Parola, ma quel passaggio dall’Eterno al tempo, dal tuo cuore – che è
cuore di Dio – al cuore dell’uomo mi lascia confuso.
Nel santo libro della Bibbia sta ancora scritto: “La Parola è
diventata carne”, così, per ciascuno di noi, è stato possibile vederla.
Sì, Gesù Cristo è certo la più bella Parola che hai pronunciato nel
mondo. Ma
anche questa Parola è giunta visibile a me, ancora una volta, in un
uomo. Le parole che abbiamo udito da Lui e i suoi segni erano anche
parole e segni di questa terra. Almeno per una volta potevamo pretendere
di udire una tua parola pronunciata non con la solita voce umana che
già aveva fatto eco nel cuore dei Profeti e di ogni uomo di buona
volontà, in particolare nel cuore di Gesù Cristo! Così la mia fede non avrà mai una risposta su questa terra? Non potrò mai essere sicuro di aver inteso la tua parola “certa”!
Signore, i dubbi della notte mi spezzano, ma a te debbo dire ogni cosa. Signore Dio, almeno Lui
– la Parola tua fatta carne – avrà inteso la tua voce non come
filtrata da un cuore di carne, ma come voce solamente divina?
Signore, ragiono con te: anche Lui, come uomo, poteva intendere
le tue parole, le tue grandi parole divine attraverso il suo
cuore di carne? In quanto uomo, infatti, come avrebbe potuto
intenderle altrimenti? Se così fosse, capirei meglio quel sudore di
sangue alla fine della sua missione. Era forse un estremo
interrogativo che saliva a te dal cuore del primo e ultimo
uomo della storia, nella pienezza dei tempi, per avere una risposta,
una parola di
conferma, un segno che non fosse solo umano, ma divino, affinché
già qui, su questa terra, possiamo essere sicuri di te, che sei
l’Assoluto?
Gesù, che ha fatto la massima esperienza
del Dio vivo e presente in Lui, che ha avuto la più grande
illuminazione di tutti i tempi – in cui ha sperimentato di essere
una cosa sola col Padre e lo Spirito Santo
– Lui, questo Dio, figlio dell’uomo, così umano nella sua vita
quotidiana, mi confonde. Lui, così vicino a me, così simile a
me, debole nel grido e nel pianto come me – beninteso senza peccato –
al punto da
rivelarci che siamo un solo corpo, un tutt’uno con Lui, mi lascia
prostrato, senza parole. Potrei continuare il mio pianto per
lunghe pagine e tu continueresti il tuo silenzio. Nei miei dubbi,
lascia che anch’io, come i discepoli del Battista, vada da Gesù a chiedere: “Sei tu, o dobbiamo attendere un altro?”.
Ma anche tu, Gesù, non mi rispondi più: mi hai già parlato con le
parole più belle del mondo ed ora sei nel Padre, una cosa sola con Lui,
mentre io continuo a gridare col Salmo: “Dio mio, t’invoco di giorno e
non rispondi,
grido di notte e non trovo riposo. Eppure tu abiti la santa dimora,
tu lode di Israele. In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e
li hai liberati”.
Il fatto che abbiano sperato
e siano stati liberati è segno che la tua Parola era veramente
tua? È segno che le parole intese da quel popolo erano davvero
parole di Dio, pur donate dall’eternità al tempo,
dal cuore di Dio al cuore dell’uomo? “A te gridarono e furono
salvati, sperando in te non rimasero delusi”. Sì, è vero: hai
salvato e liberato milioni di volte quel popolo – popolo di Israele –
che ti ha
amato e tradito ripetutamente: nella tua misericordia, l’hai sempre
attirato a te per perdonarlo e ricominciare il cammino. L’hai liberato
dai nemici, dalle disgrazie, ma a me non basta. Non mi basta
che tu mi liberi in questa storia. Ho bisogno che mi porti nella tua
storia, che è eterna: solo allora potrò sentir pronunciare le tue
parole inequivocabili e vedere il tuo volto. Prima di quel giorno
c’è solo l’attesa e la grande Speranza.
Signore Gesù, in attesa della tua venuta, ecco la mia speranza.
Nella notte, Gesù, faccio la mia professione di fede: credo tutto
ciò che c’è stato nel tuo cuore umano. Questa è la mia fede. Anch’io
voglio credere che Dio ha parlato. Donami la Carità, o Signore, per far
nascere in me una fede nuova. Alimenta in me la Fede perché
possa far rinascere la Speranza fino al giorno in cui ti incontrerò nei Cieli nuovi e Terra nuova.
Il
giorno dopo, letta ogni parola con calma, lasciandola
rimbalzare nel proprio cuore come quando leggeva i Salmi di Davide,
l’anziano monaco gli domandò:
«Figlio, perché hai scritto questo?».
E il novizio: «Perché so che torneranno momenti di dubbio. Ci
saranno notti in cui sembra che non compaiano più le luci del
mattino e dovrò rileggere parole di conforto. Sapete che spesso arrivano qui da noi anime scoraggiate: volevo un rotolo per loro».
«Vorrei dirti che all’uomo e non solo a Gesù Cristo è stato fatto il
dono di comunicare con Dio, e nel cuore di Gesù che è umano e
divino si
risolve il Mistero del passaggio della Parola da Dio all’uomo.
Ma adesso sei stanco. Aggiungo soltanto che alle anime disperate
non devi dar rotoli di carta. Accompagnale davanti
all’Eucarestia. Invitale
a inginocchiarsi come ci si inginocchia davanti a Dio, non
importa cosa credono di avere nel cuore, né importa se pensano a
Lui. Se ti ascoltano, parla loro del Natale. Di’ che i pastori,
proprio perché
erano umili e semplici, poveri e piccoli, hanno meritato di ricevere
la rivelazione degli Angeli. La teologia del presepio è la più
semplice: non fa domande, non chiede risposte, semplicemente vuol
vedere un
Bambino avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia. Eppure la loro
notte si è illuminata: hanno incontrato il Signore, probabilmente senza
rendersene conto e senza cercarlo. Il Signore si rivela gratuitamente.
Parla poi ai tuoi amici della Settimana Santa: essi sentiranno
che un uomo che era tutt’uno con Dio e tutt’uno con noi, per
amare – e per amare proprio noi –, si è lasciato crocifiggere.
Parla poi di quei tre giorni prima di Pasqua: la notte più buia del
mondo. Ebbene, anche quella notte si è incendiata di luce nel mattino
di Pasqua. Di’ loro che non c’è più ragione né posto per la disperazione».
Parabola dell’isola disperata
Quando si rincontrarono, Teofilo gli domandò:
«Padre, potrei ripetere una domanda che forse è già stata posta da tutti gli uomini del mondo?».
«Fin quando non abbiamo udito una risposta che riempia il cuore, le nostre domande hanno il diritto di essere ripetute infinite volte, anche se con umiltà dobbiamo riconoscere che non tutte hanno altrettante risposte».
«Alla mia domanda ho sentito le risposte di tanti filosofi, teologi e
uomini di cultura, ma vorrei sapere cosa risponde Dio all’uomo
quando questi grida nel dolore, nella malattia e di fronte alla
condanna a
morte. Proprio all’inizio del libro più santo, Dio si dichiara
soddisfatto per tutte le cose che ha creato: in quella pagina sta
scritto “Dio vide che tutte le cose erano buone”. Padre, quando Lui
ha visto
il dolore nella sua creazione, può aver detto che era buono?
Quando ha visto la morte, che pure era uscita dalle sue sacre mani
creatrici, può aver detto che tutto era buono?».
«Teofilo, se le risposte che hai già sentito non ti sono bastate,
io non ne ho altre. Ti lascio però una storia da meditare, anche se
nulla potrà arricchire ciò che è scritto nella Bibbia. Ma quel
linguaggio spesso
è arduo e tu, Teofilo, hai ancora bisogno di latte e non di cibo
solido: leggi questa parabola, ti aiuterà almeno a dire grazie».
Con quel rotolo di carta, Teofilo ricevette la benedizione e si congedò. Mentre
camminava, sentiva crescere la curiosità ma, sapendo che quelle
pagine non avrebbero potuto dire più di ciò che già aveva sentito e
letto, la offrì a Dio senza sforzo, rimandando la lettura a un altro
momento. Il giorno seguente, terminate le preghiere che ormai erano
diventate il suo cibo quotidiano, prese il rotolo per la meditazione e
lesse:
Una piccola nave, dopo aver
perso ogni controllo nella burrasca, finì per schiantarsi contro
le rocce di una costa sconosciuta dell’oceano. Tutti i
navigatori – uomini, donne e bambini – si salvarono, ma la nave, in pezzi, fu risucchiata dalle onde violente.
Dapprima i naufraghi si riunirono per ringraziare Dio di aver
loro salvato la vita, poi perlustrarono il territorio lungo la
costa, finché
ritornarono al punto di partenza. Solo allora si resero conto di
essere prigionieri sopra un’isola sconosciuta, chissà a quale
distanza dal resto del mondo. Bisognava però ricominciare a vivere, per ubbidire a quella forza istintiva che alimenta il desiderio della sopravvivenza inscritto in ogni essere umano.
Il più anziano, che aveva poco più di cinquant’anni, cercò di
organizzare la vita sociale sull’isola, riuscendovi con discreto
successo. Per lungo tempo non fu facile adattarsi alla coltivazione,
senza esperienza
e senza mezzi adatti. All’inizio, gli uomini cacciavano e
pescavano, senza fare a meno dei frutti di quella buona madre che è la
terra.
Forse a causa delle fatiche sproporzionate,
della solitudine, della paura di un futuro incerto per sé e i propri
figli, col tempo il popolo si votò alla lamentazione. Per ogni
avversità, fatica o sofferenza, primo fra
tutti, il capo alzava al Cielo un grido: “O Dio, perché hai fatto il
mondo in questo modo? Perché i nostri bambini innocenti devono
soffrire? Perché ci affliggono le angosce, le paure e ogni sorta
di male? Perché, o Dio, hai fatto un mondo così sbagliato?”.
Nei luoghi di culto, intanto, si moltiplicavano le liturgie, e tutte le
preghiere si risolvevano nella richiesta: “O Dio, toglici ogni tipo di
dolore”, a cui seguivano
lunghi elenchi di tutti i mali. La seconda invocazione era
invece: “Rendici sempre felici, donaci ogni piacere che la vita può
darci”. Ma, poiché non venivano esauditi tutti i desideri –
bensì solamente
qualcuno, di tanto in tanto – serpeggiava in mezzo al popolo una tale
tristezza per la vita che, tra depressioni e suicidi, sull’isola si
rischiava di compromettere la sopravvivenza stessa. Nessuno riusciva
più ad accettare che Dio permettesse la sofferenza e, di
conseguenza, nemmeno a vedere tutto ciò che di bello e
incantevole c’era attorno.
Il capo, consultando il gruppo dei ministri addetti
alle varie occupazioni, un giorno prese un’importante decisione:
“Visto che stiamo morendo di dolore, di sofferenza e tristezza,
tutti insieme chiederemo a Dio che mandi il suo Angelo a cancellarli
da quest’isola. Poiché nessuno tra noi riesce a capire ancora il
senso della sofferenza nella nostra vita, chiediamo che venga rimossa”.
Tutti si prepararono a fare questa richiesta con estrema serietà.
Digiunarono quaranta giorni e fecero ancora nove novene di
preghiere per meritare di essere esauditi. Giunse così il giorno
sospirato, che dall’alba al tramonto diventò una sola, lunga e ricorrente
preghiera: “Cancella il dolore dalla nostra vita. Cancella il dolore
dalla nostra vita”. Dopo il tramonto del sole, in mezzo
all’assemblea apparve una luce simile a un Angelo: “Siete stati esauditi.
Da oggi il dolore non avrà più dimora su quest’isola”. Quando
l’Angelo scomparve, un grido di gioia incontenibile si levò in mezzo
al popolo, che continuò a ringraziare Dio per l’intera notte, fin quando,
al mattino, tutti si addormentarono in una pace mai sperimentata
prima. Poi la vita riprese e tornò la serenità e la gioia sul volto di
ciascuno.
Un primo risultato si riscontrò il
mattino stesso, quando due mamme partorirono il loro bambino
senz’ombra di dolore. Altri fatti simili si moltiplicarono. Tutti coloro
che avevano emicranie, mal di denti, coliche di
vario genere o ferite, all’improvviso furono liberati dal dolore e
tutta l’isola si ubriacò di gioia. Allora il capo domandò a un
soprintendente: “Perché Dio ha tardato millenni prima di fare questo
regalo all’umanità e,
probabilmente, solo a questa piccola isola?”. Qualche giorno
dopo, però, sopraggiunse un primo problema: essendo quegli uomini
un poco primitivi e violenti, dopo un bisticcio un giovane massacrò di frustate
la moglie, lasciandola sfinita e tutta un livido. Quando si rialzò,
la donna rise in faccia al marito, il quale si rese conto che la
sofferenza non esisteva più e che stava perdendo parte del controllo
sulla sua
famiglia. Quella donna aveva fatto un grave sbaglio e, secondo
lui, meritava una grande punizione. Da allora, anche un semplice
schiaffo al figlio disubbidiente non ebbe più senso. I bambini non avevano
più alcun timore dei genitori, né dei loro insegnanti: anche la
minima punizione fisica risultava inutile (il che, ovviamente,
sarebbe stato positivo, se quel gruppo fosse stato più evoluto).
Nello
stesso
tempo, però, non venivano più avvertiti sintomi importanti. Un
bambino a cui era gonfiato un braccio era morto poche ore
dopo: nessuno aveva notato i segni dei denti di un serpente che aveva iniettato il veleno senza provocare dolore.
Nell’equipaggio di quella nave c’erano pure due medici, che
venivano continuamente consultati o chiamati, quando qualcuno era
visibilmente malato e rischiava di morire. Essi arrivavano, ma senza
poter fare diagnosi:
non potevano capire se il malato aveva un problema intestinale,
al fegato o ai reni, poiché nessun dolore poteva indicare loro una
pista sicura per una qualche terapia. Così sull’isola ci
furono
molti più morti degli anni precedenti, quando il dolore era a
servizio delle diagnosi. Inoltre, la paura di ferirsi, di fare
un incidente – in una parola la paura per il dolore – andava
diminuendo, con conseguenze sempre più devastanti.
A quel punto, il capo si consultò nuovamente col gruppo del
ministero, che decise all’unanimità di chiedere al buon Dio di
liberare il popolo anche dalla malattia, visto che l’aveva già
esaudito circa
la sofferenza. Tutti si prepararono quindi con il digiuno di
quaranta giorni e le novene, come avevano già fatto
precedentemente e anche l’Angelo della malattia fu autorizzato ad
affrancarli da
essa. Quindi si rallegrarono: non ci sono parole per descrivere una
gioia così grande. I malati di tubercolosi, i lebbrosi, coloro che
avevano coliche in atto al fegato o ai reni, i malati di
cuore, chi faceva
una gran fatica a respirare a causa dell’asma, tutti, proprio
tutti, all’istante furono guariti e l’Angelo della malattia lasciò
l’isola, come l’aveva lasciata l’Angelo del dolore.
Il capo riunì poi tutto il popolo per ringraziare Dio, ma non riuscì a
trattenersi: “Questo era il modo in cui Lui avrebbe dovuto creare il
mondo”, disse. Ma i più intelligenti avvertirono qualcosa di molto
strano nei loro
corpi e compresero che in ciascuno di noi, anzi, in ogni organo,
c’è una lotta continua tra microorganismi che, come veri e
propri eserciti, si combattono per mantenere un equilibrio che è
appunto la
vita. Quando infatti i nostri corpi sono assaliti da virus, o comunque
da agenti estranei che possono provocare la morte, intervengono
le malattie per aggredire gli invasori, surriscaldando la temperatura
e scatenando le difese immunitarie fino a quando lo scontro non
termina e si ristabilisce l’armonia necessaria per vivere.
Sull’isola, quindi, la gente ora moriva senza più passare attraverso la lotta
nascosta e invisibile, ma necessaria e benefica, della malattia.
Così, avvertendo che sarebbero morti tutti in brevissimo tempo e
l’isola sarebbe rimasta un cimitero, prima di estinguersi il capo
e il popolo fecero in tempo a gridare al Cielo: “Signore, non
stancarti di noi, ti chiediamo solo più questo favore: comanda al tuo
Angelo della morte di risparmiarci perché possiamo vivere sempre”. Anche
quest’ultima richiesta fu accolta e tutti coloro che stavano per morire
si ripresero: senza dolore, senza malattia ed ora anche senza la morte.
Quasi stentavano a crederlo, ma di fronte all’evidenza non fu possibile
contenere un’esplosione di gioia. Dopo essersi ubriacati di festa,
però, si guardarono attorno e si resero conto che l’isola era
troppo piccola, che, col tempo, l’incremento della popolazione non
avrebbe lasciato spazio per la coltivazione e che il cibo sarebbe
mancato. In ogni caso, tutti si rallegrarono perché avrebbero
vissuto ugualmente, anche senza cibo.
E così
iniziò la storia che avrebbe dovuto essere la più felice di
quell’isola e del mondo intero. Il cibo, infatti, si ridusse davvero
al minimo e così pure le forze vennero meno. Gli anziani
pensavano: “Come sarebbe stato diverso se questo fosse accaduto quando eravamo giovani e pieni di vigore ed energia!”.
A causa della mancanza di cibo e di spazio, il capo avrebbe
voluto decretare una legge per bandire definitivamente le nascite dei
bambini sull’isola, ma non fu necessario, perché le passioni giovanili
per concepire altre vite si erano ormai spente.
Passarono così alcuni secoli e sull’intera isola si finì per
non trovare una sola cellula morta. Gli abitanti non si nutrivano più,
ma nessun attacco di morte poteva aggredirli. Da circa ottocento anni le
notizie erano
le stesse. Parlavano poco, pensavano poco. Non pregavano più.
Non sapevano cosa chiedere al buon Dio, perché avevano ricevuto
tutto ciò che avevano domandato. Non sapevano più ringraziare,
perché tutto sembrava loro dovuto. Non piangevano più: nessuna lacrima
di dolore poteva avere senso su quei volti. Non ridevano più: in
quella situazione sarebbe stato impossibile. Si guardavano
come gli scogli si possono osservare gli uni gli altri,
immobili, sulle rive del mare. Avevano osato pensare che il loro
progetto della creazione sarebbe stato migliore di quello di
Dio stesso e adesso ne subivano le conseguenze.
Anche i più giovani, che avevano ormai sette secoli, non
ricordavano più com’era fatto un bambino, né il gioco di rincorrere le
onde sulla spiaggia. Poiché non erano morte, le cellule della pelle si
erano accartocciate
su tutto il corpo: a distanza, più che esseri umani, quelle
persone sembravano coccodrilli rinsecchiti dai secoli, benché vivi e
coscienti di tutto quel nulla che capitava loro intorno. Ma
anche l’orgoglio merita un perdono, se domandato a Dio stesso, che è
pietoso e misericordioso verso chiunque abbia sbagliato.
Così, un eremita di nome Ezechiele fu invitato in sogno a raggiungere l’isola,
per liberare quel popolo da una condizione insostenibile, che
era diventata il più assurdo progetto sulla crosta della terra. A
causa del suo nome, Ezechiele pensò di essere stato mandato sull’isola
a rimettere il sangue nelle vene dei morti o a ridistendere
la pelle e la carne sulle ossa aride, ma ben presto si accorse
che la sua missione sarebbe stata molto più ardua di quella dell’omonimo profeta.
L’eremita arrivò insieme al sole, che continuava a dar vita –
come aveva fatto per oltre otto secoli – tutti i giorni,
uguali e monotoni uno più dell’altro, visto che erano privi di tutto e
persino della morte. E domandò cosa fosse capitato all’origine
della loro sventura. Con un fil di voce, i più anziani
raccontarono del naufragio e specialmente del rifiuto di accogliere il
progetto di Dio, anche se misterioso: “Avevamo dovuto faticare
tanto per sopravvivere senza mezzi, tra sofferenze, malattie e morte.
Ci parve che ogni male si fosse abbattuto sopra di noi in
modo sproporzionato. E ci lamentammo all’infinito di ciò che
Dio permetteva nella nostra vita. Ci siamo rifiutati di accettare un
mondo fatto così e l’abbiamo implorato di liberarci: vennero l’Angelo
della sofferenza, poi quello della malattia e infine della morte
e ci concessero quanto richiesto”. Mentre parlavano, Ezechiele
piangeva. Aveva capito che gli toccava scavare sotto quelle cortecce di
pelle ancora umane per raggiungere i cuori, che pure segnavano il ritmo
del tempo: bisognava riscaldarli nuovamente, poiché erano ormai
incapaci di amare.
Un uomo che non ama muore,
ma essi non potevano morire: questa era la loro disgrazia. Da
secoli non avevano più avuto bisogno di amare nessuno, né di
essere amati per poter vivere. Il loro
cuore pulsava il sangue nelle vene e le sinapsi del cervello non si
erano ancora addormentate, ma avevano disimparato a fare un
qualunque servizio per qualcuno, poiché nessuno ne aveva più avuto bisogno.
Su quell’isola si era disimparato a far coraggio, a consolare,
ad asciugare una lacrima, perché di tutto questo per secoli
non c’era più stato bisogno. Non si sapeva più perdonare, perché nessuno chiedeva perdono e si era dimenticato Dio stesso, pensando che non dovesse più fare nulla.
Ezechiele pregò e digiunò a lungo. Poi, come a dei bambini,
insegnò loro nuovamente le preghiere del mattino e della sera.
E, prendendo a ciascuno la mano destra, gliela portava sulla fronte,
sul petto, poi ancora alla spalla sinistra e destra. Infine
ricongiungeva le loro mani e passava accanto a un altro. Per
intere giornate fu questo l’estenuante lavoro di Ezechiele.
Qualcuno gli domandò: “Perché lo fai?”. “Vedi, è il segno della croce
e su di essa ci sono la sofferenza che voi avete rifiutato e la
malattia – vale a dire l’infezione, il tetano, l’avvelenamento, il
soffocamento – da cui avete voluto essere liberati. E, ancora,
sulla croce c’è la morte, di cui avete bisogno più di ogni cosa”.
L’eremita parlava loro, ogni giorno, di Gesù, di
come aveva vissuto, amato, sofferto ed era morto. Poi raccontava
la storia del terzo giorno, il giorno della Resurrezione. “Come
sarà la vita dopo la Resurrezione?”,
gli chiesero infine. “Lo sapremo quando Lo vedremo faccia a
faccia”. Così Ezechiele prese a gridare: “Pregate e ripetete con me:
Signore!”. “Signore”, ripeterono. Poi urlò: “I tuoi pensieri non
sono i nostri”. E tutti insieme risposero: “I tuoi pensieri
non sono i nostri”. L’uomo di Dio continuò a proclamare, mentre il
popolo ripeteva le sue parole: “Le tue strade non sono le nostre;
Abbiamo preteso di fare un mondo migliore del tuo; Ti
chiediamo perdono; Manda i tuoi Angeli accanto a noi; Li
accoglieremo”.
Tre uomini vestiti di luce arrivarono quindi dal mare ed
entrarono sull’isola. Gli abitanti, allora, iniziarono a piangere
e continuarono per mesi, mentre le fibre dei loro corpi, come
cristallizzate, si sciolsero e il dolore, entrando nella loro
carne, li abbracciò. Poi vennero la febbre, il sudore, il
respiro affaticato di tutte le malattie, finché il terzo Angelo
li prese per mano. Mentre stavano morendo gli ultimi, Ezechiele
prese la corda della piccola campana rimasta silenziosa per secoli e
iniziò a suonare dapprima i suoni della Passione, poi della Morte
e infine della Festa. Era il mattino di Pasqua”.
Prima che spuntasse il nuovo giorno, appena terminate le preghiere, il Padre chiamò Teofilo:
«Hai letto il rotolo che ti ho dato?».
«Sì, e mi sono accorto di essere simile a un bambino che ha
bisogno di parabole, più che a un adulto-scienziato in cerca
di risposte per tutto. Oggi anch’io posso rivolgermi a Sorella
Morte, come la chiamò il caro Francesco, e benedire il suo nome.
Dicendoti che sono un bambino, riconosco pure che nelle mie
domande ci sono molte ingenuità, ma in ogni caso mi sento capito da Voi
al punto da trovarmi a mio agio per qualunque richiesta».